Le date
Serie Red Planet
Beethoven, Leonora n. 1 op. 138, ouverture
Haydn, Concerto Hob. 7 b: 1 in Do maggiore per violoncello e orchestra
Mozart, Sinfonia n. 40 K 550
Biglietteria
ABBONAMENTO ai 23 concerti
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 276,00 (+ prev.)
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 218,50 (+ prev.)
Balconata € 172,50 (+ prev.)
Ridotti (Giovani under 26; Anziani over 60; Cral; Associazioni Culturali; Biblioteche; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 207,00 (+ prev.)
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 161,00 (+ prev.)
Balconata € 126,50 (+ prev.)
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore: Christoph Poppen
Violoncello: Gabriele Geminiani
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Ludwig van Beethoven (Bonn, 17 dicembre 1770 – Vienna, 26 marzo 1827)
Leonora, ouverture caractéristique, op. 138
Andante con moto, Allegro con brio, Adagio ma non troppo, Allegro con brio
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, archi.
Ed. Haslinger, Vienna, 1832
Prima esecuzione: 1828, Vienna.
Franz Joseph Haydn (Rohrau, 31 marzo 1732 – Vienna, 31 maggio 1809)
Concerto per violoncello in do maggiore, Hob. VIIb:1
Moderato
Adagio
Allegro molto
Organico: 2 oboi, 2 corni, archi.
Ed. Musica Viva Historica, Artia, Praga, 1963
Prima esecuzione 9 maggio 1962, Praga, solista Milos Sádlo, Orchestra Sinfonica della Radio Cecoslovacca, direttore Sir Charles Mackerras
Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791)
Sinfonia in sol minore n. 40, K. 550
Allegro molto
Andante
Minuetto – Allegretto
Allegro assai
Organico: flauto, 2 oboi, 2 clarinetti (aggiunti nella seconda versione, 1791), 2 fagotti, 2 corni, archi.
Ed. Cianchettini & Sperati, Londra 1810
Note a cura di Andrea Dicht
Beethoven, overture Leonora n. 1, op. 138
Tutta la musica di Beethoven è drammatica, nel senso che contiene un germe di trama più o meno esplicito, e di sicuro è mossa da una dinamica degli affetti che la mostra come tale. Però Beethoven ha scritto una sola opera, il Fidelio o l’amor coniugale, la cui genesi è stata travagliata e la ricezione piuttosto sfortunata. Beethoven era impaurito e allettato dall’idea di scrivere per il teatro. Il problema più difficile da risolvere era, però, proprio alla radice della creazione di un’opera: la forza di un libretto e la categoria estetica di riferimento sia vocalmente che dal punto di vista più generale del linguaggio musicale. Beethoven non era un uomo da compromessi e tanto meno era animato dalla preoccupazione di compiacere il pubblico, in particolare in un’opera i cui valori fondamentali sono l’affrancamento dalla prigionia ed il trionfo del bene contro il male. La contraddizione più forte risiedeva proprio nella natura della commissione teatrale: ad un compositore così poco incline a seguire le mode veniva proposta una trama di una pièce a sauvetage (in tedesco Rettunsstück), ovvero di un componimento teatrale che si basa sull’empatia del pubblico per le sofferenze di un eroe in bilico sull’orlo del martirio ma che viene salvato da un colpo di teatro che pone fine alle sue sofferenze e vede trionfare l’amore sull’odio.
Una testimonianza della difficoltà creativa connessa a quest’opera è testimoniata dalle overtures preposte all’inizio dell’opera. Se si contano ben tre overtures sotto il nome di Leonora (moglie del carcerato Florestano, che si travestirà da uomo e si chiamerà Fidelio), il numero di brani sinfonici di apertura giunge a quattro contanto quella che diverrà l’overture dell’opera in occasione delle messe in scena, e che non sarà considerata come brano singolo.
Oggi delle tre Leonore si esegue in genere la n. 3, la più ampia e compiuta sia sotto il profilo strutturale che sotto quello sinfonico. Se è vero che tutti e quattro i brani contengono in qualche modo l’essenza del dramma di Fidelio, la n. 3 tra questi è quello che più facilmente affascina il pubblico e dà la sensazione del brano sinfonica indipendentemente dall’intendimento teatrale originale.
La Leonora n. 1, invece, è un brano singolare e degno di esser considerato con più attenzione del solito. Beethoven non amò mai questa composizione, ed il numero d’opera così alto (138, e nel catalogo beethoveniano l’ordine degli opus è quasi sempre cronologico) è dovuto al fatto che venne eseguita durante la sua vita ma fu pubblicata solo postuma. Dopo tanta sofferenza creativa Beethoven non volle mai più accostarsi ai vari stadi attraverso i quali era arrivato alla stesura definitiva di Fidelio, ma l’opinione sulle overtures non era così omogenea, al punto che Fanny Mendelssohn arrivò a dichiarare che Beethoven non capisse nulla della sua musica poiché a suo avviso la Leonora n. 1 possedeva una forza comunicativa ben superiore a molte altre sue composizioni più celebrate.
In effetti uno dei tratti distintivi di questo brano, scartato dopo un’audizione privata presso il palazzo del principe Lobkowitz, è proprio il nitore del gesto musicale: non vi è spazio per atteggiamenti compiacenti, il materiale musicale fluisce con i ritmi che gli sono propri, la strumentazione non è mai ridondante e ogni singola frase musicale è tornita in maniera spietata ma assai efficace.
I primi violini aprono l’overture, con una melodia non accompagnata e scandita da un unisono degli archi. A questa atmosfera misteriosa seguono scale e arpeggi che percorrono l’intera tessitura degli archi, proprio secondo quella melodia di timbri che fa sembrare l’orchestra beethoveniana uno strumento musicale a sé stante.
Vigore e fiducia sono le categorie entro cui si muove l’Allegro con brio, informato da un breve ma ben distinguibile tema dei violini primi e secondi. E’ un allegro di sonata, con diverse idee che si susseguono ma in luogo dello sviluppo troviamo un Adagio, dove a farla da padroni sono i fiati. Lunghe melodie si aprono e chiudono su un letto di arpeggi degli archi, in particolare di violini e violoncelli, le armonie fluttuano senza pericolosi scarti fino a quando la vis ritmica torna ad addensarsi e si sfocia direttamente nell’Allegro con brio dell’inizio. L’importo musicale è lo stesso, con la differenza che la melodia dei violini rallenta fino ad arrestarsi, e quattro secchi accordi di tutta l’orchestra concludono la pagina.
Haydn, Concerto per violoncello in do maggiore, Hob. VIIb:1
Quando il repertorio si arricchisce grazie alla scoperta di qualche nuova composizione, sia essa di un autore noto o più defilato dal panorama più frequentato, è sempre un evento piacevole e una fonte di ispirazione per gli studiosi impegnati a scandagliare le biblioteche e i fondi musicali sparsi per il mondo. Il caso del ritrovamento tardivo (1961) dell’oggi notissimo Concerto in do maggiore di Haydn per violoncello, però, è un caso clamoroso ed insperato per un motivo fondamentale: Haydn ne aveva lasciato notizia ed incipit tematico in una sua personale catalogazione, oggi nota come Entwarf-Katalog (1765), redatta sotto l’esigenza di mostrare al suo nuovo datore di lavoro, l’illuminato Nikolaus Esterházy, quanto fosse volenteroso e pieno di entusiasmo.
Robbins-Landon, ritenuto il più importante storico del classicismo viennese, ha definito questo ritrovamento come la più importante scoperta del Novecento. Può sembrare un’esagerazione, ma per diverse ragioni non lo è. Innanzitutto la portata di un nuovo Concerto di Haydn nel repertorio per violoncello ha un particolare rilievo se si considera che la triade viennese Haydn – Mozart – Beethoven è stata piuttosto parca nei confronti di questo strumento. A sua volta Haydn non ha frequentato la forma del concerto solistico con l’assiduità con cui ha composto sinfonie, quartetti e canzoni. Il violoncello del Settecento, dopo la fioritura barocca, è un mondo abbastanza poco popolato, se si eccettuano le composizioni di grandi virtuosi dello strumento, che però spesso non sono stati altrettanto dotati compositivamente. Di Haydn si conosceva il famoso e sempre suonato Concerto in re maggiore, difficilissimo e brillante, a sua volta oggetto di grandi dubbi di attribuzione, oggi definitivamente fugati. Composto per Anton Kraft, violoncellista presso l’orchestra di corte Esterházy, amico di Mozart e di Beethoven (che scrive a sua misura l’impervia parte del Triplo Concerto), si sapeva che il Concerto in re maggiore era il n.2, proprio dalla catalogazione succitata. Nel 1961 il musicologo Oldrich Pulkert trova nel Museo Nazionale di Praga, nel fondo Rademin, un set di parti non autografe di Haydn ma riferibili senza dubbio all’incipit presente nel catalogo dell’ancor giovane Haydn. Il set è completo e vi è anche la parte del solista (all’epoca non si usava stampare o produrre manualmente partiture, lo faceva solo il compositore), elemento alquanto raro ma in questo caso decisivo. Conosciamo moltissimo dell’attività dell’orchestra dei principi ungheresi, e per questo è stato facile attribuire la mano del copista al giovane violoncellista Joseph Weigl (1740-1820), in quegli anni unico violoncellista stabile dell’ensemble, la cui assunzione era peraltro stata apertamente caldeggiata dal compositore stesso. In quel periodo Haydn era ancora vice-Kapellmeister, ma l’anzianità del suo superiore lo metteva ogni giorno in una luce sempre più brillante. Weigl era un virtuoso dalle doti indiscutibili, ed è a lui e ad altri stimabilissimi solisti dell’orchestra che dobbiamo le frequenti parti solistiche degli archi nelle Sinfonie del primo periodo di permanenza di Haydn a corte (uso che diverrà molto più raro, o scomparirà del tutto successivamente).
La datazione del Concerto, di sicuro precedente al 1765, è oggi unanimemente riconosciuta intorno al triennio 1762-64, quello delle Sinfonie 6-8, quindi di venti anni precedente il più noto Concerto n.2. La riprova è nella forma ancora acerba che i compositori adottavano in quegli anni di transizione dal Barocco al Classicismo, con una tendenza bitematica ancora non del tutto sviluppata, ed una necessità drammatica ancora ingessata nell’alternanza tutti-solo del primo Settecento. Ciò che rende, però, particolarmente prezioso questo brano è la perizia della scrittura del violoncello e l’esperienza sinfonica che è dietro alla stesura delle parti d’orchestra. Haydn, all’alba del trentennio che passerà a corte, è già un compositore esperto e dalla vena inesauribile.
Il Concerto è una composizione sostanzialmente serena, in un solare do maggiore, non priva di momenti di tensione emozionale, ma tutta volta verso sonorità brillanti e ricche. L’orchestra apre il primo movimento (un Moderato che ha tutte le caratteristiche di un Allegro) con il tema principale, senza introduzioni. Si entra subito in media res con una sorta di fanfara di vittoria, alla quale si contrappone, dopo poche misure, un tema più pacato, di sapore sinfonico (ed infatti mai ripreso dal solista), che ha la funzione di conferire dinamica emozionale al brano. Una coppia di scale rapidissime dei violini conclude l’introduzione orchestrale per lasciare il passo al solista, che ripercorre alla lettera il tema d’apertura. Ad esso fa seguire un tema più cantabile che proietta il violoncello nella regione acuta, una delle caratteristiche di questo brano, della tecnica di Weigl, del classicismo di impronta violinistica del secondo Settecento. Nuove scale, sempre più acute portano al nuovo tutti orchestrale, che stavolta conduce ad una sezione di sviluppo tutta volta al virtuosismo. La ripresa ripercorre i temi principali, stavolta variati sia nella parte solistica che d’orchestra, fino ad una Cadenza, lasciata al violoncello solo, per la quale vi sono alcuni spunti nel manoscritto di Weigl.
L’Adagio è il momento del lirismo e la ricerca di espressione di Haydn è testimoniata anche da una maggiore attenzione del compositore alle dinamiche. Momenti di chiaroscuro ben delineati, frasi di impronta vocale e spesso anch’esse agli acuti del violoncello, doppie corde di esecuzione difficile ma molto efficace, sono questi gli ingredienti di questa pagina. Nondimeno è proprio da questo lirismo che si intravede il sinfonismo di Haydn: non sarebbe difficile immaginare il contenuto musicale di questo Adagio in una veste meramente orchestrale e non solistica.
Il finale è un Allegro molto che fa pensare ad una sorta di moto perpetuo di note veloci e staccate. Esso colpisce ed affascina per il vigore della sua costruzione, sempre avvincente, unito alla leggerezza ed al brio del brano. Il violoncello gareggia con i violini e diventa difficile stabilire chi può primeggiare. Weigl doveva essere davvero un solista formidabile perché il virtuosismo è spinto a vette inusitate, comparabili ad una maturità tecnica che si vede richiesta solo nel repertorio più tardo, diremmo beethoveniano. E’ una ridda che crea un quadro generale sereno e gioioso, con una punta di ironia quando il violoncello alterna arpeggi e note staccate perdendosi in modulazioni armoniche audaci che conferiscono al brano un sapore non solo tecnico ma di grande gusto musicale e formale.
Sin dal suo apparire, il Concerto in do maggiore ha sedotto i solisti di tutto il mondo, in primis Rostropovich, Jaqueline du Pré e le generazioni successive. Resta, però, un’ombra difficile da spiegare: perché Haydn non ne fa mai menzione nelle sue copiose e dettagliate lettere? Perché non è stato mai dato alle stampe (e Haydn veniva pubblicato con grande felicità dagli editori di Vienna e del resto d’Europa)? Perché non ci sono cronache sia delle esecuzioni a corte che di quelle fuori dal castello degli Esterházy? Nonostante il successo novecentesco, è molto probabile che Haydn non tenesse in grande conto questa composizione, ma d’altronde anche Ciaikovskij detestava essere acclamato e famoso per le sue Variazioni Rococò, che considerava poco più che un pezzo d’occasione.
Mozart, Sinfonia in sol minore n. 40, K. 550
La generazione romantica ha amato la Sinfonia n. 40 di Mozart più di ogni altra sua creazione. In essa è contenuta in nuce tutta la visione ottocentesca del salisburghese e, per quanto riduttiva e costretta in schemi oggi desueti, è altrettanto vero che contiene elementi ancor oggi ineludibili per una corretta visione del compositore. Mozart scrive la Sinfonia contestualmente alla n. 39 e all’ultima del suo catalogo, la “Jupiter” n. 41. Il tutto in un lasso di tempo di 6-8 settimane, durante l’estate 1788, periodo nero che nella sua biografia è occupato della morte del difficile genitore Leopold. Ecco un primo elemento di sapore romantico: la morte, un sentimento di morte che è facile proiettare su Mozart stesso, aiutati da una rara tonalità d’impianto, sol minore, che insieme alla sinfonia sorella minore n. 25 resta l’unico esempio del suo corpus sinfonico. La leggenda romantica vuole che Mozart non abbia mai sentito eseguire questa Sinfonia. Oggi possiamo dire che probabilmente le cose non sono andate così. Di sicuro non siamo di fronte ad un brano che godette di una ricezione entusiastica ed immediata, e la postuma edizione ne è una testimonianza. Se è vero che non si hanno dati certi su una sua esecuzione Mozart vivente, il fatto che nel 1791 essa fu oggetto di revisione (caso alquanto raro in Mozart, che stendeva i suoi lavori sempre in redazione definitiva, senza errori) fa pensare che il compositore abbia avuto delle buone ragioni per introdurre i clarinetti e rivedere la parte di alcuni strumentini, in particolare gli oboi.
E’ un gran brutto periodo per Mozart, quel 1788. Guadagna pochissimo, per il misero lavoro che Giuseppe II gli offre, vive in una casa nel centro più esclusivo di Vienna senza poterselo permettere, e suo padre non ha mancato di partecipargli ogni giudizio più negativo sulla conduzione della sua vita. Sì, è morto, adesso, ma una sorta di sindrome di Stoccolma gli fa vivere questo abbandono terreno in maniera patologica. Per di più, l’amata moglie Konstanze è sempre più assente dalla sua vita: è evidente che anche lei è stufa dello scarso successo sociale del marito, nonostante l’esclusivo appartamento, e i sospetti di sue tresche extra-maritali durante i suoi frequenti soggiorni termali (peraltro costosissimi) sono all’ordine del giorno.
In questa situazione, sebbene non siano evidente particolari problemi di salute, Mozart sente fretta e compone con più velocità del solito. Il 26 giugno completa la Sinfonia n. 39, il 25 luglio la n. 40 e il 10 agosto l’immensa e definitiva Jupiter.
I romantici, però, preferiscono la penultima. Perché vi è un elemento che ancora oggi affascina e fa amare e temere questo brano: vi è l’abisso. E’ difficile infatti determinare qual è il tono complessivo dell’opera. Sì, in generale non è serena, ma comprende anche momenti più spensierati, a tratti ironici, severi ma anche in qualche misura voluttuosi. Sta all’ascoltatore percepirli e lasciarsi trasportare del dramma non verbale che disegnano nella loro successione. Ciò che vale, però, per l’ascoltatore di ogni epoca sono quei brevi incisi, quelle poche battute in cui tutto sembra grave ed irrecuperabile, in cui tutto è finito e senza soluzione, un messaggio per l’uomo romantico tanto quanto per l’uomo al di là di ogni epoca o cultura.
Ed ecco affacciarsi il genio ed il vero valore di Mozart e della sua musica. Più di chiunque altro, egli ha saputo identificare un uomo universale (ideale, questo, ultra-romantico) al quale riferirsi, al quale parlare e del quale descrivere le debolezze, tanto nella musica strumentale che nell’opera. Ed il dramma, quindi, si affaccia sin dall’inizio: il Molto Allegro si apre con un tema di impronta lirica, su un concitato movimento delle viole, sottolineato da un ritmo inamovibile dei bassi. Prima ancora di creare una dialettica nel tempo, Mozart ci propone il contrasto nella simultaneità, e l’ingresso del grazioso secondo tema non fa che acuire questo dramma. Pur nell’ambito della compostezza classica, una tragedia si consuma ed è proprio su questo terreno che il divario ci viene proposto: il dramma del contrasto viene reso “necessario” grazie alla forma che lo contiene, e la dialettica dei temi (grande “scoperta” del classicismo viennese) diventa imprescindibile.
Il genio di Mozart, però, non si limita ad esporre, ma presenta l’oggetto sotto varie forme. Nell’Andante, ad esempio, egli disegna una cornice in puro stile rococò e ci mostra, attraverso la lenta costruzione di un climax, come da un linguaggio innocente possano nascere le parole più dure ed amare. In questo caso la distanza tra il significante (la lingua) ed il contenuto si presenta come una metafora del dramma, pur essendo questa Sinfonia ben meno “audace” stilisticamente rispetto ad altre opere di Mozart.
Il Minuetto – Allegretto invece propone un netto contrasto tra l’apertura (e la chiusura) ed il Trio che vi è incastonato. Se il Minuetto è tutto slanciato verso l’alto, pieno di energia e dalle linee melodiche nitide quanto ostinate nella ripetizione di poche cellule ritmiche, il Trio è quasi immateriale ed ogni inciso vive di vita propria, di breve respiro, con un inizio ed una fine indisturbati. Di tutta la Sinfonia, questo è l’unico bagliore di luce pura, l’unico momento in cui ritroviamo quel Mozart apollineo che ci fa dimenticare la disperazione che ci ha accompagnati finora nel suo viaggio interiore. La Ripresa del Minuetto chiude il movimento con gli stessi umori con cui si era aperto e ci conduce al meraviglioso Allegro assai che conclude la Sinfonia. La vitalità ritmica di Mozart è qui in piena luce: ad un brevissimo arpeggio ascendente, in piano, risponde un tutti-forte a piena orchestra e questo contrasto viene ripetuto per ben quattro volte, a testimoniare quanto il problema iniziale sia rimasto irrisolto. Non è sufficiente il calmo secondo tema per sedare l’insistenza del primo e, come nel Molto Allegro di apertura, il gioco conduce al clamore di un climax tale per cui la ripetizione del primo tema suona come la restaurazione dell’ordine: il disordine è il nuovo ordine, e l’iterazione di forti accordi di sol minore alla conclusione del movimento suggellano questa nuova amara verità.