68ª Stagione Sinfonica Orchestra I Pomeriggi Musicali - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 09 maggio 2013
Ore: 10:00*
giovedì 09 maggio 2013
Ore: 21:00
sabato 11 maggio 2013
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Serie Red Planet
Dall’Ongaro, La primavera, per pianoforte e orchestra d’archi
Ravel, Concerto in sol per pianoforte e orchestra
Copland, Quiet city
Copland, Music for the theatre

Biglietteria

BIGLIETTI

Interi Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00 Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50 Balconata € 10,50

 Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università) Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00 Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50 Balconata € 8,50

Il Cast

Direttore: Fayçal Karoui
Pianoforte: Maurizio Baglini
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

A cura di Sergio Casesi

Aaron Copland, Quiet City; Music for the theatre
Quando oggi pensiamo ad Aaron Copland ci è impossibile non associarlo alla nascita e allo sviluppo dell’impero americano, con le sue curve, i suoi drammi e la sua mitologia. Nacque a New York nell’anno 1900 e, dopo un periodo di studio a Parigi con Nadia Boulanger, come molti americani dell’epoca, tornò negli Stati Uniti ancora molto giovane con il forte desiderio di scrivere musica nuova e americana, di rinnovare, se non co-fondare nuovamente, una musica colta nazionale. Se dapprincipio trovò semplice l’uso modernista di moduli jazzistici, nel corso degli anni la sua arte si fece sempre più raffinata, sempre più elegante. La sua tecnica cercò modi espressivi più complessi, rifiutando sempre però un intellettualismo fine a se stesso e, nel corso del secolo, il pensiero musicale europeo delle avanguardie del dopoguerra. Nel linguaggio di Copland affluiscono molte acque diverse, da Stravinskij a Ravel, da tutto il tardo romanticismo francese al jazz e alla musica da cabaret, ma il fiume che si venne a formare con la maturità del compositore fu cosa nuova e altra rispetto ai maestri. Con Copland, e non solo con lui certamente, la lezione di Ives nel corso dell’intero secolo è stata assimilata, anche se forse solo parzialmente, vedendo la nascista di uno stile americano ben distinguibile, chiaramente aderente alla visione americana della vita, intriso di elementi poi condivisi con la musica più chiaramente patriottica, e poi con la musica più retorica di Hollywood. Se Copland è riuscito essenzialmente in un’opera prima di rarefazione del linguaggio e poi, con una lenta ricomposizione di esso tramite l’uso di tecniche nuove mutuate dall’esperienza europea, a costruire un vocabolario americano, lo si deve certo al talento del compositore, ma anche ad alcune coincidenze di natura culturale e di intesa e visione che la sua musica ha ed aveva con ciò che gli Stati Uniti volevano essere nel mondo. Copland non è un compositore imperiale, non è il poeta di Nerone per capirci, eppure vivendo il novecento americano in pieno è riuscito a dar voce musicale a questo nuovo impero mondiale. Se spesso abbiamo assistito ad un esilio volontario di artisti americani, di grandissimi scrittori come Pound o Hemingway, con Copland assistiamo ad un processo diametralmente opposto: c’è quasi un isolazionismo della sua musica. Nella scia delle grandi scuole nazionali europee e del nuovo fare musicale di Bartok o Janacek, Copland compie un atto di fratellanza nazionale attraverso l’oggettivazione del materiale musicale e sonoro tipico statunitense. Compie un’opera di unità, di valorizzazione di tutto ciò che è popolare, sfoltendo questa parola di tutto ciò che in Europa può avere di negativo. Quando certi stilemi del Jazz vengono assorbiti dal compositore newyorchese, non solo si fa un’operazione di rinnovamento del linguaggio, ma si emancipa un mondo intero. Il Jazz era e resterà un’altra cosa rispetto alla musica colta, ma l’operazione di Copland e della sua generazione porta di fatto al superamento di qualunque barriera razziale, di qualunque steccato discriminatorio. E’ diverso se un compositore francese scrive qualcosa di jazzistico piuttosto che un compositore americano. Il primo si comporta come uno scopritore di qualcosa di esotico, di lontano, di folkloristico nel senso più superficiale. Il secondo dovrà fare i conti con la propria storia, con la propria società, con la propria comunità. E l’essere newyorchese per Copland non è solo un vantaggio, poiché se nella grande città il compositore vive la propria vita condividendo con altri artisti una visione più libera della società, il fatto che Copland si candidasse, in un certo senso, ad occupare lo scranno di compositore nazionale non poteva fare altro che far emergere in musica le contraddizioni di quella società in maniera forte e determinante. E sarà così che, con lo scoppio della grande depressione e poi della guerra che salverà l’economia americana e darà vita al grande impero, la musica di Copland si assocerà al sentire del New Deal e, ad esempio, al lavoro di un romanziere come Steinbeck. In qualche modo la musica di Copland diventa istituzionale, non divenendo la voce del potere, ma aderendovi di fatto. Non cercando fondi o appoggiando questo o quel politico, non all’italiana insomma, ma per un preciso, e forse populista, sguardo d’amore sul popolo americano di quegli anni. Una visione epica del popolo statunitense che in Copland però rinuncia ad una vera critica politica e storica, come invece accadde per troppi artisti poi epurati dal maccartismo. Di questo clima e di queste forze centripete la musica di Copland si nutre restando così un monumento americano che darà moltissimi frutti ma che fallirà sostanzialmente negli esisti più ambiziosi. Certo la figura centrale di Aaron Copland è indiscutibile, in un certo senso è il vero padre di moltissima musica contemporanea americana, ma le composizioni, anche le più preziose, non sconfiggono un giudizio di sufficienza. Piacevoli, spesso spassose e divertenti, spesso poetiche e struggenti, eppure sempre manchevoli di qualcosa. Allagate dal paesaggio americano, innervate da una poetica urbana luminescente, a volte neoclassiche, a volte canto del cowboy, le musiche di Copland non escono mai dai confini che il compositore ha così fortemente deciso per esse. Copland sembra rifiutare persino l’idea che la musica possa esprimere contenuti più complessi che non il senso del tempo colorato da suoni, percosso da ritmi e vissuto nel presente, senza che a questo si possa sfuggire, non è poco, certo, ma Copland non ha il coraggio e la forza di Stravinskij, così che spesso ci appare fragile o troppo debole. In Quiet City, composizione per Tromba, Corno Inglese e Archi ad esempio, si immagina con grande senso poetico, una città completamente svuotata, silente, abbandonata forse. Non sappiamo cosa è accaduto, se tutti ancora dormono nascosti o se qualcosa di inimmaginabile è avvenuto, qualcosa di inspiegabile. I suoni si rincorrono per grandi strade deserte, il sole si spacca su piazze desolate dagli uomini. Ancora alla domanda posta da Ives con Unanswerd Question non c’è risposta, anzi essa è moltiplicata, vola fra grattacieli silenziosi, fra prati vuoti e placide strade inutili. Quiet City è forse una delle pagine più suggestive del compositore, che nella scrittura di una breve ma vera poesia trova la forza di indagare l’Altro, il vuoto delle divinità, la forza di porre delle domande a cui la grande epopea americana non può dare risposte. Domande a cui il dogma commerciale degli Stati Uniti non può rispondere. La certezza interiore con cui Copland è solito scrivere la sua musica qui cede: il dubbio si insinua, pochi minuti, pochi minuti in una vita, forse troppo pochi? La Suite Music for Theatre, del 1925, opera fresca e poco più che giovanile, fa parte del primo periodo creativo di Copland. Dadaismo, Milhaud, tutta quella parte di Parigi di cui forse Copland si innamorò violentemente, bleu notes, cioè le note lievemente dissonanti che nel Jazz vengono usate per dare una particolare sfumatura melanconica: questi gli ingredienti di una piacevole orchestra scomposta e ricomposta in un gioco teatrale quasi assurdo, quasi non-sense, ricco e sapiente di intelligente leggerezza.

Ravel, Concerto in sol
Uno schiocco di frusta e l’ottavino si lancia. Il pianoforte in glissando e un crescendo ricchissimo fanno esplodere il tema dalla tromba un po’ eroica, un po’ giocattolo, per poi asciugarsi all’improvviso in un solo di corno inglese che, sui leggeri pizzicati degli archi, richiama il solista ad un nuovo tema, questa volta intimo e suadente. Il bisogno di armonia e di ordine, di controllo formale e di chiarezza espositiva che anche in questa composizione dimostra un Ravel “artificioso per natura”, secondo la definizione dello stesso compositore, è chiaramente comprensibile nel corso dell’intero Concerto. Un gioco prezioso dimostrante la voglia di dichiararsi in una lingua moderna ed antiromantica, ma che non rinunci all’espressione del sentimento, è la trama che lega ogni momento di questo capolavoro che si pone fra i massimi esiti nella storia del concerto solistico. Disse Ravel al critico musicale Calvocoressi: “Un Concerto nel vero senso della parola: voglio dire che molto è stato scritto con lo stesso spirito che anima quelli di Mozart e di Saint- Saëns. La musica di un Concerto, a mio parere, deve essere spensierata e brillante, e non deve mirare a gravi profondità o a particolari effetti drammatici. È stato detto di alcuni classici che i loro Concerti sono stati scritti non ‘per’ ma ‘contro’ il pianoforte. Sono d’accordo. Avrei voluto intitolare questo lavoro Divertissement. Poi, ho pensato che non vi era alcuna necessità di farlo, perché il titolo Concerto è perfettamente chiaro”. Nelle intenzioni del compositore quindi vediamo una ricercata leggerezza, una fuga forse dalla fragorosa drammaticità retorica dei concerti tardo romantici che venivano declamati nelle sale da concerto negli anni venti e trenta del secolo scorso. Eppure, anche se è rispettata in tutta la composizione questa linea di condotta, non è possibile non scorgere una tensione emotiva profonda in molti scorci del Concerto. Spesso nel primo tempo, ad esempio, le vertiginose esuberanti melodie che lo sorreggono si aprono in violente faglie ritmiche dall’oscurità mostruosa, insondabili, terribili. Ma sono attimi, presto il compositore si affretta a chiudere la botola, a mostrarci il sorriso educato e generoso di un uomo cordiale e ben educato che però sembra nascondere qualcosa di tremendo e di non ammissibile. I fasti del primo movimento, sospesi fra caricatura e canto, risolvono spesso in soluzioni eclatanti, ma Ravel sa così bene trattare la materia musicale che tutto ci appare così ordinato e posto con cura nella partitura da sembrare assolutamente naturale, perfino ovvio. La scrittura pianistica del primo movimento sembra essere il seme originario di tutti i colori che Ravel farà scaturire nel lungo lavoro di orchestrazione. Frantumata in scaglie luminescenti l’orchestra si porrà come moltiplicazione del pianoforte, si avranno più dimensioni sonore contemporaneamente, come in un coloratissimo quadro cubista. Se pensiamo al fagotto che viene costretto ad un canto spiegato che si fa urlo soffocato ma sempre suadente e sensuale, ai giochi velocissimi dei fiati sopra al corno lontanissimo e come perduto nella nostalgia, o all’improvviso sognare dell’arpa, abbiamo la cifra del primo movimento. I colori di un preziosismo inarrivabile sono ottenuti spingendo gli strumenti nella loro zona estrema, dove il timbro cambia per farsi meno terrestre, più indefinibile, meno certo. Il piano solo apre il secondo movimento. Un Adagio in tre quarti, una danza sul vuoto in cui ci si ritrova abbracciati al nulla. Una danza nel buio del più profondo smarrimento della solitudine. Ma quel buio non è luogo per gli uomini, così, simile ad un fantasma, la melodia della mano destra vaga meravigliosamente sugli accordi dalla sinistra, e l’armonia qui non ha fondo, non dà stabilità, mai si poggia al sicuro, tutto è incerto. Il fantasma attraversa l’oscurità danzando, vagando in cerca di una soluzione al suo tormento. Solo il flauto saprà forse indicare una luce da lontano, ma è troppo labile. Anche gli archi che si aggiungeranno non daranno una vera luce. Al corno inglese il compito di lamentare, dando una voce al fantasma, al dolore del nulla, all’afflizione del vuoto. Come intonato dal vento il corno inglese solleverà a nube il trillo del pianoforte appena sostenuto da dolcissimi archi con sordina, dall’oscurità si leva una polvere di stelle appena prima della desolazione. Il ritratto di un mattino in una metropoli pulsante sembra invece il terzo caotico movimento, fatto di ritmo, velocità e fragore. Una sera del 1920, a cena nella signorile dimora di Mme de Saint-Marceau, Ravel si rivolse alla pianista Marguerite Long dicendole: «Sto scrivendo un Concerto per lei”. Ci vollero più di dieci anni per terminare il progetto e quando il Concertgebouw chiese al compositore una prima assoluta per l’11 novembre del 1931, la partitura doveva essere ancora perfezionata, così che la prima del Concerto si ebbe solo nel 1932 a Parigi, il 14 gennaio, alla Salle Pleyel, con Marguerite Long come solista, come promesso. Possiamo immaginare l’emozione della pianista nel poter affrontare per prima il Presto conclusivo del Concerto. Fra le esplosioni dell’orchestra sono incastonati i passaggi vorticosi della tastiera che sembrano descrivere la velocità del nuovo mondo industriale, dove l’imperativo meccanico e produttivo sembra voler ingoiare l’intera umanità. Non c’è lentezza nel mondo moderno, bisogna correre, bisogna fare sempre più in fretta per non esserne divorati, per restare vivi. O forse no, sembra dire Ravel fra corni e trombe, forse è tutto un gioco questo andare e venire, è l’ultima trovata per far finta di non capire, per rifiutarsi di ascoltarsi e pensare. Forse, perché dubbiosi come in nessun altro brano di musica rimangono gli ultimi fortissimi accordi. Un finale aperto, sospeso, che chiude il Concerto ma non risponde all’inquietudine tutta moderna che il compositore vi ha saputo trasfondere.

Michele dall’Ongaro
La Primavera per pianoforte e orchestra d’archi
La primavera (2003) per pianoforte e archi è stata scritta su commissione di Rino Marrone e del Collegium Musicum di Bari in occasione di una proposta delle Quattro stagioni di Piazzolla intrecciate ad altre commissionate a un gruppo di compositori italiani. La mia idea era di una primavera lontana dal carattere dei fin troppo illustri precedenti. Una primavera allegra, scanzonata, adolescenziale, sul modello di quella che a sedici anni aspettavamo per bigiare canto corale la mattina in Conservatorio e raggiungere in gruppo la vicina Villa Borghese. Periodi in cui tutto si intrecciava: lo studio del pianoforte, il liceo, la composizione, le ripetizioni a un paio di cantanti de La sposa venduta di Smetana per tirar su qualche soldo, la scoperta di musica strana come L’angelo di fuoco di Prokof’ev e abbondanti dosi di beata (e rimpianta) incoscienza. In questi cinque minuti ci sono tracce di tutte queste cose, spero si percepiscano. Il ghiaccio si rompe e la vita comincia a fremere. Pensate di avere un pianoforte sul quale cominciano a tirare manate dei bambini di buon umore, avete presente qui piccoli cluster diatonici spruzzati a casaccio qua e là? Ecco, qualcosa del genere…. Michele dall’Ongaro