Le date
Serie Red Planet
Brahms, Serenata n.1 op.11
Martinotti, Lithica, per orchestra da camera
Brahms, Variazione su un tema di Haydn, op 56 a
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore: Antonello Manacorda
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Lithica, per Orchestra da Camera (note di Sergio Casesi)
Per l’uomo da sempre la pietra ha avuto il significato di custodia definitiva della memoria. Le prime raffigurazioni dell’uomo sono disegnate o incise su pietra e nel corso degli imperi con la pietra scolpita si sono edificati templi, colonne celebrative o monumenti destinati a resistere alle generazioni. La pietra serba in sé il senso del trascendente, vive oltre le epoche. E’custode della memoria della Terra e degli uomini, conservandone il segno. La pietra è consegna di sé, è simbolo di un immutabilità che la volontà dell’uomo può spezzare, fintamente sconfiggere così da diventare essa stessa sacra e silente, come Dio. E’ nella roccia, prima che con ogni altro materiale, che l’uomo ha affogato il proprio bisogno di eternità. La parola stessa, con l’alto grado metaforico che esprime, è diventata cementum di molte frasi di uso comune, o di versi religiosi o poetici, che vogliano descrivere la finitezza, la durezza e la difficoltà delle cose. La legge si scrive sulla pietra, spesso si ha un cuore di pietra, mentre si edifica sulla pietra una casa o una Chiesa, e le pietre degli occhi a volte lacrimano di gioia. “Come questa pietra / del San Michele” di Ungaretti fino all’Anguilla montaliana, di una umanità straziata e abbandonata, che risale il “macigno”, con dolore e fatica, immaginando l’intero pianeta come un sasso sperduto nel cosmo… Così, forse, visitando il sito di Lithica a Minorca, l’autore del brano ha sentito su di sé il tempo oltre-umano che la roccia esprime, il suo afflato duro e tenace. Le Cave di Lithica, sull’isola immersa in un mare di sole, come ferite, come stanze segrete della Terra, labirinto di memorie inespugnabili, devono aver sussurrato nell’animo di Stefano Martinotti il senso profondo di quel silenzio vocativo ed eloquente ed insieme, il suono degli scalpelli e il tonfo delle lastre, e la fatica infinita che lì ha vociato per secoli. La totalità delle Ere in un lampo di sole bianco riflesso dalla pietra deve aver preso forma sul pentagramma. Roccia umana e soprannaturale. Pesante e magica; da sempre è toccata agli artisti, come sacerdoti della Natura, la decifrazione delle forze nascoste in essa. Lithica si apre con un pianissimo tremolo di Pietra di Trani, suonata da un percussionista. Da questo suono arcaico e primitivo non può che scaturire (acqua scaturì dalla pietra nel deserto di Mosè) un totale cromatico da cui un flauto spiccherà il volo, come un soffio di vento e di sabbia nel deserto. E’ questa l’umanità che la Terra vede e conserva? E’ questo ciò che la pietra, che sarà definitiva per gli uomini, sa di noi? Il sito di Lithica è composto da stanze, corridoi e angoli e nella partitura Martinotti ha voluto conservare la struttura del luogo in cui la pietra si è rivelata, riportandola in musica, cioè scomponendola in un tempo lineare. In questa opera però di struttura dobbiamo parlare anche per ciò che è composto nel dettaglio e nel particolare, nel profondo della partitura. Oltre alla elaborazione del materiale di origine c’è un sapiente lavoro di organizzazione intima della composizione, in un equilibrio fra ciò che è macroscopico e ciò che invece è piccolo e veloce. Altezze e timbri vengono così strutturati fra i quadri fortemente compatti e mai intermittenti nella loro densità espressiva. L’orchestrazione, come l’impianto ritmico, rivela un grande lavoro di organizzazione intellettuale della materia. Il centro del brano non è forse all’inizio, il centro come focolaio, come materiale generatore, ma è sotteso in più punti lungo la composizione, come da più punti del labirinto cavo di Minorca si estrae la pietra bianca chiamata Marès. Dall’Allegro non Troppo che segue all’introduzione, si dipanano stanze musicali diverse, prospettive diseguali da cui osservare le lastre intagliate delle pareti. Luci dissimili, ombre, mentre il ritmo interiore si fa più ricco e corposo, come per la sovrapposizione di emozioni e di pensieri ribattuti dal rullante chiamerà prima i fiati e le trombe fino ad un Tutti energico e potente. Ma ecco ritrovarci in una stanza nuova, la luce degli ottoni la disegna, forse solo nei nostri occhi, chissà, eppure fra lampi e voli si ritorna ad uno scambio ritmico sperduto, dionisiaco, esaltato, come un tuffo da una rupe senza paura, nel blu del mare infranto di schiume. Così Lithica, il viaggio nel senza tempo della cava, nella ferita terrea di un isola alla deriva nel cuore, si moltiplica in un vortice di luce, scorre fino a sfociare in un Adagio Molto, fondo ma senza gravità, dove il colore degli archi con sordina si farà roccia d’ombra e canto, voce di lamento e di incerta speranza. Ai lapilli dei fiati i primi violini risponderanno senza scomporre la strana tenebra anche se, inaspettatamente, ci si eleva verso un cielo azzurro sospeso su una voragine di roccia bianca, la musica corre, si solleva, anche attraverso le parole coriacee delle viole che si involano… E poi ancora, come per sempre, come prima e dopo ogni cosa, il silenzio segreto della pietra.
Brahms, Serenata n.1 op.11
La “musica d’intrattenimento” conobbe all’inizio dell’800 una progressiva diversificazione: passavano di moda i Divertimenti e le Serenate. Mezzo secolo dopo, quando Brahms prese in considerazione questo genere creativo, vi fu un ripensamento estetico d’uno schema del passato, per lo più privato della sua funzione originaria.
Al genere della Serenata Brahms accedette negli anni in cui la sua esistenza si svolgeva tra Amburgo e Detmold, ove era direttore di una formazione corale e, saltuariamente, della piccola orchestra di corte. Erano gli anni 1857-58, ma già dal 1854 Brahms era entrato nell’ordine di idee d’affrontare la “grande forma”, cercando di realizzare una sinfonia con il materiale di una Sonata in re minore per due pianoforti: quel materiale tematico avrebbe, di lì a poco, trovato il suo sbocco naturale nel Primo Concerto per pianoforte e orchestra op. 15 (1857-58), la cui genesi, curiosamente, venne ad intersecarsi con quella della Serenata in Re maggiore. In effetti, tra i due lavori non c’è alcuna possibilità di raffronto, tale è il distacco che distingue l’impetuosa drammaticità del Concerto rispetto all’atmosfera serena dell’altra composizione.
Le due Serenate per orchestra furono i primi lavori sinfonici di Brahms a essere pubblicati. Quella in Re maggiore, la prima, era stata concepita come opera da camera per quartetto d’archi, flauto, due clarinetti, corno e fagotto, e in questa forma era stata inviata dall’autore agli amici Grimme e Joachim, che l’avevano fatta eseguire durante un concerto privato ad Amburgo il 28 marzo 1859. Fu probabilmente l’ascolto di questa esecuzione a convincere Brahms che sarebbe stata preferibile una versione orchestrale del lavoro. La Serenata fu tenuta a battesimo nella sua stesura definitiva ad Hannover il 3 marzo 1860 sotto la direzione di Joseph Joachim.
Questo primo lavoro sinfonico rappresenta meglio di ogni altro l’atmosfera serena degli anni del soggiorno di Brahms a Detmold (1857-60), e in un certo senso conclude la stagione creativa giovanile aprendo nuovi orizzonti al comporre brahmsiano. Vi confluiscono tutti i modelli classici studiati in quel periodo, Haydn e Mozart ma anche Beethoven e Schubert; eppure la volontà dichiarata di riallacciarsi al passato della tradizione classica già convive con alcuni caratteri peculiari della futura maturità. Il regolato e graduale atteggiamento compositivo di Brahms preferisce accostarsi al genere sinfonico attraverso un lavoro di chiara derivazione cameristica e che conserva nella scrittura lineare, con un peso decisivo a favore del settore dei fiati, molti tratti della sua destinazione originaria.
Uno sguardo anche sommario ai sei tempi della composizione conferma la splendida ambiguità del “disimpegno” di questa Prima Serenata. Il primo tempo, Allegro molto, come nei modelli prescelti, è il più denso ed elaborato, costruito in una rigorosa forma-Sonata.
Straordinario l’inizio: su un pedale di quinte vuote delle viole e dei violoncelli, quasi popolaresco bordone con esempi evidenti nello stile classico, si leva il primo tema festoso alternato tra corno e clarinetto. Il secondo tempo è uno Scherzo in re minore costruito su un sinuoso tema cromatico. Il carattere irrequieto e tenebroso, a tratti aperto verso movenze di valzer, si dissolve nel Trio, in si bemolle maggiore, che evoca una rustica gaiezza popolare. L’Adagio non troppo, forse la pagina più intensa di tutta la Serenata, predilige i colori velati e caldi di un notturno. Il quarto tempo è formato da due Minuetti: nel primo la coppia dei clarinetti espone un tema di chiara derivazione mozartiana su un basso ossessivamente ripetitivo del fagotto e poi dei violoncelli; nel secondo una bellissima melodia dei violini si espande in un clima tenero e appassionato. Segue un breve Scherzo, basato su cavallereschi temi di caccia dei corni che nel Trio assumono il carattere spensierato e infantile di un girotondo. Infine, l’Allegro conclusivo è un Rondò costruito su un ritmo baldanzoso di marcia intervallato da episodi contrastanti anche se riconducibili a variazioni dell’idea principale, a sua volta ricollegabile all’incipit dell’Adagio. Con la riaffermazione di una solidità strutturale di stampo classico Brahms sigilla dunque l’ultimo capolavoro della sua giovinezza.
Brahms, Variazioni su un tema di Haydn, op. 56 a
All’interno della produzione sinfonica di Johannes Brahms, le Variazioni su un tema di Haydn op. 56a, composte nell’estate 1873, rivestono un ruolo chiave, una sorta di anticipodella Prima Sinfonia. L’ambizione di Brahms verso il mezzo orchestrale e il genere della sinfonia datava in effetti fin dagli anni giovanili.
L’approccio alla scrittura sinfonica doveva essere, per Brahms, estremamente sofferto, sia per il timore di confrontarsi, nel caso della sinfonia, con un genere ormai storicizzato, al quale gli autori romantici si erano avvicinati sempre con prudenza e circospezione; sia per la vera e propria difficoltà tecnica di definire una scrittura orchestrale sicura e personale.
Brahms fu tra i primi musicisti a considerare la musica del passato come oggetto di studio; non solo la musica del classicismo, ma anche la musica corale rinascimentale e barocca. L’approccio del compositore non si limitò a Bach e Händel, ma si rivolse anche a Palestrina, Orlando di Lasso, Heinrich Schütz, autori la cui scrittura polifonica si ritrova a tratti nell’opera corale brahmsiana. Il “ritorno al passato” è dunque per Brahms tutt’altro che una semplice conservazione, il ritorno a stili compositivi desueti di una precisa epoca storica.
Nel 1870 ebbe dal musicologo Pohl un manoscritto di sei pezzi per un gruppo di fiati, di cui si pensava essere Haydn l’autore. Si trattava del Divertimento in Si bemolle maggiore, di cui in seguito fu scartata l’attribuzione ad Haydn. La composizione – destinata probabilmente alla banda militare degli Esterhàzy, i nobili ungheresi presso i quali Haydn prestava servizio – era la citazione da un antico canto processionale austriaco, il cosiddetto “Chorale in honorem St. Antonii”.
Proprio il carattere “antico” e popolare di questo tema doveva risultare ideale per Brahms, nel momento in cui si determinò a cercare la strada delle variazioni orchestrali. La scelta del tema con variazioni. Era un passaggio essenziale per raggiungere la desiderata sicurezza nella scrittura sinfonica.
Dopo il tema, il cui carattere di corale è accentuato dalla strumentazione per fiati, con gli archi pizzicati, la prima variazione si basa sui rintocchi scanditi dei fiati, su cui gli archi costruiscono un fluido melodizzare; la seconda, in minore, su uno slancio schumanniano che reca però, nella contrapposizione fra archi e fiati e fra livelli dinamici, anche un’impronta barocca. La terza ha il carattere di corale figurato, e vede poi in primo piano i dialoghi fra gli strumenti a fiato. Evidentissima è la polifonia barocca nella quarta, in minore, innervata da un crepuscolare lirismo; mentre la quinta, leggerissima e trapuntata, ha il carattere dello scherzo mendeissohniano. La sesta è una sorta di marcia, esposta dai corni, ripresa responsorialmente dai legni, e potenziata nella seconda parte dagli slanci eroici degli archi. La settima è una parentesi contemplativa, basata sul cullante ritmo di siciliana, dove gli stilemi pastorali vengono impreziositi da armonie iridescenti; l’ottava invece si dipana come un misterioso moto perpetuo, con un progressivo sovrapporsi di linee fittamente intrecciate.
Così come le Variazioni su un tema di Händel per pianoforte si concludevano con la forma barocca della fuga, così le Variazioni su un tema di Haydn – anticipando una scelta che apparterrà poi alla Quarta Sinfonia – si chiudono con un’altra forma barocca, quella della passacaglia, consistente in un breve basso che si ripete sempre uguale, e sul quale vengono costruite variazioni sempre rinnovate. Nello studiatissimo climax espressivo di questa conclusione si fa luce progressivamente il tema del “Chorale in honorem St. Antonii”, che corona tutta la costruzione sinfonica con una affermazione grandiosa e vitalistica.