68ª Stagione Sinfonica Orchestra I Pomeriggi Musicali - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 25 ottobre 2012
Ore: 10:00*
giovedì 25 ottobre 2012
Ore: 21:00
sabato 27 ottobre 2012
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Serie Red Planet – Serie Curiosity
Čajkovskij, Concerto n. 1 op. 23 per pianoforte e orchestra
Dvořák, Sinfonia op. 95 (dal Nuovo Mondo)

Biglietteria

ABBONAMENTO ai 23 concerti

Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 276,00 (+ prev.)
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 218,50 (+ prev.)
Balconata € 172,50 (+ prev.)

Ridotti (Giovani under 26; Anziani over 60; Cral; Associazioni Culturali; Biblioteche; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 207,00 (+ prev.)
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 161,00 (+ prev.)
Balconata € 126,50 (+ prev.)


BIGLIETTI

Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50

Ridotti
(Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50

Il Cast

Direttore: Giordano Bellincampi
Pianoforte: Giuseppe Albanese
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840 -1893)
Concerto per pianoforte e orchestra in si bemolle minore n.1 Op.23 (Durata 35’)
Allegro non troppo e molto maestoso – Allegro con spirito
Andantino semplice – Prestissimo
Allegro con fuoco

Organico: pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: novembre 1874 – Mosca, 21 febbraio 1875
Prima esecuzione: Boston, Music Hall, 25 ottobre 1875
Edizione: Jurgenson, Mosca, 1879
Dedica: Hans von Bülow

*****

Antonín Leopold Dvořák (1841 –1904)
Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 “Dal Nuovo Mondo” (Durata 28’)
Adagio – Allegro molto
Largo
Scherzo: Molto vivace
Allegro con fuoco

Organico:ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, piatti, triangolo, archi
Composizione: New York, 20 Dicembre 1892 – 24 Maggio 1893
Prima esecuzione: New York, Carnegie Hall, 16 Dicembre 1893
A cura di Edgar Vallora

Solo una mentalità come quella americana poteva concepire un’indagine “statistica” sulla notorietà dei concerti per pianoforte, e  concludere con assertività che “il Concerto di Čajkovskij Op.23 è, senza alternative e concorrenza, il più eseguito al mondo”! Fidiamoci. E’ peraltro indiscutibile che musicologi, critici, pubblico sono tutti concordi  nell’osannare la  maestosità, la  potenza, la grandezza, la monumentalità, di questa pagina solistica-orchestrale.
(Brevi cenni biografici, per inquadrare il Concerto. Pyotr Ilyich Čajkovskij nasce nel 1840 a Votkinsk, cittadina russa sugli Urali, famiglia di classe media. Il padre direttore in una piccola azienda di metalli; la madre figlia di una famiglia di nobili origini francesi. A Pyotr  non viene forzosamente trasmessa la passione per la musica, ma il piccolo non manca di mostrare talento autonomo, sin dalla tenera età, tanto che arriva a comporre e pubblicare la sua prima canzonetta all’età di quindici anni. Proprio a quell’epoca perde la madre che tanto amava, colpita da un’epidemia di colera. Dopo aver frequentato l’università di Giurisprudenza (come i due fratelli gemelli), Čajkovskij viene accettato al conservatorio di San Pietroburgo: conseguito il diploma gli viene offerta la cattedra di insegnante di armonia presso il conservatorio di Mosca. Nel 1866 compone la sua prima Sinfonia “Sogni d’inverno” (brano che verrà rielaborato più volte, come spesso avverrà anche per altre composizioni). L’anno seguente scrive la  prima opera lirica portata a compimento, Voevoda  dal dramma di Ostrovskij: l’opera ha quattro repliche,  riscuote buon successo, tuttavia non viene più ripresa. Čajkovskij è distrutto, e distrugge la partitura (alcune parti fortunatamente confluiranno nel balletto “Il lago dei cigni”).
Dopo la parentesi del Concerto eseguito questa sera – astro che brilla di una luce del tutto particolare – a trentacinque anni Čajkovskij dedica le sue energie alla musica per balletti, un genere sottostimato all’epoca: ad essa dovrà molta della sua fama di compositore. Nel 1877 va in scena al  Bolshoi di Mosca “Il lago dei cigni”, nato durante una delle estati trascorse con la famiglia della sorella ed i nipoti, un angolo di serenità spirituale al quale il musicista faceva volentieri ricorso. Dello stesso anno è l’opera “Eugenio Onieghin”, dall’omonimo romanzo  di Alexander Puskin; mentre al 1876 risale il poema sinfonico “Francesca da Rimini”, un altro dei suoi lavori ancor  oggi più eseguiti).
Il Concerto Op.23 fu composto tra il novembre 1874 e il febbraio 1875: periodo relativamente lineare nella vita (psicologicamente ed esistenzialmente difficile) di  Čajkovskij (ma non si dimentichi che anche nei momenti più tranquilli “la crisi dei sentimenti, il dolore del confronto con il mondo è  motore di ogni azione; la crisi è poi fuga, o da se stesso, dalla propria diversità, o dalla Russia stessa”).
Fin dal suo concepimento, quest’opera era stata dedicata a Nikolaj Rubinstein, direttore del Conservatorio di Mosca, grande solista, amico del compositore; e Čajkovskij, in cuor suo, sperava fosse lo stesso Rubinstein a fargli da “consigliere” e poi a presentarlo in pubblico.  (Da una lettera all’amica del cuore, la von Meck: “Dal momento che non sono un pianista, è essenziale che consulti un gran solista, in modo che possa indicarmi quanto può risultare tecnicamente imbarazzante, inefficace, importuno”). Lavata di capo. Prima ancora che l’opera fosse congedata, il virtuoso risponde con un  giudizio quasi offensivo: “Concerto banale, rozzo, mal scritto”. Non solo: “ la partitura è pianisticamente ineseguibile”; e strepita che “solamente per prenderlo in considerazione, il Concerto chiederebbe una revisione completa”.
Da buon narciso-permaloso, il compositore si rifiuta “di modificarne anche solo una nota” (parole di Čajkovskij); e con gesto teatrale lo offre, con tanto di dedica riciclata, ad Hans von Bülow (altro straordinario personaggio musicale del tempo: buon pianista, straordinario direttore, abile compositore). Questi, al contrario, si spertica in lodi (“Il Vostro Concerto presenta una tale originalità, una tale nobiltà, una tale forza (…) che potrei stancarmi ad elencarVi  tutti i momenti indimenticabili! In una sola parola, questo gioiello si guadagnerà la gratitudine di tutti i pianisti del mondo”). Bülow  lo studia con furore (resta, in effetti, un concerto tremendamente difficile sul piano tecnico), si appassiona ogni giorno di più, e lo presenta a Boston il 25 ottobre 1875 (proprio oggi: giorno d’anniversario del debutto!) dell’anno 1875. Sul podio Benjamin Johnson Lang.
Il debutto in Russia avvenne una settimana dopo, a San Pietroburgo: al pianoforte il russo Gustav Kross. Successo surriscaldato fin dalla  première.
Nonostante l’opera fosse stata  concepita – almeno nelle intenzioni – sulla falsariga di un’ossatura occidentale, conserva  forma, ritmi e timbri della musica popolare russa, cui  il compositore era ovviamente debitore. “La semiblerie cajkovskiana, frutto ed al contempo effetto del sentimento della crisi, ha dato vita a quella comunemente diffusa interpretazione delle opere del compositore russo secondo cui la sua opera si caratterizza per l’invenzione melodica “abbondante […] a volta a volta felice oppure volgare”, per la strumentazione “troppo brillante”, per la capacità di emozionare il pubblico grazie ad un “senso infallibile dell’effetto” ed un “lirismo destinato a commuovere facilmente le masse popolari e piccolo-borghesi, effusione quindi di natura non molto elevata”. La citazione è desunta da un saggio di G. Moretti ma  le parole fra virgolette sono niente  meno che di Alfredo Casella!, e definiscono in generale l’opera e lo stile di Tchaikowsky ma rivolgendosi in particolare al  Concerto per pianoforte. L’andamento rapsodico dei tre movimenti che lo compongono – come notava ancora Casella – dà l’impressione che il brano sia scaturito sull’onda di un’irruenta ispirazione; ed è proprio questo senso di facilità comunicativa che lo rende estremamente “facile” per chi vi  si accosta anche senza conoscere musica,  stili e periodi. Seppur frutto di istintuale ispirazione, l’autore ritornò più volte su questo Concerto facendone in tutto tre versioni, di cui l’ultima, del 1889, è quella definitiva ed attuale. Il lavoro di lima riequilibrò l’immediatezza della prima stesura giovanile, allo stesso tempo aggraziata e barbarica, che proprio per la sua struttura “a blocchi” e per i particolari sperimentalismi virtuosistici, fece dichiarare a Rubinstein che il Concerto era “insostenibile”.
La struttura è quella classica, in tre movimenti. Allegro non troppo: introibo sorprendente. L’orchestra  presenta il tema (quelle quattro note che si canticchiano anche all’asilo): tema gonfio,  perentorio, estroverso, effettistico; mentre il pianoforte, invece di aspettare l’”entrata” (come nelle consuetudini strutturali di ogni Concerto) sostiene l’orchestra con la forza di un gladiatore, ma attraverso accordi isolati (che coprono la tastiera ma senza melodia). Qualche minuto di scudisciate, non definibili con le parole: maschili, assertive, pre-potenti, sicure di sé, aspre ma mai taglienti. Già solo questo attacco sui generis avrà fatto sbarrare gli occhi ai contemporanei, Rubinstein compreso. (Si dice – ma ascoltando il tema sono leciti i dubbi – che Čajkovskij avesse ascoltato questo tema da una cantante di strada, cieca, con l’accompagnamento di una povera cetra!). Dopo l’introduzione orchestrale il solista diventa protagonista, agguanta il tema ed inizia a lavorarlo: mille le figurazioni che lo portano fino alla punte estreme del virtuosismo, prima di riscivolare, parecchie volte, nei binari consolidati della trama. Tocca ai corni di far da tramite tra primo e secondo tema. Presentato inizialmente in punta di piedi,   viepiù ammorbidito dal suono timido dei flauti, sono poi gli archi a sviluppare la sana cantabilità del tema. Seguono di nuovo agguati e sorprese del pianoforte, volate, scoppi, dissonanze, planate; anche se, ogni qual volta la partitura deborda, il tema-base viene ricondotto nel solco del movimento. Movimento che  trova dunque la sua vocazione nel gioco dei contrasti.
(Pur ammettendo che il lanciar ponti fra le poetiche dei vari compositori, è un gioco assolutamente improprio, mai come in questo Concerto la tentazione è forte. Se si provano ad isolare dal contesto nuclei di poche  battute, si potrebbe pensare di tutto: acque debussiniane, carezze chopiniane, ruggiti alla Rachmaninov, scintille alla Stravinsky…)
L’anima del Concerto prende poi fiato nel secondo movimento, un Andantino semplice. Sopìta la forza tellurica del primo movimento, l’atmosfera si fa dolce, arresa, come trasognata. Il tema è una sorta di Lied presentato dal flauto, melodia che il pianoforte ricalca affettuosamente (con una sola piccola mutazione, alla terza nota della melodia): ecco, conosciamo una nostalgica canzone della Russia popolare.
Il profilo lineare del Lied ad un certo punto si rompe, incespica nel suo incedere, affronta motivi rapidi e ripidi, segue  arabeschi di stampo impressionista.  Čajkovskij non dà tregua, nemmeno in un Andantino!: smuove anche il carattere  degli sviluppi con incessanti variazioni tematiche, con inesauste figure d’accompagnamento; fino a giungere ad innestare, nel cuore del Largo, un nervoso prestissimo, inatteso. Il carattere rapsodico rimane dunque la cifra emotiva-stilistica di questo secondo atto.
Rinfocolando la passione del primo movimento, l’Allegro con fuoco di chiusura si appoggia a un ritmo di danza (ma ben diverso da quello più agguerrito del movimento d’apertura): tema sicuro, secco, senza tentennamenti o sbavature. Le tappe: brevissima introduzione orchestrale; conquista del tema da parte del pianoforte; elaborazioni del profilo melodico; camminata agile fino al contro-tema; stretta finale dall’effetto sbalorditivo.
In conclusione. Un Concerto musicalmente complesso, rispettato anche dai detrattori di questo autore; un’opera psicologicamente “schizofrenica”, nell’accezione più nobile del termine; un vulcano in eruzione con tutto il repertorio di fuoco, lava, lapilli, polveri spente. Guanto da pugile, polso da paggio Fernando.

CURIOSITA’
Curiosità musicale. All’epoca della composizione originaria (1874) l’autore (“molto in ansia per le incognite e le trappole della strumentazione”) apprestò, nel dubbio,  una versione per due pianoforti. Quasi mai eseguita in pubblico.
Curiosità psicologica. A proposito dell’iniziale battibecco fra Rubinstein (appassionato contestatore) e Bülow  (appassionato sostenitore), il destino ha poi ribaltato le carte. Bülow , dopo solo un anno (e rare esecuzioni),  eliminerà il Concerto dal suo repertorio; mentre Rubinstein-il-picconatore  lo presenterà, in veste di direttore, nel  debutto dell’opera  a Mosca (“Oh finalmente! Che soddisfazione!”, scriverà il nostro autore); e lo eseguirà innumerevoli volte nella sua carriera di pianista. Strano.
Curiosità multimediale. Oltre ad essere il più eseguito nella sale, questo Concerto è uno dei pezzi più adottati dal mondo del cinema. Non si contano le pellicole in cui l’Op.23 entra sgomitando nella colonna sonora: da L’altra faccia dell’amore di Ken Russel a Il senso della vita di Monthy Python; da  Misery non deve morire di Rob Reiner al thriller Una farfalla con le ali insanguinate dell’italiano Duccio Tessari.
Curiosità sportiva. Il tema del Concerto fu eseguito all’entrata del tedoforo nello stadio, in occasione delle Olimpiadi a Mosca del 1980. Fuoco nel fuoco.

Antonín Leopold Dvořák Sinfonia n.9  detta “Sinfonia dal nuovo mondo”
Quando Jeannette Thurber (mecenate musicale americana nonché fondatrice del National Conservatory of Music di New York) propose ad Antonín  Dvořák di trasferirsi negli Stati Uniti per dirigere il suo Conservatorio, era ben determinata ad accaparrarsi uno dei grandi del  momento (musicista sostenuto dal favore del pubblico ma, al pari, dell’accademia ufficiale: due lauree honoris causa, Università di Praga e Università di Cambridge). Era il 1891. Dvorak prese tempo, visse qualche mese  tra perplessità e titubanze (la sua vita, al contrario di tanti musicisti, era quieta e serena); poi – vuoi per la fama dell’istituzione americana, vuoi per la curiosità verso frontiere sconosciute (o “fiutate”nel precedente soggiorno), vuoi per la generosa offerta economica (ben 15.000 dollari!) – il compositore si decise a partire. Il 17 settembre 1892 – emigrante di lusso – si imbarca su un bastimento alla volta del “nuovo mondo”, moglie e due bambini al seguito.
Rimarrà in America quattro anni, dal 1892 al 1895.
(Breve cenno biografico. Proveniente da una famiglia della piccola borghesia boema, precocemente avviato alla musica,  Dvořák aveva agguantato il primo vero successo intorno ai trenta anni, con un “Inno” patriottico che si inseriva nella corrente irredentista del milieu culturale di quel paese. L’anno seguente aveva conquistato un altro riconoscimento assai prestigioso: una borsa di studio del governo austriaco (assegnata da una giuria composta, fra gli altri, da Hanslick e Brahms). Poco dopo, 1894, il lancio internazionale: il primo trionfo in Inghilterra  (dove il compositore si recherà ben nove volte) che comportò la nomina a membro onorario della London Philharmonic Society).
Ritornando alla Thurber: come si spiega la sua cocciuta determinazione nell’innescare l’operazione-Dvoràk?  Per tutto l’Ottocento la musica classica americana non era stata altro che un copia-incolla degli stilemi europei; e  la Thurber era ormai decisa a smantellare l’impalcatura musicale a favore di una musica intrinsecamente  “americana” (non sottovalutava il fatto che Dvoràk, ispirato dall’esempio di Smetana, aveva assorbito, e con un successo fuori da ogni aspettativa,  le inflessioni popolari del proprio paese). Ottimo camaleonte.
I favorevoli fermenti della vita culturale newyorkese nell’ultimo scorcio del secolo – così pensava la Thurber –  avrebbero trovato un potenziamento delle strutture didattiche quanto mai con l’apporto di un compositore europeo di alto rango. Non c’era scelta migliore di Dvoràk.
Ricevuto con grande entusiasmo nel “nuovo mondo”,  Dvořák tenne il suo primo concerto già in ottobre, appena sbarcato, in memoria del  quarto centenario dell’antico sbarco di Colombo; e tre mesi dopo, euforico per il benessere americano, iniziò a comporre la sua nona Sinfonia. Stesa e rifinita fra dicembre 1892 e il maggio 1893, a New York,  fu presentata alla Carnegie Hall il 16 dicembre 1893 sotto la direzione di Anton Seidl, presente l’autore.  L’Op.95 ebbe un immediato successo ( Dvořák scriverà all’editore: “Niente da fare! Alla fine di ogni movimento applausi scroscianti. E mi toccò di alzarmi in piedi, l’ho dovuto accettare, nolente o volente!”); e acquistò, da allora, una smisurata popolarità nel repertorio sinfonico. (Si noti: la Sinfonia era stata numerata come “quinta” poiché, delle nove Sinfonie di Dvoràk, le prime quattro saranno pubblicate postume).
Le tappe della carriera “mondana” di  Dvořák  corrispondono fedelmente all’evoluzione dello stile del compositore. Gli esordi creativi si erano svolti in patria, all’insegna della lezione di Liszt e Wagner (il cui “modernismo” sembrava più indulgente nel veicolare i contenuti nazionalistici della cultura céca); mentre intorno al 1873-75, il biennio dei grandi successi, lo stile di  Dvořák aveva subìto una virata verso gli ideali di un classico equilibrio (della forma e del contenuto), ideali che avevano trovato nuova linfa nelle melodie popolari. Questa peculiare balance fra equilibrio formale e squilibrio popolare,  portò a consacrare  Dvořák come un autore dalla personalità “unica” (non nella sostanza ma nella qualità) – né conservatrice né progressista; capace di apparire alla buona borghesia boema come l’incarnazione dell’identità nazionale, ma in grado di farsi apprezzare dall’intera Europa per la solidità della struttura e per la raffinatezza della scrittura.
A quel punto l’invito in America assurse a simbolo di una vera e propria consacrazione. L’istintiva predisposizione verso una cultura musicale “aperta”, composita, in progress, così scollata da quella europea, non poteva non trovare nuovi riscontri nei nuovi esiti  del maestro boemo. Alcuni studenti del Conservatorio (ragazzi di colore) furono i traits d’union  fra  Dvořák e la musica dei neri americani. E così gli spirituals, i “canti delle piantagioni”, le litanie della comunità indiana, i singhiozzi dei pellirossa (presenze innegabili: basti pensare  allo spiritual “Swing low, sweet chariot” che compare nel primo tempo di questa Sinfonia), entrarono nell’anima del compositore. Il musicista vagliò con attenzione musiche e cerimonie indigene, trascrisse melodie, le vivisezionò, fu conquistato dalle potenzialità di nuovi apparati tonali.  Ma c’è di più:  Dvořák fu portato ad aderire  in questi termini per il vivo interesse che portava, in generale, verso i popoli oppressi. Non solo: trovandosi in America in qualità di portavoce  europeo, sentiva il dovere di indicare ai compositori autoctoni una possibile via “nazionalistica” anche in campo musicale, di riscatto esistenziale attraverso questa forma d’arte. “Nelle melodie dei neri d’America – è  Dvořák che scrive – ho potuto trovare tutto ciò che può servire a una grande e nobile scuola di musica. Sanno essere patetiche, tenere, appassionate, malinconiche, solenni, religiose, vigorose, amabili, allegre. Non vi è nulla nel mondo della composizione che non possa essere trasmesso con l’aiuto  di questi temi”.  E ancora, in un’intervista sul New York Herald (5 dicembre, vigilia della prima): “È lo spirito delle melodie dei neri e degli indiani che mi sono sforzato di far rivivere nella mia nuova Sinfonia. Nella realtà non ho “tracopiato” nemmeno una melodia. Ho semplicemente  usato quei temi come materiale di base, li ho sviluppati servendomi di tutti i mezzi del ritmo, del contrappunto, del colore orchestrale”.  La Sinfonia Op.95 si afferma dunque come  un’importante risposta a questi stimoli; e non a caso reca la celebre intitolazione Z Nového Svéta (Dal nuovo mondo).
Ri-sottolineiamo:  Dvořák quando fece allusione a quel  titolo, egli stesso ribadì che si riferiva “a semplici impressioni e saluti dal nuovo mondo” (divertente la parola “saluti”); e nel corso della stesura affermò che “l’influenza dell’America poteva essere avvertita solamente da chi avesse un certo fiuto allenato”. Giudizio finale di  Dvořák sulla Sinfonia: “Mi piace molto, e si distingue in modo sostanziale dalle mie precedenti composizioni”. Flash sul futuro: “Credo che la terra americana influenzerà in modo benefico i miei pensieri”.
A questo punto. E’ ovvio che i musicologi si domandarono se, con la nuova Sinfonìa,  Dvořák non intendesse programmaticamente inaugurare uno “stil novo”, segnato dalla presenza di linguaggi popolari extra moenia.  D’altro canto, l’influenza del mood americano in genere (non solo della musica popolare locale) è indiscutibile:  Dvořák abbandona in molti casi quella scrittura densa, a volte ieratica che aveva caratterizzato le precedenti sinfonie, per infondervi uno spirito più fresco, ispirato da un senso della natura alternativo (che al musicista derivava proprio dal contatto con il Grande Continente ) e influenzato dall’incalzante lifestyle americano che non gli permetteva, nemmeno in musica, lunghi ripensamenti e continui ritorni. Ma va precisato che le “assunzioni” di motivi dal canto popolare americano non sono mai dirette, ma sempre mediate e filtrate attraverso una sensibilità europea.
(Per fare un esempio: la celebre melodia del corno nel Largo –  una ninna-nanna o un canto funebre pellerossa, poco importa – è originale di  Dvořák e, per certi aspetti, ha perfino un retro-gusto boemo). Le melodie pentatoniche, l’armonia modale, la vitalità ritmica, sono caratteristiche proprie della musica di Dvoràk.
Quanto detto, vale per l’aspetto “esotico”. Qualora si voglia invece individuare una “svolta” più universale  nella Nona di Dvorak, questa andrà individuata, più che nell’invenzione o negli apporti melodici, nel processo di semplificazione, di chiarificazione, di decantazione  della forma: allontanando la partitura dalla compita seriosità della Settima e dai coraggiosi sperimentalismi dell’Ottava. Anche gli sviluppi del materiale (che a volte costituiscono il punto debole del sinfonismo del nostro autore: una certa prolissità e povertà dialettica) sono affrontate con insolita snellezza, maggiore che nelle precedenti opere sinfoniche. La partitura mostra chiaramente il chiaro debito verso la  scrittura sinfonica tedesca (in particolare brahmsiana): una rigorosa cornice classica e una concezione “ciclica”, data dal ricorrere del tema principale che affiora nei movimenti successivi e dalla ricapitolazione di tutto il materiale tematico nel finale. Ed è proprio l’aspetto formale (quell’estrazione “primitiva” che si staglia più che in ogni altra opera) uno dei tratti che garantiscono alla Sinfonia la sua coerenza, la sua coinvolgente efficacia comunicativa.
Nel primo tempo, l’Adagio introduttivo lievita progressivamente, sfruttando le risorse di una cellula ritmica, verso il tema che informa poi l’Allegro molto, il movimento più caratteristico della Sinfonia. Tutto il primo tempo, animato com’è da temi secondari di icastica evidenza, risente di una straordinaria ricchezza di episodi, di intrecci, di subitanei trapassi, che regalano alla pagina una freschezza continuamente vivificata.
Il movimento più amato della Sinfonia è invece il Largo, pagina elegiaca in forma strofica, che si apre, su un sottofondo degli ottoni, con una struggente melodia del corno inglese/oboe (motivo divenuto molto popolare negli Stati Uniti); melodia che vive fino alla fine del movimento, dopo un episodio dal tono più pastorale, dopo un disegno staccato dell’oboe, dopo una animata sezione centrale, dopo l’amplificazione della scrittura  orchestrale.
Lo Scherzo che segue, il brano più scapigliato, è singolarmente lungo: la parte principale è divisa in due episodi distinti, un doppio Trio e una coda che ripresenta più volte il tema. In questa pagina si apprezzi il gusto di  Dvořák per la vitalità ritmica e le sfumature  coloristiche, ma soprattutto la mano dell’orchestratore di alta classe. (Sia il Largo che lo Scherzo sono ispirati a un poemetto di Henry Longfellow,  Song of Hiawatha, che la stessa  Jeannette Thurber aveva donato al compositore: il Largo evoca i funerali della sposa dell’eroe; lo Scherzo richiama un tam-tam di pellirosse nella foresta).
Di esaltante imponenza è l’Allegro con fuoco finale, il brano più cinematografico della Sinfonia, che contiene il tema-tatuaggio dell’Op.95. Aperto da una perentoria affermazione beethoveniana (quella che in gran parte  ha assicurato alla Sinfonia la sua celebrità), il tema viene poi ribadito, ampliato, contorto, massacrato, fino all’estrema perorazione delle ultime battute. Nel corso del movimento si accumulano anche le  idee principali ascoltate nei vari movimenti tempi precedenti; ma  Dvořák non si limita a riesporre tali idee: le elabora e le intreccia con il tema-protagonista. Sintesi perfetta delle componenti boeme, della formazione dell’antico mondo mitteleuropeo, delle suggestioni del “nuovo mondo”.
La generosità di idee, episodi, temi, intrecci che impronta l’Op.95, l’ultima  di Dvoràk, ne fa dunque una pietra miliare del sinfonismo di fine Ottocento. Dall’incontro di due (se non di tre) civiltà è scaturita una delle pagine sinfoniche più sorprendenti della storia della musica.  Ma, nella pratica, questo “saggio di bravura” rimarrà un caso isolato: sia perché la Sinfonia restava, comunque, troppo radicata nella tradizione europea; sia perché, pochi anni dopo, gli elementi popolari della musica americana avrebbero trovato una realizzazione completamente diversa – più popolare, più prosperosa –  nell’universo sconfinato del  jazz.