Le date
Serie Curiosity
Mendelssohn, Le Ebridi ouverture op.26
Beethoven, Concerto per pianoforte, violino, violoncello e orchestra op. 56
R. Strauss, Metamorphosen, studio per 23 archi solisti
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore: Daniele Callegari
Pianoforte: Behzod Abduraimov
Violino: Mari Samuelsen
Violoncello: Hakon Samuelsen
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Felix Mendelssohn – Bartholdy (1809-1847)
Le Ebridi ouverture op. 26
Durata: circa 10′ circa
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Concerto per pianoforte, violino, violoncello e orchestra op. 56
Durata: 35′ circa
I. Allegro
II. Largo
III. Rondo alla Polacca
Richard Strauss (1864-1949)
Metamorphosen, studio per 23 archi solisti
Durata: 30′ circa
Mendelssohn – Le Ebridi ouverture op. 26
Organico: 2 flauti, 2oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Anno di compsizione: 1830
Prima esecuzione: 1832-05-14, Londra
Prima pubblicazione: 1833
A Fort William, all’alba del venerdì 7 agosto 1829, Mendelssohn e l’amico Carl Klingemann si imbarcarono su uno dei nuovi piroscafi che facevano il percorso fra Inverness e Glasgow attraversando l’appena aperto canale di Caledonia. Nelle quaranta miglia di viaggio si spinsero sotto Loch Linnhe fino ad Oban. Lungo uno dei paesaggi più belli d’Europa. Medelssohn a quel tempo aveva vent’anni. Dal porto di Oban risalì la costa per un miglio e iniziò uno schizzo in matita di una rovina medievale chiamata il castello di Dunollie: sullo sfondo poteva includere ancora Loch Linnhe e le lontane montagne di Mull. Ma non ebbe il tempo di finire lo schizzo perché dovette prendere un altro piroscafo. Quella sera si imbarcarono per Iona sul Ben Lomond (70 lonn.) che li portò da Oban a Tobermory. L’unico porto era quello di Mull e qui passarono la notte “in una rispettabile casa privata”. Prima di andare a letto Mendelssohn scrisse a casa, intestando la sua lettera “su una delle Ebridi”. la lettera contiene una frase diventata famosa e venti battute di musica: “per farvi capire l’impressione straordinaria provocatami dalle Ebridi, ho buttato giù quello che mi è venuto in mente” (l’inizio dell’ouverture). Quella era la prima estate in cui venivano effettuati i percorsi verso la Staffa e Iona e Mendelssohn aveva progettato questa escussione prima di lasciare Edimburgo, ma non poterono essere Staffa e Iona a “colpirlo così straordinariamente” perché non vi mise gli occhi sopra fino al giorno successivo. Quelle battute evocative furono ispirate dal isole e mare fra Fort William e Oban o (più probabilmente) fra Oban e Tobermory. Comunque l’8 agosto il Ben Lomond navigò nell’Atlantico aperto ed i passeggeri sbarcarono per circa un’ora su Staffa e Iona. iona era abitata e probabilmente
diede modo ai passeggeri di ristorarsi, ma Staffa era deserta, molto piccola e molto rocciosa. Una delle sue attrattive era la grotta di Fingal con i suoi pilastri di basalto simili a canne d’organo. Fingal era un eroe celtico delle traduzioni di Ossian pubblicate da Macpherson verso il 1760. Erano traduzioni ammalatissime
sul continente, anche se in Gran Bretagna si sospettava che esse fossero in gran parte invenzione di Macpherson. Per la sua ouverture Ebridi gli occorsero quasi tre anni, nei quali elaborò due divise versioni e ciascuno dei manoscritti contiene molte modifiche. La prima versione fu terminata a Roma il 16 dicembre 1830 ed è intitolata Die insane Insel. Più di un anno dopo, il 21 gennaio 1832, Mendelssohn scriveva alla sorella Fanny dicendole che considerava l’ouverture non ancora ultimata. “La sezione centrale in re maggiore è molto stupida, ed il cosiddetto sviluppa ha sapore più di contrappunto che non di gabbiani e merluzzo e dovrebbe proprio essere il
contrario”. per un progettato concerto a Londra lavorava già ad una seconda versione dell’ouverture e questa ebbe la sua prima esecuzione ad un concerto filarmonico
il 14 maggio 1832 a Londra. La situazione può essere così riassunta:
A. Die Hebriden. MS finito a Roma il 29 dicembre 1830: mai stampata, questa versione fu eseguita il 1 ottobre 1871 al Crystal Palace di Londra. prima che vi
fossero introdotte modifiche qualcuno ne fece una copia: è chiamata Die Einsame Insel.
B. Die Hebriden. Ms datato Londra 20 giugno 1832: una verione molto libera di A: è sostanzialmente la versione che venne eseguita a Londra il 14 maggio 1832. Fu edita in partitura completa nel 1835 da Breitkopf & Härtel sotto il titolo di Fingul’s Hoele (La grotta di Fingal). Le parti staccate erano state edite l’anno prima con il titolo – da preferirsi – Die Hebriden.
Roger Fiske
Beethoven – Concerto per pianoforte, violino, violoncello e orchestra op. 56
Organico: violino,violoncello, pianoforte solisti, 1 flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2
fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Anno di compsizione: 1804
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 4 Maggio 1808
Dedica: Principe Franz Joseph Maximilian Fürst von Lobkowitz
Prima pubblicazione: 1807 – Vienna: Bureau des arts et d’industrie. Plate 519.
La composizione del concerto op. 56 (noto come “Triplo concerto”) risale agli anni 1803/1804. Una lettera del 14 ottobre 1803 indirizzata al fratello di Beethoven, Karl, all’editore Breitkopf & Härtel parla già di questo concerto che viene offerto assieme alla sinfonia “Eroica” alla condizione che essi “appaiono tutti e due entro Pasqua”. La contemporaneità della composizione del concerto op. 59 con quella dell’”Eroica” è provata anche dal quaderno di schizzi del 1803 che contiene quasi esclusivamente schizzi per l’”Eroica” e alla fine dei lavori preparatori per il triplo concerto. Materiali per lo stesso concerto compaiono anche in un quaderno di schizzi del 1804 pieno di appunti per il Fidelio (che allora si intitolava Leonore). Probabilmente il concerto op. 56 fu terminato nel corso dell’estate 1804. Il 26 agosto 1804 Beethoven lo offre con altre opere all’editore Breitkopf & Härtel: “Ho ora parecchie opere, e, proprio perché ho intenzione di riservarle tutte a voi, e sarebbe mio desiderio di vederle apparire alla luce presto, e perché ciò avvenga il più presto possibile, vi dico in breve quello che posso darvi: il mio oratorio (op. 85, “Cristo sul monte degli ulivi”); una nuova grande sinfonia (op. 55, “Eroica”); un grande concerto per violino, violoncello e pianoforte con orchestra completa” (inoltre le sonate
per pianoforte opp. 53, 54, 57). Una lettera del 18 aprile 1805 ci informa che il progetto non si realizzò ed è solo nell’estate 1807 che l’op. 56 viene edita con il titolo di “Grand Concerto concertant pour pianoforte, violon et violoncelle”. La dedica dell’edizione stampata andò al Principe von Lobkowitz, anche se dalla testimonianza dei Anton Schindler sappiamo che la composizione fu scritta per l’Arciduca Rodolfo che ne diede probabilmente la prima esecuzione in privato assieme al violinista Carl
August Seidler e al violoncellista Anton Kraft (già violoncellista nell’orchestra del Principe Esterhazy prima di entrare in quella – 1975 – del Principe von Lobkowitz).
Le prime esecuzioni pubbliche sono del 1808: a Lipsia, fra il Capodanno e la Pasqua, poi nel maggio all’Augarlen di Vienna. Il tenore di queste recensioni è analogo e mostra perplessità nei confronti della nuova opera. Secondo Schindler, l’insuccesso fu dovuto alla cattiva esecuzione perché “gli esecutori avevano preso la cosa troppo alla leggera”. Si ricorda una esecuzione a München nel febbraio 1812 (ripetuta nell’aprile successivo): i solisti erano Joseph Moralt (violino), Peter Legrand (violoncello), Franz Beutler (pianoforte). Poi una esecuzione – coronata da successo eccezionale – del 1830 (concerts spirituels) con C.M. von Boklet (pianoforte), J. Mayseder (violino) e J. Merk (violoncello).
Il Triplo è una tipica composizione di circostanza, scritta “su misura” per le necessità della committenza; caratteristica che si riflette, secondo la prassi dell’epoca, in un contenuto concettualmente disimpegnato e nelle modeste ambizioni della scrittura solistica. E infatti la parte pianistica, piuttosto semplice ma brillante, tende a non mettere in ombra le più limitate capacità dell’esecutore rispetto agli altri due solisti, impegnati – specie il violoncello – in un registro piuttosto acuto. Proprio il carattere intrattenitivo del brano, ascrivibile a un’estetica ancora settecentesca, ha lasciato delusi i cultori del Beethoven titanico e introverso, restii ad apprezzare, del compositore, anche l’aspetto più squisitamente artigianale. Il Triplo è opera passatista perché la destinazione polistrumentale, legata alla antica prassi del Concerto grosso e poi della Sinfonia concertante, e già in marcato declino all’inizio del nuovo secolo, per la prepotente affermazione del Concerto con solista unico, improntato a una forte contrapposizione individuale fra solista e orchestra. Il contenuto musicale del Concerto op. 56, invece, è ispirato a principi diametralmente opposti. Fin dall’Allegro iniziale manca infatti una pronunciata intenzione dialettica, sia sotto il profilo tematico (i due temi principali non sono contrastanti, ma piuttosto affini sotto il profilo ritmico e melodico) che sotto quello strumentale (i solisti si scambiano il materiale melodico con raffinati e compiaciuti intrecci; mentre modesto, qui come altrove, è il contributo orchestrale); la comparsa di numerosi temi secondari contribuisce a stemperare la dialettica della forma sonata. Il Largo, secondo la tendenza tipica dell’autore in quegli anni, è di estrema brevità, appena una parentesi contemplativa – con gli strumenti ad arco sostenuti dagli arpeggi del pianoforte – fra i massicci blocchi dei tempi estremi. Senza soluzione di continuità succede il Finale, che, nella tradizione della musica d’occasione, mostra una nota di “colore” folklorico; si tratta infatti di un Rondò alla polacca, con un refrain incisivo e elegante.
Filippo Juvarra
Strauss – Metamorphosen, studio per 23 archi solisti
Organico: 10 violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi
Anno di compsizione: Garmisch, 12 Aprile 1945
Prima esecuzione: Zurigo, 25 Gennaio 1946
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra, 1946
Dedica: Paul Sacher ed al Collegium Musicum di Zurigo
«Sono disperato! La casa di Goethe, il luogo più sacro sulla terra, distrutta! La mia bella Dresda-Weimar-Monaco: tutto andato!» (2 marzo 1945, Richard Strauss a Joseph Gregor). Sono gli ultimi mesi della guerra, che sono vissuti dall’ottantenne compositore con il sentimento della fine, della perdita irreparabile della civiltà tedesca che cade, come i propri teatri, sotto i bombardamenti anglo-americani. È in questo stato d’animo che Strauss compone fra il 13 marzo e il 12 aprile 1945 le Metamorfosi: mancano tre settimane alla fine della guerra, il 30 aprile gli ame ricani entrano a Garmisch e rispettano l’anziano compositore che si presenta loro dicendo: «sono Richard Strauss, l’autore del Cavaliere della Rosa». La composizione è scritta per dieci violini, cinque viole, cinque violoncelli e tre contrabbassi e porta il titolo di Studio per ventitré archi solisti (originariamente il manoscritto portava invece Studio per archi, a ventitré voci). “Trauer um München” (lutto per Monaco) sta scritto negli schizzi di Metamorfosi; in questo appare l’eco tematica – del tutto inconsapevole secondo una testimonianza successiva dell’autore – della marcia funebre dell’Eroica di Beethoven, che viene invece esplicitamente evocata alla fine della composizione (“In memoriam”, annota Strauss in partitura). Così come negli schizzi Strauss trascrive versi da Zahme Xenien di J.W. Goethe (“Come va nel mondo / in vero nessuno lo capisce realmente…”). Metamorphosen è uno dei capolavori più alti e più desolati che mai siano stati concepiti in musica ed è un capolavoro enigmatico. È un lungo compianto di severa bellezza musicale. Ma, ci chiediamo, è un compianto per chi, su che cosa? Quali idee, quali immagini, quali ricordi nutrono una così profonda tristezza? Durante l’ascolto, a volte, un frammento di tema, un breve disegno musicale, un’allusione additano – vedremo – un pensiero, ma l’ombra subito svanisce immergendosi nell’oscuro cerchio della meditazione.
La sontuosa compattezza dell’organico, dove il nutrito dialogo a più voci dei ventitré archi solisti scava nel materiale tematico in fusioni timbricamente sempre mutevoli, ottiene la massima ricchezza di sfumature dall’intreccio contrappuntistico, frantumandosi nell’ossessione di una fine incombente, nella realtà già compiuta. Nella grave meditazione di questo requiem senza illusioni, reso ancor più straziante da un severo distacco, tra le tante metamorfosi del titolo è già contenuta anche quella di una ricerca della verità sfuggente alle soglie dell’oscurità. Le Metamorfosi erano inizialmente destinate, secondo l’intenzione dell’autore, ad essere eseguite soltanto dopo la sua morte. Furono poi invece dedicate a Paul Sacher e al suo Collegium Musicum di Zurigo che ne diede la prima esecuzione nella sala piccola della Tonhalle il 25 gennaio 1946. Julius Patzak, il grande tenore, era fra gli ascoltatori e si rivolse alla fine a Strauss dicendogli: «Le Metamorfosi mi hanno molto commosso, ma mi hanno anche fatto molto triste». «Crede che si possa scrivere qualcosa di allegro, quando la musica tedesca è morta?» rispose l’autore.