67a Stagione Sinfonica Orchestra I Pomeriggi Musicali - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 19 gennaio 2012
Ore: 10:00*
giovedì 19 gennaio 2012
Ore: 21:00
sabato 21 gennaio 2012
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Edvard Grieg, Concerto per pianoforte e orchestra op.16
Carl Nielsen, Sinfonia n. 1 op. 7

Biglietteria

Prove Aperte
Biglietti: Euro 10,00/8,00 + prevendita

67a Stagione

Abbonamenti
Interi: da € 252,00 a € 157,50
Ridotti: da € 189,00 a € 115,50

Biglietti
Interi: da € 19,00 a € 10,00
Ridotti: da € 15,00 a € 8,50

Il Cast

Direttore: Giordano Bellincampi
Pianoforte: Paolo Bordoni
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Guida all’ascolto di Marcello Sirotti
L’onda romantica in musica, parallelamente a quanto avvenuto nella storia, nei costumi e nelle altre arti, ha portato con sé, insieme ai grandi movimenti innovatori del cuore d’Europa, anche fenomeni “periferici” di non poco conto. L’esigenza di far leva su un’identità nazionale, e con essa reclamare dignità e diritto di esistere, ha spinto infatti intere aree, marginali sulla mappa della geo-musica, a confrontarsi con i grandi colossi che da sempre ne hanno retto le sorti. Paesi quali la sterminata Russia o la minuscola Boemia hanno dato vita, a far capo da metà Ottocento, ad una fioritura musicale senza precedenti, spesso contrapposta alla supercorazzata ed invincibile egemonia italo-franco-tedesca.

Ma non è stata la mera emulazione ad animare i David locali contro il Golìa centrale, sempre che di sfida si possa parlare stante gli innumerevoli punti di contatto e le osmosi. Le “giovani scuole nazionali”,  piuttosto, si sono appropriate astutamente di una risorsa ancora da estrarre e raffinare: il proprio patrimonio popolare. Scorci, suoni e umori sono così divenuti pietra d’angolo di un’intera costruzione estetica e il colorismo che fin qui altro non era stato che una venatura esotica nel granito della musica colta, ora viene proposto come l’essenza di una voce nuova.

All’estremo nord del tutto, anche l’ordinata e civilissima area scandinava ha lasciato una propria impronta sul terreno tardo-romantico e si è meritata un capitolo a sé nei manuali di storia della musica. Autori come Gade, Grieg, Sibelius, per citare i più noti, pur forgiati nel solco della migliore tradizione occidentale, hanno trovato altrove, nelle saghe di mare e di ghiaccio, nelle foreste sconfinate e nelle luci boreali, i tratti ispiratori di una nuova poetica e con coraggio e pazienza ne hanno fuso il succo musicale con la propria inventiva; il risultato è stato un capitolo musicale decisamente sui generis, dal timbro originale ed inconfondibile, conosciuto come Scuola scandinava.

Figura di spicco di questa primavera del Nord, Edvard Grieg si staglia nel novero degli autori scandinavi non solo per le qualità peculiari ed indiscutibili delle sue opere, ma anche per essersi reso promotore instancabile del rinascimento musicale delle sue terre.

A plasmarne il talento giovanile, poiché l’opera di cui parleremo fa ancora parte della prima fase creativa dell’autore, fu il noto rigore del conservatorio di Lipsia, da cui il promettente allievo norvegese prese congedo con due certezze: quella di non essere comunque figlio del romanticismo accademico e, in contrapposto, di dover soddisfare una sete creativa ormai manifesta.

Ma per imboccare la strada maestra mancava ancora una svolta; un incontro, nel nostro caso, capace di schiudere definitivamente il bozzolo del giovane compositore.

La figura decisiva si rivelò Niels Gade, padre della musica danese, di cui Grieg divenne allievo nel 1863 a Copenaghen, fulcro indiscusso di tutta la vita culturale scandinava di allora. Il ventenne Edvard vi giunse ben certo di trovare un terreno fertile e vicino alle sue corde ben più di quello conosciuto a Lipsia, tutta dogmi e autorità. Poco importa se il carattere nordico dello stile di Gade, inserito in pagine di perfetta matrice tedesca, fosse più decorativo che non di vera sostanza; tanto bastò a liberare la vena “nazionale” di Grieg e a spingerlo deciso verso uno stile personale e consapevole: “sapevo ormai quello che volevo – scriverà il compositore – e mi diressi risolutamente verso il paese che avevo deciso di raggiungere”. Un immaginario zeppo di casette di legno, luci di taglio, fiordi a strapiombo che, tradotto in note, avrebbe alimentato a dovere i pentagrammi  scandinavi di nuovo conio.

Agli anni intensi e prolifici che seguirono, coerentemente dedicati a questo perimetro estetico oramai definito, appartiene anche il Concerto in la minore op.16 per pianoforte, l’opera che svela definitivamente la cifra matura del Grieg che conosciamo.

Musicista ormai famoso e stimato, l’autore vi pone mano in un periodo particolarmente sereno della sua vita. La stesura è del 1868, la prima esecuzione avviene nell’anno successivo ma, lungi dall’essere cristallizzata e definitiva (nel 1870 viene addirittura ritoccata “a quattro mani” insieme al leggendario Franz Liszt) la partitura sarà rielaborata più e più volte fin quasi agli ultimi anni di vita, specialmente per quanto riguarda l’ordito orchestrale; quasi inalterata invece rimarrà la parte solistica della prima versione.

Bozzettistico, miniato, il Concerto per pianoforte rappresenta un po’ la svolta verso quell’assetto frammentato così tipico (e che gli valse anche critiche feroci), insieme punto di forza e tallone d’Achille dell’arte di Grieg. Una forma libera sorretta da tanti quadretti allineati più che da un’unica campata architettonica: un mondo multicolor, grigio compreso, dove possono trovare spazio idee, ragioni e, perché no, anche azzardi creativi. Su tutto questo nuovo humus il pianoforte protagonista sembra muoversi senza difficoltà e senza imbarazzi davanti ad uno sfondo orchestrale vivace e dall’intensa caratura timbrica pur se, inevitabilmente, in seconda linea.

Tre i movimenti attraverso cui si snoda la drammaturgia della pagina: l’Allegro molto moderato, diviso fra inviti marziali e risposte languide (un mix agrodolce che fece innervosire non poco Debussy alla prima parigina); l’Adagio centrale, momento di tenerezza schiva e riservata che sembra già richiamare il mondo lirico di Ibsen ed infine l’ultimo Allegro con stretta finale, ricco di spunti e ritmi campestri, in cui il pianoforte ha gioco facile nel chiudere la partita alla grande. Come ci si poteva aspettare, è proprio nel passo di danza popolare, l’approccio alla musica più istintivo insieme al canto, che va a sfociare il percorso del Concerto op. 16.  Nel susseguirsi delle sincopi, degli andamenti ora sinuosi ora vorticosi dell’halling e dello springer sembra condensarsi il respiro di un’intera nazione; per Grieg la strada è definitivamente segnata, non resta che muoversi decisi verso i vertici del  Peer Gynt.

Si è detto come la vita culturale nordica ruotasse, nei decenni fra Otto e Novecento, intorno alla cosmopolita Copenaghen. Ed in particolare, per ciò che riguarda gli studi musicali, intorno al Conservatorio Reale della città, retto fin dalla fondazione, risalente al 1866, dal padre-padrone Niels Gade.

Carl Nielsen (1865-1931), l’altra figura di spicco di questo programma scandinavo, approdò diciottenne nella capitale, dopo aver trascorso infanzia e prima gavetta musicale nelle linda Odense, la cittadina di Andersen, nel cuore dello Jutland danese. In tasca poche corone e tutte le belle speranze del bravo ragazzo di provincia, talentuoso e più o meno autodidatta; sotto al braccio, più pragmaticamente, un violino ed una copia del Quartetto in re minore, credenziali per accedere una volta per tutte a studi strutturati e regolari nelle classi di strumento e di composizione.

Il “Conservatorio di Gade”, di stampo più che tradizionale, non brillava certo per apertura alle novità ma rappresentava l’ottima base per studi solidi; il fatto poi di essere a due passi dalla Germania lo esponeva, certamente, al rischio di sparire nel cono d’ombra del gigante vicino ma indubbiamente gli offriva anche l’impareggiabile opportunità di assorbirne in fretta i fermenti. Lo spirito illuminato di qualche docente open mind avrebbe poi fatto il resto per gli studenti più desiderosi di un confronto con il resto d’Europa; esattamente ciò che successe al volonteroso allievo Carl Nielsen.

Fondamentali si rivelarono gli insegnamenti (e gli orientamenti) di Orla Rosenhoff, maestro di teoria e contrappunto e buon conoscitore del “nuovo”, vale a dire Brahms e Wagner. Nielsen ne fece tesoro, affinò la mano e si presentò, una volta conseguiti i sospirati diplomi, alle porte dell’Orchestra di Tivoli nel 1886 e successivamente a quelle del Teatro Reale pronto ad intraprendere una carriera a due velocità: violinista nei ranghi dell’orchestra e aspirante compositore di successo.

E fu proprio in uno dei periodi, diciamo, di “aspettativa” concessagli dall’Orchestra di corte in virtù dei crescenti successi in campo compositivo, che Nielsen ebbe il primo, definitivo impatto con la scrittura sinfonica, fino ad allora giusto sfiorata. Il compositore si dedicò alla sua prima partitura sinfonica completa nel 1890 a Berlino, durante uno dei viaggi-studio destinati ad apprendere, incontrare e farsi conoscere.

Opera sorprendentemente matura per un autore giovane e con poca produzione alle spalle, la  Sinfonia n.1 op.7 mostra già i tratti di una personalità più che definita. Certo, è difficile affermare che Nielsen abbia rivoluzionato le sorti del linguaggio musicale o impresso una svolta decisiva al percorso della scrittura sinfonica poiché, fuor di dubbio, egli rimane pur sempre autore ancorato a canoni tradizionali; eppure si avverte nelle sue pagine, anche quelle di stampo giovanile quali l’op.7, un’indubbia curiosità verso ciò che gli si muove intorno.

Quasi scontata l’inserzione di motivi del patrimonio popolare, miniera dei localismi di cui si è parlato, la penna di Nielsen si avventura infatti nei territori ufficiali del contrappunto così caro a Brahms, va oltre le anse del cromatismo wagneriano, si avvicina alle possibilità timbriche dell’impressionismo senza dimenticare, questo davvero il tratto più innovativo, di sperimentare nuove combinazioni dell’assetto armonico.

Quattro i movimenti che compongono la sinfonia e che si snodano seguendo la più tradizionale alternanza fra tempi tranquilli ed altri più rapidi. E se si nota l’assenza di un sottotitolo a delineare l’intero lavoro, come diverrà abitudine nel successivo sinfonismo di Nielsen, curioso ed enigmatico appare l’aggettivo orgoglioso che accompagna la dicitura Allegro del tempo iniziale. Collaudatissima la bilancia orchestrale, con un organico “pieno” ma non imponente, al servizio delle necessità timbriche decise da Nielsen.

Il tratto più originale della partitura venne sottolineato dal commento del celebre critico Charles Kjerulf, in sala alla prima esecuzione,  il quale, perplesso ma non ostile, la definì “instabile e violenta nelle armonie e nei passaggi da una tonalità all’altra”,  cogliendo per buona parte nel segno. La ricerca del compositore muoveva infatti da un’idea molto personale e consapevole del concetto di tonalità: nel mondo armonico di Nielsen essa non è perno inderogabile di un’intera opera e si presenta centrale e mobile al contempo; così come una salda tonalità d’impianto può ritrovarsi, a fine corsa, da tutt’altra parte, smentendo regole vigenti da secoli. Rilievi tecnici questi, da lasciare alle analisi profonde e che non devono condizionare l’arbitrio dell’orecchio ma che già svelano, a tavolino, un’indiscutibile indipendenza di pensiero del nostro autore neanche trentenne.

Il pubblico di Copenaghen, re e regina inclusi, poté assaporare la sinfonia per la prima volta il 14 marzo del 1894, riservando l’applauso finale non solo all’opera in sé ma, ad personam, anche al giovane compositore che, alzandosi a sorpresa dal suo leggio dei secondi violini, appoggiò lo strumento sulla sedia e si diresse deciso al centro del palco per offrire l’inchino.

Quel musicista ancora quasi sconosciuto, praticamente agli esordi ed ai primi numeri di un nutrito catalogo (sei sinfonie su tutto ma anche concerti solistici, opere per il teatro, produzione strumentale ed un prezioso tesoretto di scrittura corale) sarebbe divenuto, fra sostenitori e detrattori, l’erede di Gade: una figura-chiave del panorama nazionale, destinata a traghettare la piccola Danimarca musicale nel secolo a venire.