Le date
Serie Curiosity
Beethoven, Egmont op. 84, ouverture
Strauss, Duetto Concertino per clarinetto, fagotto, orchestra d’archi e arpa
Beethoven, Sinfonia n. 4 op. 60
Biglietteria
ABBONAMENTO ai 23 concerti
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 276,00 (+ prev.)
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 218,50 (+ prev.)
Balconata € 172,50 (+ prev.)
Ridotti (Giovani under 26; Anziani over 60; Cral; Associazioni Culturali; Biblioteche; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 207,00 (+ prev.)
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 161,00 (+ prev.)
Balconata € 126,50 (+ prev.)
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore: Walter Weller
Clarinetto: Marco Giani
Fagotto: Lorenzo Lumachi
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Ludwig van Beethoven (Bonn, 17 dicembre 1770 – Vienna, 26 marzo 1827)
Egmont, overture in fa minore, op. 84
Sostenuto ma non troppo, Allegro, Allegro con brio
Organico: 2 flauti (con ottavino), 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, archi.
Ed. Breitkopf und Härtel, Lipsia, 1812
Prima esecuzione 15 giugno 1810, Hoftheater, Vienna, direttore l’autore.
Richard Strauss (Monaco, 11 giugno 1864 – Garmisch-Partenkirchen, 8 settembre 1949)
Duetto-Concertino per clarinetto, fagotto, archi e arpa
Allegro moderato
Andante
Rondò. Allegro ma non troppo
Organico: clarinetto, fagotto, arpa, archi.
Ed. Boosey & Hawkes, Londra, 1949
Prima esecuzione 5 aprile 1948, Orchestra di Radio Monte Ceneri, Lugano, direttore Otmar Nussio.
Ludwig van Beethoven (Bonn, 17 dicembre 1770 – Vienna, 26 marzo 1827)
Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore, op. 60
Adagio, Allegro vivace
Adagio
Allegro vivace
Allegro ma non troppo
Organico: flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi.
Ed. Bureau des Arts et d’Industrie, Vienna, 1808
Prima esecuzione: marzo 1807, palazzo del Principe Lobkowitz, Vienna, direttore l’autore.
Note a cura di Andrea Dicht
Beethoven, Egmont, overture in fa minore, op. 84
La sconfitta della tirannia era un principio di suprema importanza per Beethoven, ed è il soggetto che conferisce esplosività alla tragedia Egmont (1788) di Goethe, autore per il quale il compositore nutriva un’ammirazione che sconfinava nell’idolatria. Per cui non stupisce che quando il Burgtheater di Vienna nel 1809 commissionò a Beethoven le musiche di scena per una ripresa dell’Egmont egli rispondesse con una delle sue partiture più eloquenti, formata da nove brani di cui l’Overture è di gran lunga la più appassionata.
Come nelle tre Overtures per Leonora, anche questa anticipa l’essenza dell’azione che seguirà, una trama che si fonda sull’occupazione militare dell’Olanda, nel Cinquecento, da parte dello spagnolo Duca di Alba, inviato nelle Fiandre da Filippo II per sedare ogni anelito di rivolta. I temi sono il tradimento del popolo olandese, la sofferenza, la nascita di un sentimento di rivoluzione, il sogno della vittoria ed una finale chiamata alle armi.
L’Overture si apre con accordi pesantemente accentati in un oscuro fa minore. E’ solo una coincidenza che il loro ritmo richiami alla memoria un’antica danza spagnola, la sarabanda, rallentata ad un tempo minaccioso? Non vi è evidenza dell’associazione di questi accordi al temuto Duca di Alba, ma è anche vero che Beethoven non ha bisogno e non è aduso a didascalie troppo letterali. Seguono frasi di carattere più lirico, ed una di queste si sedimenta in una ripetizione che prima di diventare ossessiva dà vita al tema dei violoncelli, una melodia tutta discendente, innocente e risoluta. Su di essa Beethoven costruisce il climax dell’intera orchestra, che culmina sui minacciosi accordi iniziali, stavolta più rapidi ma non meno marcati.
Una breve sezione di sviluppo riporta i temi principali già uditi, quando all’improvviso il discorso musicale rallenta per fermarsi del tutto su lunghe note di oboi, clarinetti e fagotti. L’orchestra riparte dal silenzio, l’atmosfera è densa di aspettativa, i violini fremono e tutti gli strumenti crescono di sonorità fino ad una fanfara di vittoria che nel dramma accompagna Egmont al patibolo. Ma chi è Egmont, che così fieramente e con serenità affronta la morte? Egli è un nobile condottiero al seguito di Carlo V, sostenitore della tolleranza religiosa e dell’indipendenza delle Fiandre, imprigionato dal feroce Duca e giustiziato. La sera prima dell’esecuzione sogna l’amata Klärchen che gli viene incontro, con la gonna sporca del sangue di Egmont e lo incorona eroe assicurandogli che la sua morte darà al popolo olandese l’energia per riconquistare la propria libertà.
Non stupisce l’entusiasmo di Beethoven per questa tragedia, forse la più shakespeariana nella produzione drammaturgica di Goethe. Se è vero che la libertà dell’individuo e dei popoli è uno dei temi cari al compositore, nondimeno l’immagine di un popolo codardo che ha bisogno del sacrificio del suo eroe per risvegliarsi non può non aver infiammato Beethoven, un uomo sempre molto critico verso la società del suo tempo e la sua inerzia, un intellettuale che ha cercato sempre di contemperare la sua visione politica e sociale con la propria arte. Grazie a questa partitura Beethoven poté finalmente incontrare Goethe, che ne conosceva già genio e temperamento saturnino. In una località termale i due passarono diverse giornate insieme, con colloqui di molte ore, ma la scintilla non scoccò mai. Fondamentalmente Goethe, che a 60 anni si era ritirato a vita privata, non amava il fuoco interiore di Beethoven ed il suo carattere difficile (anche se di certo apprezzava la sua devozione, genuina sin dalla prima ora). Parlarono addirittura di una collaborazione sul famoso Faust ma nulla si concretizzò mai. Sappiamo per certo, però, che Goethe ascoltò privatamente la partitura di Egmont che Beethoven volle inviargli all’indomani del suo completamento, e che Goethe non la commentò in alcun modo. Se vi fu mai un apprezzamento nei confronti del compositore, esso è testimoniato solo da una famosa lettera del poeta a sua moglie, nella quale dichiara anche la profonda pena per l’incipiente perdita dell’udito, “e questo è un fatto che danneggia forse meno la parte musicale del suo essere che quella sociale”. Goethe aveva centrato in pieno il problema.
Strauss, Duetto-Concertino per clarinetto, fagotto, archi e arpa
Il ‘46 fu l’anno dell’esilio svizzero di Strauss, una permanenza che pesò molto sull’animo stanco di un compositore che vedeva lo scorrere dei suoi ultimi anni in una condizione immeritatamente disagiata, e che inoltre assisteva ad un oscuramento della propria notorietà a causa degli incarichi e dell’occhio di riguardo di cui aveva goduto durante la dittatura hitleriana. I mesi svizzeri servivano anche a questo, alla denazificazione della sua immagine, come anche il Festival Strauss del 1947, che venne organizzato a Londra sotto gli auspici del direttore Sir Thomas Beecham e nel quale le sue opere più significative vennero eseguite. Strauss stesso diresse l’orchestra nonostante l’età avanzata.
Con il Duett-Concertino, sua ultima composizione strumentale (a 83 anni!), assistiamo alla nascita di un lavoro che, a differenza del precedente, sembra del tutto estraneo ad ogni vicenda emotiva o politica, e si rifà invece apertamente a quell’atmosfera fantastica e onirica alla quale si era ispirato in molti suoi lavori degli anni passati, vedi le opere “Capriccio” o il famoso “Cavaliere della Rosa”. Dedicato a Hugo Burghauser, ex fagottista dei Wiener Philharmoniker emigrato negli Stati Uniti durante gli anni bellici (trovò lavoro presso l’Orchestra del Metropolitan di New York), il Duetto venne eseguito per la prima volta a Lugano, con l’Orchestra della Radio della Svizzera Italiana (anticamente nota come Radio Monte Ceneri), sotto la guida di Otmar Nussio, e proprio a questo direttore dobbiamo le notizie più importanti riguardo questa pagina così geniale e sorprendente. Nussio spinse Strauss verso la composizione di una “favola”, ovvero di un brano tagliato su una concezione drammatica, con un paio di personaggi ed una tenue trama di riferimento e questa concezione, per un compositore che al teatro aveva dedicato ogni sua energia, la proposta suonava allettante. Ogni riferimento alla favola, però, è da riferirsi alle parole di Nussio poiché la partitura non reca alcuna indicazione a questo riguardo. Sappiamo solo che Strauss scrisse all’inizio della riduzione per pianoforte (e solisti) “Principio: Motto”, in luogo della consueta indicazione di tempo, ad indicare che l’inizio della musica va inteso come la presentazione degli attori di una commedia che si avvarrà solo di suoni, il cui svolgimento è lasciato alla fantasia di chi ascolta.
Nussio incontrò Strauss a Pontresina, dove il compositore risiedeva, e queste sono le definizioni che l’autore gli confidò durante la prima analisi della partitura. Egli ci racconta che le prime nove battute del brano, l’apertura iniziale, significano “C’era una volta…”, come in ogni fiaba, e ad esse segue la presentazione dei due personaggi, cioé i solisti. Il tema del clarinetto rappresenta “La Principessa”, aerea, appartenente ad un mondo di sogno ma anche a tempi ormai passati, quando l’ordine naturale delle cose era garantito, un’epoca di certezze quasi fanciullesche se paragonate ai giorni che l’anziano Richard viveva in Svizzera. Il fagotto, che aveva taciuto sino a quel momento, entra con un tema definito come “Il Mendicante”, di tenore molto diverso dal precedente, è goffo, affatto leggero e del tutto incompatibile per sua natura con ogni nobiltà principesca. I due si incontrano e la trama si sposta nel “Palazzo” (tema degli archi “Un poco Maestoso”), dove comincia un episodio, “Adorazione”, corrispondente all’Adagio che conclude la prima parte del lavoro. Tutto il finale, un Rondò di fattura assolutamente eccezionale, è da considerarsi come una specie di happy end conclusivo, nel quale non è difficile immaginare un mendicante che si trasforma in principe o quant’altro. Ciò che emana da queste note è fascinazione, è desiderio di sognare, di immergersi in una dimensione irreale e probabilmente è da questo tipo di composizioni che la critica partì quando parlò di una fuga dalla realtà, inaccettabile in quel momento storico così come in ogni altro. Di certo la distanza che separa Metamorphosen dal Duett-Concertino è enorme, ma Strauss era un individuo talmente radicato nella realtà sociale del suo tempo da obbligarci a cercare una diversa lettura. E’ più probabile che questo vecchio saggio ci abbia voluto indicare tanto una via d’uscita, il sogno, quanto una speranza in un mondo, quello fiabesco, irrealizzabile ma al quale ispirarsi per l’edificazione di una nuova società e di una civiltà che sostituisca quella appena sepolta dalle bombe.
“In quanto alla data di consegna nulla posso promettere, non essendo io capace, come Schubert e Mozart, di comporre in pochi giorni delle Sinfonie sublimi”. Così Strauss aveva scritto a Nussio il 17 luglio 1947.
Beethoven, Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore, op. 60
La Quarta Sinfonia è un brano enigmatico come lo è l’Ottava, altra negletta del palcoscenico, ma entrambe diventano misteriose solo quando le colleghiamo alle altre. Probabilmente, però, riconoscendo la poliedricità del loro creatore, una parte di questa indecifrabilità cade, ed è in questo momento che Beethoven si mostra in tutta la sua grandezza, proprio in questo suo sfuggire dalle categorie estetiche e storiche in cui la scienza ha infaticabilmente tentato di costringerlo. Innanzitutto la Sinfonia op. 60 è eccezionalmente bella, così protesa com’è verso la conquista di ogni suo pubblico, ma alla base di questa caratteristica vi è una costruzione formale molto elegante, una strumentazione mai scontata e un contenuto melodico che non ha nulla da invidiare alle altre Sinfonie di Beethoven. Sembrano gli ingredienti della musica di maniera, di un ottimo artigiano, ma non è così: il compositore di questa Sinfonia è ormai del tutto maturo ed esperto della forma, gode di successo e considerazione (o meglio, timore) e questa tendenza esteriore della sua musica risulta del tutto sotto controllo, ovvero mai a scapito di quel portato di significati che sembra intrinseco ad ogni sua opera. D’altronde, se è vero che una musica positiva e serena è in conflitto con l’idea che tutti abbiamo di Beethoven (e che lui amava dare di sé), è altrettanto vero che finalmente in quelle settimane dell’estate 1806 la tormentata relazione del compositore con Teresa von Brunswick conosceva un raro momento di distensione.
Sin dalle prime note la Quarta Sinfonia catalizza l’interesse degli ascoltatori: un Adagio, tutto giocato sul pianissimo, crea un’atmosfera di attesa grazie ad accenni di melodie mai compiute e ad armonie non risolte, timidamente striscianti ma costruite con sapienza teatrale. E’ un susseguirsi di tentativi sino a quando l’intera orchestra si riunisce su un accordo che, trasportato da un’improvvisa accelerazione del tempo, ci conduce all’Allegro vivace che costituisce il vero primo movimento della Sinfonia.
L’atmosfera è delle più spensierate, difficilmente immaginabile se accostata al Beethoven della Sinfonia Eroica o della famosa Quinta (la cui composizione Beethoven aveva accantonato in favore di questa), e l’intero svolgimento del primo tempo consiste nella giustapposizione di episodi dal carattere contrastante il cui collegamento melodico è basato su una raffinatissima economia della forma. Il primo tema è di una semplicità disarmante, disegnato sulle note dell’arpeggio della tonalità d’impianto della Sinfonia; presentato più volte, ora in piano ora ad orchestra piena, esso funge da contraltare ad un vero e proprio gruppo di secondi temi in cui i legni la fanno da padrone. Il contrasto tra i due temi è in questo modo assicurato tanto dalla forma melodica quanto da una vera e propria differenziazione timbrica, una sorta di legittimazione dei temi attraverso l’attribuzione di una personalità sonora ben definita. Appare chiaro, a questo punto, quanto Beethoven a partire dall’Eroica tenda verso un ampliamento di quella dicotomia dialettica tra i temi che è alla base della forma-sonata di epoca classica. Quel che però più sorprende è il favore con cui fu accolta una Sinfonia come questa, che fortemente disturba l’ordine costituito ed accettato della forma, e fu solo grazie al suo genio di orchestratore ed alla sua personalità così assertiva che ciò poté accadere.
In effetti ciò che più affascina ed avvince sin dal primo ascolto di questo brano è proprio la dimensione puramente estetica: l’orchestra sviluppa una gamma molto ampia di suoni, dai più aerei agli accordi più pesanti, quasi agglomerati di suoni spesso dissonanti; le melodie sono sempre fresche e nettamente dettagliate, ed il tutto si svolge su una vis ritmica davvero sfrenata e difficilmente collocabile nella sfera del socialmente accettabile (per l’epoca, s’intende).
Il ritmo è tematico anche nel successivo Adagio, informato da un tema davvero beethoveniano, angelico, notturno quanto “semplice” (Berlioz, innamorato di questo movimento, vi vedeva “la mano dell’arcangelo Michele”). Il timpano è il protagonista di questo movimento pur rivestendo solo saltuariamente questo ruolo: i secondi violini disegnano timidamente e soli un ritmo simile ad un rintocco di orologio ma sarà la percussione a ripresentarlo, ora sola, ora con il resto dell’orchestra, a costituire così l’ossatura e la linea di continuità dell’intero brano. La forma è quella di un rondò sposato genialmente alla forma-sonata, e lo svolgimento consta di quattro esposizioni del tema principale, sempre leggermente variate nella forma e nella strumentazione, intervallate da episodi contrastanti ma sempre consequenziali. Un assolo di timpano riconduce la dinamica al rintocco di apertura e l’orchestra suggella la chiusura di questo splendido Adagio con due perentori e solenni accordi.
Se la fantasia ritmica è la legge di questa Sinfonia, il Minuetto, che storicamente è il movimento più canonizzato della forma sinfonica per il suo forte retaggio arcaizzante, non può che essere il luogo deputato all’inventiva più sfrenata. Il passo di danza si basa sulla struttura metrica del ritmo e Beethoven, ben esperto delle potenzialità sovversive e dionisiache insite al metro, gioca tutto il brano sullo spostamento degli accenti metrici in modo da creare un’alternanza dinamica tra il tempo ternario (proprio del Minuetto) e quello binario. Questo obbiettivo viene raggiunto sia attraverso melodie di difficile catalogazione ritmica, sia per mezzo dello spostamento di quelle coordinate foniche che consentono, spesso inconsciamente, all’ascoltatore di orientarsi e classificare ciò che viene udito in un ritmo riconoscibile. Beethoven, sempre alla ricerca del contrasto, incastona poi nella danza due Trii piuttosto innocenti, dall’inconfondibile atmosfera pastorale ma pur sempre “inquieti”, almeno nell’accompagnamento.
Conclude la Sinfonia un Allegro ma non troppo di incontenibile vivacità e di grande virtuosismo per tutte le sezioni dell’orchestra. Il tema non è chiaro, affidato com’è agli archi impegnati in un rapido moto perpetuo, e tematica è proprio la sensazione di velocità e leggerezza che viene comunicata. Piccoli frammenti di tema sono proposti dai fiati ma vengono sempre spazzati via dal vento degli archi e tutto il movimento è giocato sul tentativo di costringere una qualche melodia su una tavola che risulta sempre essere costituita da una sabbia finissima e del tutto incoerente. La coda è una delle più fantasiose di Beethoven: le acque si calmano e con pazienza e lentezza finalmente violini e fagotto riescono, sfiancati, ad enunciare la melodia, seppur fuori tempo ed in maniera impropria. Dai violoncelli una cascata di note in fortissimo reca di nuovo una tempesta che solo tre forti accordi dell’orchestra piena riescono a contenere, concludendo così una Sinfonia davvero appagante sotto tutti gli aspetti.
Il lavoro è dedicato al Conte Franz von Oppersdorff, un parente del Principe Lichnowsky, protettore di Beethoven. Il Conte aveva incontrato il compositore in occasione di una visita alla casa estiva di Lichnowsky, dove Beethoven periodicamente risiedeva. Von Oppersdorff aveva ascoltato la sua Seconda Sinfonia restandone ammaliato e gli aveva offerto una forte somma di denaro affinché ne componesse un’altra (della quale avrebbe detenuto anche i diritti esclusivi di esecuzione per sei mesi).