Le date
Giochino Rossini, La cambiale di matrimonio, sinfonia
Mozart, Concerto per flauto e orchestra
Franz Schubert, Sinfonia n. 2 D 125
Biglietteria
Prove Aperte
Biglietti: Euro 10,00/8,00 + prevendita
67a Stagione
Abbonamenti
Interi: da € 252,00 a € 157,50
Ridotti: da € 189,00 a € 115,50
Biglietti
Interi: da € 19,00 a € 10,00
Ridotti: da € 15,00 a € 8,50
Il Cast
Direttore: Giancarlo De Lorenzo
Flauto : Giampaolo Pretto
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Guida all’ascolto di Sergio Casesi
Gioacchino Rossini: La cambiale di Matrimonio, Sinfonia
La Cambiale di Matrimonio fu la prima opera di Rossini messa in scena, Venezia, Teatro San Moisè, 3 novembre 1810.
La Sinfonia iniziale, con un pizzicato che lancia un irriverente solo di corno, sporge su una “Sala nella casa di Mill, semplicemente elegante, che communica a’ vari appartamenti. Un tavolino con l’occorrente per iscrivere, sedie.”
Si tratta di una farsa semplice ma funzionale al talento del diciottenne Rossini. Gli elementi ci sono già tutti per un impasto divertente e sapido. Per Sir Tobia Mill le cose sono un po’ confuse:
“Chi mai trova il dritto, il fondo a cotesto mappamondo? Chi m’insegna il come, il quando
di piantar la calamita, e la bussola adoprando, chi m’insegna a navigar? … Ah non combinasi la longitudine, mi vado a perdere in latitudine, il polo abbassasi, manca la linea, la calamita perde il magnetice. Oh, mi confondo col mappamondo, e della bussola non so che far”
e solo un accordo con il corrispondente americano può dargli pace, solo l’amico d’oltremare può essere un buon partito per la figlia. Ma l’amore ha altre regole, non si piega a cambiali di alcun genere, almeno a teatro. Così spetterà al libretto di Gaetano Rossi, e soprattutto alla musica di Rossini, imbrogliare e sbrogliare la matassa, fra scambi di battute, caricature ed entrate e uscite ad effetto: nessuna paura, Fanny, la figlia, finirà senz’altro fra le braccia dell’amato Milfort e tutto si risolverà senza dolori per nessuno. Le mogli non si ritirano, dice Rossini nel Tutti finale: “Come consola il core un fortunato amore! Brillar fa una bell’anima l’altrui felicità.”
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto per Flauto e Orchestra K 313
Composto tra l’ottobre del 1777 e il febbraio del 1778, il Concerto per Flauto in Sol Maggiore di Mozart risente ancora dello stile salisburghese e quindi, più che di stilemi fissi o modelli a cui doversi attenere, soffre forse la presenza ingombrante, anche se amatissima, di Leopold, il padre del grande genio. Non che questo metta in pericolo la composizione, ma leggendo il carteggio di quel periodo non si può non notare la voglia di Mozart ventiduenne di indipendenza e autonomia. Sono mesi per Mozart di viaggi e di conquiste: Mannheim, Parigi, la scoperta dei grandi pianoforti Stein. Sono mesi di successi e di piacevoli commissioni. Anche il Concerto in Sol Maggiore per flauto, scritto per l’olandese De Jean su mediazione dell’amico flautista G. B. Wendling, è una prova di come il nome di Mozart fosse già conosciuto e ammirato in tutta Europa. Eppure nell’animo del compositore la voglia di libertà, la voglia di innamorarsi, sposarsi e fare una famiglia, di mantenersi con la sola composizione rifiutando l’insegnamento si fanno sempre più forti.
Carissimo papà, non so scrivere poeticamente; non sono un poeta. Non posso suddividere così artisticamente le parti del discorso da dare luce ed ombra; non sono un pittore. Non so esprimere neppure con cenni e pantomime le mie idee e i miei pensieri; non sono un ballerino. Posso però farlo con i suoni; io sono un musicista. […] Vede, questa è la ragione più grande e più importante che mi ha allontanato da Salisburgo.
E ancora al padre qualche mese dopo riferendosi al matrimonio del signor von Schiendhofen:
Gli auguro di cuore ogni bene. Ma è un altro matrimonio fatto solo per denaro, e nient’altro. Io non vorrei mai sposarmi così. Voglio rendere felice mia moglie, non servirmi di lei per trarne profitto. […] Noi, invece, povera gente comune, non solo dobbiamo scegliere una moglie che amiamo e che ci ama, bensì possiamo e vogliamo sceglierla proprio così, perché non siamo né aristocratici né di alto lignaggio, né nobili né ricchi, ma di basso rango, semplici e poveri, e dunque non abbiamo bisogno di una moglie ricca. La nostra ricchezza muore con noi, perché l’abbiamo tutta nella nostra testa, e nessuno può togliercela, tranne che non ci taglino la testa, e non abbiamo più bisogno di nulla.
Il Concerto per Flauto, insieme alle altre composizioni per questo strumento, rivela tutta la ricchezza e la fantasia che soffiavano nella mente del compositore salisburghese: non solo si cede al virtuosismo necessario per la natura dello strumento, ma vari quadri espressivi si succedono, dal fiabesco al malinconico, dalla lamentosa lontananza al sereno tempo di minuetto. Il flauto, uno degli strumenti più antichi della nostra civiltà, trova in questo primo concerto una quadratura classica, capace di armonizzare le sue varie anime. L’afflato magico si rivela già dalle prime note, dalle prime scale, fino a diventare un canto trasparente nel secondo movimento. Pur non arrivando allo splendore di altre composizioni per strumento solista e orchestra, come i concerti per pianoforte e i capolavori della maturità, come il concerto per clarinetto, con l’opera K 313 viene portato nell’olimpo del classicismo lo strumento che grazie a Quantz nell’epoca precedente e alle eterne opere bachiane aveva completato il suo sviluppo tecnico ed espressivo.
Franz Schubert: Seconda Sinfonia
Siamo nel 1815. E per comprendere a fondo la grandezza della figura di Schubert dobbiamo tener conto non solo delle caratteristiche proprie dell’artista fra i più sensibili e poetici ed instancabile creativo, ma anche del mutamento profondo della situazione a Vienna e nell’intera Europa in quel periodo. Gli ideali che avevano ispirato la rivoluzione francese sembrano ormai sconfitti, eppure molti in Europa, battuti, non vogliono darsi per vinti e sono pronti, anche in Italia, ad una lotta senza precedenti. A Waterloo, il 18 di giugno, Napoleone perde definitivamente e il Congresso di Vienna ha già stabilito come restaurare L’Ancien Régime. La forza che aveva ispirato Beethoven, ora vecchio e isolato nella sua sordità, difficilmente può infiammare qualcuno liberamente, la storia si è presa un respiro e la musica, nel vero senso della parola, è cambiata: per allietare il riposo dei potenti al Congresso di Vienna furono previsti concerti con musiche di Hummel, Giuliani, e di altri compositori innocui, siamo molto, molto lontani dall’Eroica di Beethoven.
Anche se la rivoluzione francese, e il suo esplosivo contributo, non poté mai più essere negato, l’Europa sembrò cadere sotto le parole odiose di chi voleva uccidere il progresso, l’illuminismo veniva attaccato cercando di scatenare un impossibile buio soffocante, ancora una volta con la forza, nelle menti dei cittadini. L’uomo doveva tornare a non essere più il centro del pensiero filosofico, il centro del mondo, della sua stessa vita. La monarchia, e quel potere che doveva essere voluto da Dio, dovevano tornare a gestire il destino delle nazioni. Ma nell’esempio di Schubert, di un uomo che visse davvero come un Wanderer, un viandante nelle regioni del mito, si sconfessa la pretesa restauratrice e si dimostra il cambiamento epocale inevitabile dovuto alle nuove idee in circolazione nel continente.
Schubert non è Egmont, non è l’eroe beethoveniano, prometeico, capace di porsi davanti alla folla umana e condurla fuori dalla caverna. Ma per questo non sarà meno coraggioso.
Schubert sente una via nella solitudine intellettuale, sente nella ricercata inappartenenza ad un mondo la sua cifra rivoluzionaria. Possiamo noi italiani, con un salto non da poco, pensare al Montale del periodo fiorentino, quando il fascismo e poi il nazifascismo infangavano la nostra storia. Il nostro sommo novecentesco, come Schubert, si isolò, in un certo senso, per sfuggire alla bruttura, alla delusione e poi al dolore della distruzione. Possiamo definire questo percorso un cammino orfico, una discesa verso un Ade personale, dove anche il mito è questione individuale. Il mito si rifrange nei territori inesplorati della propria psiche, ed è questo che accomuna tutti gli uomini, in questo siamo fratelli, nel viaggio verso il nostro inferno, intimo e riverberante il mondo che fuori di noi ci è nemico. Nemico troppo grande per essere battuto, troppo grande per poter con esso ancora una volta ingaggiare una lotta possibile. Musicherà in un grande capolavoro Schubert, nel suo “Viaggio d’inverno” un testo che ci illumina sulla condizione esistenziale ed estetica del compositore:
Perché evito le strade
dove vanno gli altri viandanti,
e mi cerco sentieri solitari
per le alte rocce innevate?
Non ho fatto nulla
per cui debba evitare la gente, –
quale insano desiderio
mi trascina nei deserti?
Segnali stanno per le strade,
indicano le città,
ed io vado senza misura,
senza pace, e cerco pace.
Un segnale vedo stare
immobile davanti al mio sguardo:
una strada devo andare,
da cui nessuno è tornato indietro.
Anche se nel genere sinfonico Schubert, forse perché in cerca di esecuzioni così rare per le sue musiche, invade vari ambiti affettivi e di colore, il senso di solitudine romantica è sempre dichiaratamente presente; ogni sorriso, ogni gioia appare nella partitura come un ricordo, come un tormento che riaffiora alla memoria per tradire il reale, per riportare il passo del viandante sempre più al centro del suo infinto perdersi. Abbiamo un lessico ancora classico in Schubert, eppure il discorso si fa disarticolato, gli episodi che si susseguono ci appaiono affioranti da un senso di vuoto incolmabile, da uno sfondo di nostalgia inviolabile. Nostalgia di una sperduta ordinarietà poetica e ideale, di una tradita speranza umana ricoperta dalla cenere che questo stato d’animo porta con sé. Non mancano elementi eroici nel corso della sinfonia ma non posso essere ascoltati e tradotti in noi come per le sinfonie di Beethoven. L’eroismo di Schubert è amaro, è solitario, non parla mai a voce alta anche se in fortissimo. E se non è sconfitto lo si deve al fatto che si pone al riparo dal giudizio dell’altro, nascosto fra le ombre di un inferno ghiacciato che si deve visitare, esperire, vivere, per poter estrarre da esso la propria anima, forse dannata, o chissà forse solo smarrita. E’ il senso del tempo il male a cui ci si vuole opporre, che si vuole sconfiggere, anche se già in partenza si conosce l’esito di ogni velleitario sforzo. Ogni gesto sinfonico in Schubert contiene un dubbio, un’incertezza atroce, ogni gesto contiene l’errore di Orfeo, quell’insicurezza che lo fece disobbedire e voltare il capo, perdendo così per sempre la sua Euridice, la sua parte pura, la parte sua lucente, la sua parte di vita possibile, confinata a causa di questo errore per sempre negli inferi.
Schubert indaga la propria mitologia, la ricostruisce, ne cerca i contorni senza però riuscire a fare di essa una mappa. Schubert sa che la libertà non è solo un moto politico e sociale, che non può bastare all’uomo il sentimento di fraternità universale espresso dal sinfonismo beethoveniano. O meglio crede che quel sentimento così grande, sperdutamente immenso vada declinato in ogni uomo attraverso un percorso difficile e solitario. Il sentimento della liberazione deve passare dalla propria individualità e dal suo affrancamento. Occorre attraversarsi, seguire i propri sentieri innevati, sostare nelle proprie miserie e ridere di esse con lo sguardo disincantato di chi sa che inseguire il proprio mito è l’unica strada possibile, anche se resterà un cammino senza meta, disincarnato, una rotta nel senza tempo che ci vive inspiegabilmente.