67a Stagione Sinfonica Orchestra di Padova e del Veneto - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
sabato 21 aprile 2012
Ore: 17:00

Felix Mendelssohn Bartholdy, Concerto n. 1 in sol minore op. 25 per pianoforte e orchestra
Ludvig van Beethoven, Quintetto in mi bemolle maggiore op. 16 per pianoforte e fiati
Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto in do maggiore K 503 per pianoforte e orchestra

Biglietteria

67a Stagione

Abbonamenti
Interi: da € 252,00 a € 157,50
Ridotti: da € 189,00 a € 115,50

Biglietti
Interi: da € 19,00 a € 10,00
Ridotti: da € 15,00 a € 8,50

Il Cast

Direttore e Pianoforte: Francesco Piemontesi
Orchestra di Padova e del Veneto

Note di sala

A cura di Mariateresa Dellaborra

Il concerto n. 1 in sol minore op.25 è tra le opere più conosciute ed amate di Felix Mendelssohn Bartholdy. Affermatosi fin dalla prima audizione come brano sorprendente e stravagante, grazie alle idee cicliche (ripresa del secondo tema, reminiscenza nel motivo centrale e nel finale), alla mancanza di pause e ritornelli dell’orchestra e all’uso di fanfare nei tre movimenti, provocò un giustificato scalpore e innumerevoli tentativi di imitazione. Composto nel giro di pochi giorni, (tra il 1830 e il 1831) frutto di un’estasi creativa piuttosto frequente nel giovanissimo Felix, non mancò neppure di suscitare commenti da parte di illustri colleghi. Schumann, ad esempio lo descrisse nel seguente modo: «Avresti dovuto vedere Mendelssohn suonare il concerto […]. Quello si sedette ingenuamente al pianoforte come un bambino e prese un cuore dopo l’altro, trascinandoselo dietro a schiere, e quando li lasciò di nuovo liberi, ciascuno sapeva di essere volato in alcune isole greche degli dei […].» Questa sua opera è un «dono leggero e sereno perché egli sempre muove col suo solito passo giocondo; nessuno ha sulle labbra un sorriso più bello del suo […]».

La forma è libera in tutti i movimenti e in particolare nel primo, Molto allegro con fuoco, si evidenzia dalla mancanza dell’esposizione orchestrale introduttiva e dall’alternanza rapida tra orchestra e solista nell’esposizione e nello sviluppo degli elementi tematici. Il primo vero tema è enunciato energicamente dal pianoforte, che, per un ampio tratto, domina la scena con passaggi di bravura, mai abbandonati neppure quando il tutti introduce un secondo motivo. La ripresa del primo tema, un improvviso e audace passaggio modulante preannunciato da trombe e corno, preparano alla nuova entrata del solista che, attraverso un passaggio assolo, trapassa senza soluzione di continuità nell’Andante. Un’espressività dolce e serena sostenuta da un’ispirazione continua rendono affascinante questa pagina, una vera e propria romanza senza parole. Nella declamazione del canto, dalla linea perfetta, non solo è coinvolto il solista, ma anche i vari timbri dell’orchestra tra cui, e con un ruolo preponderante, i violoncelli. Similmente al precedente, questo tempo non si sospende in modo netto, ma si trasforma in un Presto che crea una zona di passaggio dal carattere armonico incerto sino al Molto allegro e vivace dove finalmente ha modo di espandersi il nuovo clima brioso ed energico. Un tema spavaldo seguito da un delicato passaggio pianistico sono il preludio per un vero e proprio episodio sussurrante e sommesso in cui il pianoforte dialoga in pianissimo con l’orchestra. L’enfasi iniziale e i passaggi di bravura riprendono subito dopo in una coda che assomma frasi cantabili declamate all’acuto dall’orchestra e virtuosismi in ottava del solista. L’esecuzione, secondo la migliore tradizione pianistica mendellshonniana, richiede foga e spontaneità, ma nel contempo abbandono e fluidità; tocco legato e cantabile, ma anche robusto e brillante.

Il Quintetto in mi bemolle maggiore op. 16 per pianoforte e fiati fu scritto da Beethoven tra il 1796 e il 1797 probabilmente su sollecitazione del famoso virtuoso di clarinetto, Josef Beer, col quale il compositore era in contatto e per il quale probabilmente aveva già scritto il Trio per clarinetto, violoncello e pianoforte op. 11. Sono gli anni di studio e di apprendistato duranti i quali il sedicenne Ludvig investiga, analizza approfonditamente le opere degli altri autori, ma sono anche i tempi dei viaggi come virtuoso di pianoforte, non sempre apprezzato o compreso. Vienna è però la città che ha eletto a proprio domicilio, dopo il trasloco dalla natia Bonn, ed è proprio in questa capitale della musica che respirerà il clima più consono per creare. Il pubblico cosmopolita, attento ad assaporare le novità del momento, che propongono commistioni di stili diversissimi (da quello galante all’ Empfindsamer, dall’italiano al viennese), la presenza di maestri come Haydn, Salieri e di un teorico come Schenk, la frequentazione delle case di aristocratici mecenati rendono esaltante la sua permanenza in città e nel contempo lo inducono a comporre. Porta così a termine variazioni, minuetti, rondò, sonate e varie composizioni da camera tra cui la sonata per corno e pianoforte op, 17 e il quintetto op. 16. La pietra di paragone per questa composizione è il Quintetto K. 452 di Mozart concepito per lo stesso organico strumentale. Il modello è evidente non solo nella forma esteriore in quattro movimenti (Grave, Allegro ma non troppo, Andante cantabile, Rondò allegro ma non troppo), ma anche nello spirito intimo, nella natura dei temi e nella distribuzione dei ruoli. In un’acuta analisi della pagina, il musicologo Charles Rosen ha voluto accostare l’op. 16 al celeberrimo Settimino op. 20 per clarinetto, corno, fagotto, violino, viola, violoncello e contrabbasso – brano che Beethoven completa due anni dopo (1799-1800) -, definendole classicheggianti anziché classiche, come le composizioni di Hummel, in quanto riproduzioni di forme classiche  – di quelle di Mozart in particolare – basate dunque su modelli esteriori, mero esito di un impulso classico. Nonostante questo legame inconfutabile, lo stile intimo della musica da camera rivela già la ricchezza dell’inventiva tutta beethoveniana, la fertilità di idee e l’audacia di certi abbellimenti cromatici (presenti ad esempio nell’Andante cantabile). La composizione, pensata per strumentisti a fiato specifici, fu in seguito trascritta anche per archi, adattando ovviamente le tessiture ai nuovi strumenti e testimoniando quanto fosse cara e preziosa al suo autore.

Con il Concerto in do maggiore K 503 per pianoforte e orchestra, Wolfgang Amadeus Mozart concluse trionfalmente il ciclo di dodici opere create negli anni 1784-1786 per arricchire le stagioni concertistiche di Vienna, venendo incontro alle esigenze del folto pubblico che in genere gremiva le sale dei concerti. L’autore stesso lo eseguì per certo almeno una volta in quella città nel 1787, in una delle rare apparizioni pubbliche come pianista nel periodo finale della sua vita, e nel 1789, a Lipsia, durante il viaggio del principe Lichnowsky. La critica di quest’ultimo concerto, apparsa sulle colonne dell’Allgemeine Musikalische Zeitung, fu entusiastica, ma dal resoconto privato di Roschiltz si apprende che la composizione pianistica non venne neppure eseguita in prova in quanto Mozart congedò gli orchestrali con queste parole: «le parti sono scritte giuste, voi suonate bene e io pure». Sette anni dopo la sua morte, la moglie, Kostanze Weber, fece stampare a proprie spese il concerto dedicandolo al principe Luigi Ferdinando di Prussia.

Il KV 503 fu completato il 4 dicembre 1786, due giorni prima della sinfonia intitolata alla città di Praga (KV 504) e le due composizioni, pur con le loro peculiarità, sono accomunate da una concezione formale imponente, oltre che da una ricchezza di scrittura e da un’originalità inconsueta di motivi. La tonalità di impianto è do maggiore, ma in particolare nel primo e nel terzo tempo essa è messa continuamente in discussione sia dall’intermittente passaggio alla corrispondente minore sia dalle modulazioni ad altri ambiti, talora anche molto lontani. Il primo tempo, Allegro maestoso, si apre con un solenne preludio a piena orchestra, in cui i fiati hanno ruolo significativo, e prosegue con l’intonazione del tema principale, brevissimo e dal forte connotato ritmico (piuttosto inconsueto in Mozart), che darà vita a un complesso gioco dialettico tra gli strumenti dell’orchestra ma che coinvolgerà anche il solista. A questo succederanno altri quattro motivi tematici interessanti, rigorosamente inseriti in forma sonata, tutti intrecciati dai vari strumenti ma in modo continuamente diversificato, sebbene le entrate del pianoforte solo rivelino costantemente l’intenzione di riallacciarsi all’idea del tutti. Ad esempio il ritorno del primo tema nella ripresa è preceduto da un lungo intermezzo prima dialogato, poi liberamente virtuosistico che rende l’atmosfera sempre più festosa ed eroica. In netto contrasto si pone l’Andante seguente, in forma sonata. Il clima di fantasticheria è creato grazie a figurazioni dal carattere improvvisativo, virtuosistiche, non definite da un punto di vista melodico, cui segue un’estatica frase del pianoforte, una “poetica riflessione” (Della Croce) che trova come interlocutori privilegiati flauti prima, oboi e fagotti poi. Il rondò Allegretto riproduce la struttura canonica della danza, ma affida la sua originalità alla delicatezza del ritornello e ai cinque episodi che si presentano ogni volta profondamente differenti, fondendo vari modelli di riferimento (francese, italiano). Durezze armoniche, spesso causate da ritardi, alternanza di modo maggiore/minore, esplorazione di varie tonalità accentuano la vigoria del movimento alla quale offre un contributo davvero significativo l’orchestrazione fantasiosa soprattutto nelle parti dei fiati.