Le date
Bartók, Schizzi
Béla Bartók, Rapsodia per violino e orchestra n. 1
Béla Bartók, Rapsodia per violino e orchestra n. 2
Béla Bartók, Canti contadini ungheresi
Béla Bartók, Suite di danze
Biglietteria
Prove Aperte
Biglietti: Euro 10,00/8,00 + prevendita
67a Stagione
Abbonamenti
Interi: da € 252,00 a € 157,50
Ridotti: da € 189,00 a € 115,50
Biglietti
Interi: da € 19,00 a € 10,00
Ridotti: da € 15,00 a € 8,50
Il Cast
Direttore: Tito Ceccherini
Violino: Marco Rizzi
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Guida all’ascolto di Marcello Sirotti
Visto sulla carta, un programma di concerto dedicato esclusivamente ad un unico autore può far pensare ad una ricorrenza speciale o una rassegna. Ma l’omaggio che quest’oggi i Pomeriggi vogliono offrire all’altissimo nome di Béla Bartók risponde non tanto a esigenze incidentali quanto, piuttosto, all’istanza di puntare una lente d’ingrandimento su una figura-chiave della storia musicale del Novecento; anzi, meglio, su un segmento del suo iter creativo. Solo uno sguardo prolungato infatti permette di prendere pieno possesso di un mondo sonoro tanto speciale; frammentarlo in mille scaglie qua e là sarebbe stata forse operazione dispersiva, meglio quindi un ascolto compatto e a senso unico. Sarà la ricchezza degli stimoli musicali, così implicita nell’opera di Bartók, a decidere la varietà della serata: a ben pochi autori sarebbe concesso di tenere banco tanto autorevolmente dalla prima all’ultima nota di un’esecuzione sinfonica.
Per accostarsi al Bartók di quest’oggi, che si potrebbe definire “ormai maturo e consapevole”, è necessario anzitutto fare un passo indietro e risalire all’ultima fase di formazione giovanile, quella che ci consegna un compositore già discretamente affermato, specialmente oltreconfine, ed un pianista di altissimo profilo, in grado di contendersi la scena europea con i migliori virtuosi dell’epoca. In più animato da un interesse nuovo e raro: la etnomusicologia. Bartók si tuffa, a far capo dal 1905, in questa materia ancora inesplorata nel suo paese, prima solo poi insieme all’altro grande personaggio della scena musicale ungherese del tempo: Zoltán Kodály. Instancabilmente, in pellegrinaggi che si estenderanno anche al resto dei Balcani, al Nord Africa e all’Anatolia, Bartók “draga” in lungo e in largo paesi e campagne, a caccia di testimonianze dal vivo di tracce di musica popolare. Con fonografo e taccuino alla mano, raccoglie e riordina un’infinità di materiale, ne razionalizza il contenuto ed intuisce l’intrinseca ricchezza della miniera appena scovata: non tanto e non solo per un repertorio folklorico fine a se stesso quanto, cosa che applicherà fino alle ultime opere, per l’apporto vitale che esso può dare alla musica cosiddetta ufficiale. Il tutto con l’intento, ampiamente condiviso con Kodály, di dare dignità e significato ad un patrimonio musicale veramente “nazionale”, affrancato da quel cliché che lo dipinge tutto czárdas, orchestrine tzigane e violinisti fra i tavoli. Affiancato a una curiosità costante verso tutto ciò che intorno si muove (dalla valanga straussiana, alle sonorità liquide dell’impressionismo, ai graffi dell’espressionismo) e fuso con una straordinaria inventiva originale, l’impulso vitale della musica popolare diventa così, e lo rimarrà per sempre, il tratto costante della cifra bartókiana. E ciò che poteva ridursi ad un mero censimento, forse destinato a una polverosa fonoteca di Budapest, si è invece tradotto nella spina dorsale di tutta un’ossatura creativa, cui il Novecento deve molto. La finestra che apriamo su questo Bartók, che copre un arco di tempo fra il ’14 ed il ’33, ci offre già uno spaccato significativo in tal senso.
L’ascolto si apre con quello che il catalogo riporta come uno dei brani più recenti del programma: Schizzi, composto nel 1931. In realtà, il collage approntato in quell’anno è frutto della trascrizione per orchestra di piccoli brani pianistici nati ben precedentemente, per la precisione fra il 1908 ed il 1911, e riconfezionati ora in un’unica raccolta. I cinque pannelli che formano il quadro unitario svelano già dai titoli singoli, così evocativi, la loro missione descrittiva ed è fortissimo il riferimento a paesaggi, suoni ed umori legati al contesto popolare ed al ritmo dei campi. Dalla Veglia presso gli Székelys, ispirata all’etnia ungherese di Transilvania, fino alla conclusiva Danza dei porcari, la linea degli Schizzi si snoda seguendo il battito della descrizione miniata, spesso a colori vividi, altre volte brunita da un velo di nostalgia. A decidere il timbro, la scelta della griglia orchestrale, vero segreto dell’arte del trascrivere. Bartók magistralmente sfrutta le frequenze della suo organico “standard” seguendo le urgenze della descrizione: un suono più acuto e trasparente, affidato principalmente ai cosiddetti “fiatini” (flauti, oboi e clarinetti) ed al tintinnio del triangolo per i momenti meditativi, l’aggiunta di squilli di trombe quando il quadro si presenta più brillante e serrato e, al contrario, l’aggravamento verso un timbro scuro e percussivo, con l’impiego di tuba, timpani e grancassa se il passo di danza si appesantisce e si cerca l’effetto di un piede battuto a terra: studiati colpi di pennello sulla tela solida degli strumenti ad arco.
Ed è proprio su quest’ultima famiglia, anzi sul violino che ne è principe, che si incentrano la seconda e la terza tappa della nostra maratona bartókiana. Se appare normale e conseguente che Bartók, eccellente pianista, abbia dedicato al suo strumento un gran numero di composizioni, è altrettanto innegabile che gli archi abbiano sempre goduto di un’attenzione speciale da parte del compositore. A prescindere dalla scrittura squisitamente orchestrale, che mai li ha relegati a mero sfondo per i virtuosismi di altri, la predilezione di Bartók verso gli archi ha preso forma concreta nella collezione insuperabile dei 6 Quartetti, a detta di più critici l’apice dell’intero catalogo del compositore, in un tardo Concerto per viola e in un buon numero di opere dedicate al violino solista. Di queste ultime, le due Rapsodie si mostrano, al di là del piacere dell’ascolto, come lavori di estremo interesse sotto molteplici punti di vista.
Nel corso della carriera, in Ungheria prima negli Stati Uniti poi, Bartók fu sempre circondato da violinisti eccellenti. Suoi colleghi, amici e “cavie” furono nomi di prima grandezza nel firmamento violinistico dei primi 50 anni del Novecento, dal connazionale Imre Waldbauer, a capo del glorioso quartetto omonimo, fino alla superstar Yehudi Menuin, per il quale fu scritta nel ’44 la Sonata per violino, uno degli ultimi capolavori.
Fra i virtuosi di riferimento, spiccano i nomi inconfondibilmente magiari di Joseph Szigeti e Zoltán Székely, i quali occuparono un posto molto speciale fra i partner di Bartók. Szigeti, violinista di caratura internazionale, non solo ispirò la vena del compositore ma si rivelò decisiva figura di riferimento anche riguardo alle cose della vita. Fu lui a promuovere il nome di Bartók anche nei non così rari “momenti no” del compositore, favorì il contatto con le personalità musicali più importanti e più disparate (uno fra tutti: il clarinettista Benny Goodman), aiutò anche materialmente l’amico Béla nei complicati anni americani, giungendo a procacciargli a sua insaputa la commissione del Concerto per Orchestra, forse fra tutte la sua pagina più celebre.
Dal canto suo Zoltán Szekély, violinista meno appariscente ma con lo sguardo orientato al futuro e forse ancora più attento nel tradurre le sperimentazioni sullo strumento, influenzò enormemente il lavoro di Bartók. Per Szigeti e Szekély, rispecchiando le loro ben diverse personalità musicali, furono scritte rispettivamente le Rapsodie n.1 e n.2.
Composte più o meno parallelamente, nel 1928, nella versione originale per violino e pianoforte, le due Rapsodie hanno invece conosciuto uno scarto di diversi anni per quanto riguarda la versione orchestrata. Praticamente immediata la doppia veste della prima (Szigeti tenne a battesimo a Londra, nell’arco di pochi mesi, entrambe le versioni); più diluita nel tempo e più rielaborata l’orchestrazione della seconda, conclusa nel ‘35 e pubblicata solo nel ’44.
I due lavori seguono lo schema classico della rapsodia ungherese, consacrato a suo tempo da Liszt, che prevede l’accostamento di due movimenti contrastanti: il Lassù, di andamento lento e malinconico ed il Friss, movimento di danza via via più frenetico.
Ad offrire il materiale musicale, neanche a dirlo, spunti di motivi popolari rielaborati in chiave “colta” e assemblati piuttosto liberamente, come è tipico della forma rapsodica, lasciando in risalto le capacità tecniche del solista. Poco importa se lo sfondo sia un’austera sala da concerto o la piazza del villaggio, lo spirito di queste rapsodie si incarna nell’emozione “tzigana” che il violino riesce a trasmettere: trucchi del mestiere, da uno smaliziato glissando languido ad un’indiavolata cavalcata fra figurazioni rapidissime.
Più lineare la prima Rapsodia, costruita sull’intreccio di motivi ungaro-rumeni ed un movimento rapido riepilogativo, praticamente autosufficiente, che potrebbe essere un perfetto bis di fine recital (fu lo stesso Bartók ad autorizzare l’esecuzione separata dei due movimenti).
Più ragionata e “cerebrale”, invece, appare la seconda delle rapsodie, tagliata sulle caratteristiche di Szekély e basata sulla miscellanea di un più ampio numero di temi balcanici. Il movimento lento ora non si muove così libero ma si assoggetta allo schema di una sorta di rondò nel quale il motivo principale riappare ciclicamente. E ancora più articolato appare il tempo rapido, costruito quasi su scaglie tematiche libere e sempre pronto a lanciarsi in combinazioni azzardate: zoppie ritmiche così tipiche della musica di quei luoghi e, armonicamente, accordi dissonanti trascritti fedelmente dalle registrazioni fonografiche, carichi di una forza d’urto di modernità sorprendente.
Alla madre terra si torna con la raccolta dei Canti contadini ungheresi e con la conclusiva, celebre Suite di danze. Per i Canti vale tutto quanto si è detto a proposito degli Schizzi di apertura: stessa genesi e stesso tempistica di elaborazione, secondo uno schema che ormai ci è familiare. Anche qui infatti si tratta di una raccolta di frammenti popolari (in questo caso scovati intorno al 1910 a Ipolyság, ora in Slovacchia, grazie all’aiuto di un oscuro archivista locale), codificati in una prima stesura per pianoforte fra il 1914 ed il ‘18. L’orchestrazione di alcuni di essi, che formano I Canti contadini all’ascolto odierno, risale invece a parecchi anni più tardi, esattamente al 1933, culmine di un periodo avaro di idee originali ma ricchissimo, peraltro, di preziosi lavori di trascrizione. Stesse atmosfere agresti, stesso contrasto fra tempi lenti e tempi rapidi.
Nel 1923 cadeva il cinquantesimo anniversario della Budapest odierna, nata dall’unione di tre città limitrofe: Buda, Óbuda e Pest. Nell’occasione si tennero celebrazioni di vario tipo e, per quanto riguarda la musica, fu organizzato un grande concerto per il mese di novembre destinato a dare ampio spazio alle figure più significative del panorama nazionale. Bartók, Kodály e Dohnányi vennero così invitati a contribuire alla cerimonia offrendo, ognuno, una composizione di nuovo conio in grado di dare lustro a questa vetrina di ritrovato orgoglio nazionale. L’apporto di Bartók fu la Tancszvit, alla lettera Suite di danze.
A formarla una sequenza ininterrotta di sei piccoli brani, della durata media di 2-3 minuti. Sei quadretti che volano via, allacciati l’uno all’altro da un Leitmotiv, un filo conduttore che fa da ritornello ed introduce le danze una ad una. L’idea di Bartók è quella di offrire non lo spaccato folklorico di un certo luogo specifico ma la miscela di tante voci dei luoghi più disparati. I temi (in questo caso non originali ma creati ad hoc) si rifanno così a motivi valacchi, slovacchi, perfino arabi e, naturalmente, ungheresi. Affiancati e a volte intrecciati sotto l’unica campata della suite, formano una specie di puzzle composito che sarebbe difficile immaginare a pezzetti ma che lascia fondamentalmente integre vitalità e forma di ogni singola tessera che lo compone.
Ecco, le microforme. Il rispettoso Bartók le cristallizza, le rende ragionevoli, le fa sue pur partendo dalla considerazione di base che vuole la musica popolare, per sua stessa natura, insofferente alle forme precostituite. Ogni cellula ospita, pur se in scala ridotta, una costruzione compiuta e a séstante; la mano sapiente dell’autore dà senso unitario al tutto, riportando verso un unico recinto le singole voci della babele danubiana.
Ma al di là dei ragionamenti teorici, che si snodano fra perimetri precisi e scintille ispiratrici, quanto spirito irrequieto trapela dagli ordinati pentagrammi! Tolti gli abiti da cerimonia nazionalista, il vero Bartók traduce in suoni le inquietudini del suo tempo, della sua terra, di sé stesso. Colori sinistri su sfondi vitrei, pugnalate ripetute a tutt’arco, glissandi di arpa ad aprire chissà quali porte, l’unisono bruno e nasale di oboe e corno inglese: tutte pennellate forti a screziare l’ingenuo quadretto degli abiti della festa e dei piedi saltellanti. A passo di danza e incalzato dalle urgenze celebrative, Bartók svela, ancora una volta e comunque, le cifre del suo stile unico e personalissimo: quelle di un autore vicino a tutti gli “ismi” del suo tempo e mai rinchiuso in nessuno di essi. Attento, libero, per nulla schiavo del nuovo a priori, il Maestro ungherese ha introdotto, per vie incruente, modelli audaci che hanno deciso le sorti di tutto il secolo musicale e sotto la bandiera dell’alfabeto poco più che primitivo della musica popolare, ha aperto strade ampie e nuovissime lungo le quali hanno camminato generazioni di musicisti a venire. La sua grandezza si traduce non in uno o più colpi di genio creativi ma in un lavoro incessante di sintesi e di elaborazione, che ha saputo coniugare fino all’ultimo rigore scientifico ed inventiva; a tutto questo si deve il giudizio unanime del mondo musicale contemporaneo, che ha assegnato a Bartók un posto di assoluta prima fila, collocandolo fra gli autori fondamentali del Novecento storico.