Le date
Note
Bibliografia essenziale:
Bortolotto Mario, La serpe in seno. Sulla musica di Richard Strauss, Milano, Adelphi, 2007;
Orselli Cesare, Richard Strauss, Palermo, L’epos, 2004;
Maynard Salomon, Beethoven. La vita, l’opera, il romanzo familiare, a cura di Giorgio Pestelli, Venezia, Marsilio, 2002;
Mendelssohn-Bartholdy Felix, «Tendere alla perfezione». Lettere scelte e documenti, a cura di Claudio Bolzan, Varese, Zecchini, 2009;
Arfini Maria Teresa, Felix Meldellssohn-Bartholdy, Palermo, L’epos, 2011.
Discografia essenziale:
Dvořák Antonin – Brahms Johannes – Strauss Richard, Serenate romantiche, L’Orchestra da Camera Italiana di Fiati, Claudio Paradiso, Amadeus;
Beethoven Ludwig van, Concerto per violino e orchestra, op. 61 in Re maggiore, Philarmonia Orchestra, Otto Klemperer, Henryk Szering, Testament;
Beethoven, Ludwig van Concerto per violino e orchestra, op. 61 in Re maggiore, Berliner Philarmoniker, Herbert von Karajan, Anne Sophie Mutter, Deutsche Grammophon;
Mendelssohn-Bartholdy, Felix Sinfonie n° 3, 4, 5, Philarmonia Orchestra, Riccardo Muti, EMI
Mendelssohn-Bartholdy, Felix Sinfonie complete, New Philarmonia Orchestra, Amsterdam Sinfonietta, Wolfgang Sawallisch, Lev Markiz, Brilliant classics.
Serie Curiosity
R. Strauss Serenata op.7
Beethoven Concerto per violino e orchestra
Mendelssohn Sinfonia n. 3
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore Giordano Bellincampi
Violino Veronika Eberle
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Guida all’ascolto a cura di Alessandra Albo
RICHARD STRAUSS (1864-1949)
Serenata op. 7, per tredici strumenti a fiato
Composizione: 1881
Prima esecuzione: 22 novembre 1882
Edizione: Universal Edition Wien
Durata: 10’
LUDVIG VAN BEETHOVEN (1770-1827)
Concerto per violino e orchestra, in Re maggiore op. 61
Composizione: 1806
Prima esecuzione: 23 dicembre 1806
Edizione: Breitkopf und Härtel
– Allegro ma non troppo
– Larghetto
– Rondò: Allegro
Durata: 35’
FELIX MENDELSSOHN- BARTHOLDY (1809-1847)
Sinfonia n. 3, “Scozzese”, in la minore, op. 56 (MVN n°18)
Composizione: 1842
Prima esecuzione: 3 marzo 1842
Edizione: Breitkopf und Härtel
– Andante con moto. Allegro un poco agitato. Assai animato. Andante come I
– Vivace non troppo
– Adagio
– Allegro vivacissimo. Allegro maestoso assai.
Durata: 30’
Beethoven, Mendelssohn, Strauss: tutto il Romanticismo in un concerto
Il programma di questo concerto offre un’opportunità straordinaria: quella di esplorare il Romanticismo attraverso tre compositori che cronologicamente ne esauriscono l’intero ciclo. I tre brani in programma, seppur eseguiti in ordine diverso rispetto alla loro “data di nascita”, sono estremamente esemplificativi del linguaggio dei rispettivi autori: nel Concerto per violino e orchestra, op.61 in Re maggiore potremo cogliere il Beethoven “protoromantico”, che traghetta gli ultimi echi del Classicismo verso il sentire dello Sturm und drang; nella Scozzese potremo scoprire quel Mendelssohn che del Romanticismo cura i germogli, per vederli in seguito sbocciare più floridi che mai; e nella Serenata op. 7, trattandosi pur di una composizione giovanile, scorgeremo lo Strauss tardoromantico, il quale utilizza tutti gli aspetti dell’estetica ottocentesca scegliendo, tuttavia, di non varcare la soglia della tonalità. Un sottile fil rouge collega le tre composizioni in programma: ognuna di esse ha al suo interno elementi innovativi rispetto al linguaggio coevo, chi per orchestrazione, chi per forma, chi per utilizzo e sviluppo del materiale tematico; ma, al tempo stesso, sono strettamente legate al proprio tempo: affondano le radici nella tradizione, non sono state concepite per suscitare stupore o rompere con il passato. In ognuna di esse, quindi, potremo ravvisare quegli elementi essenziali che ci consentiranno di conoscere e apprezzare l’estetica di un movimento che ha segnato la storia della musica, trascorso il quale nulla è stato più come prima.
Richard Strauss, Serenata op.7 per tredici strumenti a fiato
«Ho giocato a carte con Richard Strauss ogni giorno per dieci anni. Era una carogna!».
Hans Knappertsbusch, direttore d’orchestra, 1888-1965
Richard Strauss, geniale musicista tardoromantico, era noto anche per qualche sua singolarità: fu accusato di non schierarsi apertamente contro il Nazionalsocialismo, quando in realtà sembra abbia sfruttato la carica di Presidente della Camera Musicale del Reich, che ricoprì dal 1933 al 1935, per proteggere i suoi colleghi e amici ebrei; si dice che avesse un fiuto tale per gli affari da procurargli la fama di avaro che ancora oggi perdura, ma se i musicisti possono attualmente godere dei diritti d’autore lo devono in massima parte a lui; e, per finire, aveva una tale passione per il gioco delle carte che tutti i pomeriggi alle 17:00, indipendentemente da qualsiasi altro impegno personale o professionale – si racconta di prove orchestrali terminate a forza e con tempi dalla velocità improponibile per non arrivare in ritardo – si riuniva a casa propria con amici fidati per dedicarsi a questa attività con grandissima devozione. Ciò premesso, non meraviglia affatto che il suo stile compositivo, molto personale, possa aver seguito un iter abbastanza singolare e refrattario a tutte le mode: inizialmente, si accostò ai romantici quali Schubert, Schumann e Brahms; poi si riferì a Wagner e Mahler; infine, quasi come in un colpo di scena, il suo ultimo periodo fu caratterizzato da un ritorno al passato oltremodo evidente eppure per nulla banale, anzi, quasi rivoluzionario “al contrario”, tanto da costituire un silenzioso atto di protesta nei confronti di tutti coloro che volevano vedere distrutta la tonalità: «Avrebbe fatto meglio a fare lo spalaneve», scrisse di Arnold Schönberg.
La Serenata op.7, per tredici strumenti a fiato, vide la luce quando il compositore aveva solamente diciassette anni – e non c’è da meravigliarsi, aveva infatti iniziato a comporre a sei. Fu eseguita per la prima volta il 2 novembre 1882, a Dresda, alla presenza del famoso direttore d’orchestra Hans von Bulow, il quale riconobbe immediatamente in Strauss uno dei più interessanti talenti del momento e lo invitò a Meiningen, prima, come suo assistente, in seguito come sostituto.
L’opera, seppur nata dalla penna di un diciassettenne, è in realtà di una incredibile maturità, sia per originalità del materiale tematico che per solidità compositiva, tanto da poter sicuramente essere annoverata tra le migliori opere di Strauss. Si avvertono evidenti le ore di studio che il ragazzo Richard dedicava al violino, al pianoforte e alla composizione, ma si avverte anche quanto di ricco e di importante questo ragazzo aveva da dire e avrebbe detto in seguito.
L’organico della serenata: due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro corni e un tuba, esclude gli archi e esclude anche, a differenza delle più famose serenate di Brahms e Dvořák, l’impiego di materiale di ispirazione etnica o popolare, sottolineando, da una parte, la scelta ben precisa di colori e timbri scuri, dall’altra, quella puramente compositiva che la musica non debba esprimere altro che se stessa. Di grande compostezza e eleganza formale, la Serenata è in forma sonata con esposizione di due temi, sviluppo, ripresa e coda. Nell’introduzione è inevitabile cogliere delle sfumature, delle preziose citazioni di ispirazione bachiana e mozartiana; ma lungi dall’essere mera imitazione del loro stile, in essa tali rimandi si avvertono esclusivamente quali doverosi e rispettosi omaggi.
Il primo tema, delicatissimo e esposto dai legni, conduce, tramite una breve transizione, al secondo tema, come da tradizione di carattere diverso, più vivace. Terminata l’esposizione, un periodo suonato con organico pieno, conduce a un solo dell’oboe, costruito intorno al secondo tema. Lo sviluppo, interamente strutturato su materiale riferibile a quest’ultimo secondo tema, cita però anche elementi della transizione. Una meravigliosa ripresa è affidata, a sorpresa, ai quattro corni, che riespongono, con nobiltà e il caratteristico timbro morbido, il primo tema. Dopo aver riascoltato il secondo tema, una coda languida e sommessa conclude questa pagina di magica atmosfera e magistrale fattura.
Ludvig Van Beethoven, Concerto per violino e orchestra, in Re maggiore, op. 61
«Avete molto talento e ne acquisirete ancora di più, enormemente di più. Avete un’abbondanza inesauribile d’ispirazione, avete pensieri che nessuno ha ancora avuto, non sacrificherete mai il vostro pensiero a una norma tirannica, ma sacrificherete le norme alle vostre immaginazioni: voi mi avete dato l’impressione di essere un uomo con molte teste, molti cuori, molte anime».
Joseph Haydn a Beethoven durante una conversazione, 1793
Il Concerto per violino e orchestra op.61 in Re maggiore, dedicato al violinista Franz Clement che probabilmente commissionò l’opera, fu composto nel 1806, uno dei periodi più sereni della vita di Beethoven e più fertili dal punto di vista della produzione musicale. Purtroppo però, la prima esecuzione non ebbe un gran successo, perché proprio il violinista, dopo aver sospeso l’esecuzione tra il primo e il secondo movimento, suonò inopinatamente delle proprie variazioni sul Concerto che nulla avevano a che fare con l’opera, suscitando sgomento e sorpresa, sfortunatamente non positiva, nel pubblico e nella critica; tra gli altri, il critico della “Allgemeine Musikalische Zeitung” scrisse testualmente: «Il Concerto manca di coerenza […], è un ammasso disordinato di idee […], un frastuono continuo prodotto da qualche strumento isolato». Per questo motivo, Beethoven stesso da quel momento se ne disinteressò sin quasi a dimenticarlo. Fu Mendelssohn che, come successe per Bach e la Passione secondo Matteo, lo riscoprì ascoltandolo dal violino di Joseph Joachim, e contribuendo in seguito in maniera determinante alla sua giustissima e meritata fama; e fu una gran fortuna, perché si tratta di una delle opere più innovative e geniali del compositore di Bonn.
Innanzitutto, il primo movimento si apre con un’ampissima – e inusuale, per l’epoca – introduzione dell’orchestra, la qual cosa fa presagire il ruolo che questa avrà all’interno dell’esecuzione. Ma l’attacco in sé merita un discorso esclusivo: quale brano solistico con orchestra, quale sinfonia sino a allora composti iniziano con quattro colpi di timpano che costituiscono il nucleo generatore di tutto un primo movimento? C’era stato certamente l’illustre esempio della Sinfonia n° 103 detta “Del rullo di timpani” di Haydn (non per nulla maestro di Beethoven), proprio per un rullo in apertura del primo movimento; ma nell’opera beethoveniana, quei quattro colpi iniziali, così come quelli che seguiranno, non sono un semplice incipit, un qualsiasi attacco, costituiscono al contrario il cuore stesso del concerto, il ritmo pulsante e la forza vitale di tutta la composizione. Dobbiamo tener presente che i timpani, sino ad allora, erano stati utilizzati come rinforzo degli ottoni o dei bassi, non certo come strumento solista! Ma il genio non tiene conto delle convenzioni, il genio crea e quei magici quattro colpi di timpano sono passati alla storia.
L’ingresso del violino, da par suo, è, a sorpresa, un semplicissimo arpeggio sulla settima di dominante e prosegue con scale per terze e per grado congiunto, che, tuttavia, lungi dall’essere “scolastiche”, assumono un’importanza musicale senza pari e conducono al tema principale leggermente variato. La bizzarra dedica con gioco di parole di Beethoven a Clement, il violinista di cui sopra, potrebbe spiegare tutto: «concerto par clemenza pour Clement primo violino e direttore del teatro di Vienna». Visto che a Beethoven l’ironia non mancava, e che al violinista non faceva difetto la stranezza di comportamento, come abbiamo potuto notare, non è escluso che l’attacco del violino, costituito da scale e arpeggi di varia natura, da sempre alla base della tecnica essenziale di ogni diligente studente, potesse essere una piccola e bonaria presa in giro di Beethoven nei confronti di Clement. Certo è che, ben presto, il Beethoven della cantabilità e del lirismo, del virtuosismo mai fine a se stesso, del perfetto equilibrio e dei dialoghi magistrali tra solista e orchestra non tarda a farsi ascoltare anche in quest’opera.
Il secondo movimento è una delle pagine più belle della storia della musica, di una cantabilità che non scade mai nel banale o nello scontato, nella pesantezza di un tempo lento dall’ascolto insostenibile: l’orchestra, lungi dall’essere semplice corollario di uno strumento solista, regala l’ascolto del tema principale alternandolo tra gli archi e i fiati solisti (clarinetto, fagotto, corni). Nella parte centrale, il violino cadenza ampiamente per arrivare all’esposizione di un tema nuovo che, accompagnato dal pizzicato degli archi, ci riconduce alla ripresa e poi alla coda, la quale liquida il materiale tematico in diminuendo, come una reminiscenza. Un breve recitativo accompagnato, simulato dall’orchestra con cadenza del violino, citazione dall’opera, introduce con risolutezza al Rondò finale. In questo Rondò, articolato come uno strettissimo dialogo tra il solista e l’orchestra e con il classico refrain, ovvero il periodo musicale che ritorna, potremo ascoltare, nella sezione in minore, il primo fagotto suonare uno dei soli più famosi e più belli mai scritti, accompagnato dal violino solista. Già, “accompagnato”, perché come in tutte le composizioni geniali (e ben fatte), in questo concerto non siamo in presenza di un solista che fa da padrone incontrastato e di un’orchestra che funge da suo personale lacchè: l’orchestra è protagonista tanto quanto il solista, sia per durata che per qualità degli interventi, e tutto il concerto è articolato in forma di dialogo tra i due.
Felix Mendelssohn-Bartholdy, Sinfonia n. 3, “Scozzese”, in la minore, op. 56
«Persino la più piccola frase musicale può assorbire e trasportarci via dalle città, dai paesi, dal mondo e da tutte le sue cose terrene. È un dono di Dio!».
Felix Mendelssohn-Bartholdy
Il 28 luglio del 1829 Mendelssohn era a Edimburgo, in viaggio insieme a un amico di famiglia, Karl Klingemann. Naturalmente, non poteva mancare una visita ai più importanti luoghi storici e la Cappella della sfortunata regina Maria Stuarda fu di ispirazione per la Sinfonia n. 3, detta “Scozzese”; così, già il 30 di luglio, Mendelssohn scrisse ai suoi familiari: «Oggi, in questa antica cappella, credo di avere trovato l’inizio della “Sinfonia scozzese”». In realtà, un inizio così fulmineo non corrispose per nulla a un termine altrettanto veloce, infatti, la sinfonia ebbe una lunghissima gestazione: fu conclusa solo tredici anni dopo e, dedicata alla regina Vittoria, eseguita nel marzo del 1842 sotto la direzione di Mendelssohn stesso.
Il perché, è presto detto: anche se il giovane compositore era dotato di una mano felicissima e di grande maestria, non dobbiamo ritenere che all’epoca scrivere una sinfonia fosse questione semplice: tutti i giovani compositori dovettero confrontarsi con difficoltà che le precedenti generazioni di compositori non avevano dovuto affrontare: i capolavori sinfonici beethoveniani; essi, lungi dall’essere semplicemente, come era stato sino ad allora, un genere di intrattenimento, avevano uno spessore intellettuale importantissimo e erano veicoli di forti tensioni ideali, oltre che pietre di paragone scomode e difficilmente eguagliabili. Questa sorta di soggezione perdurò per tutto l’Ottocento – basti pensare che un autore quale Brahms si dibattè per anni nella gestazione delle sue sinfonie, non senza infiniti ripensamenti.
Ma non solo per questo la Scozzese vide la luce in tredici lunghi anni: Mendelssohn, da validissimo autore, voleva guardarsi bene dall’illustrare la mera descrizione paesaggistica di un luogo o citare temi popolari a oltranza, tant’è che nel suo viaggio scozzese guardò con sufficienza e quasi astio alle melodie popolari e alla musica folclorica, malgrado qualche eco ne sia presente, per forza di cose, all’interno della sinfonia; piuttosto, l’intento del compositore fu di rievocare atmosfere e impressioni del viaggio, in modo che all’interno della composizione ci fosse unità concettuale e continuità narrativa: prova ne è, infatti, il desiderio che l’esecuzione dei quattro movimenti fosse senza soluzione di continuità. Per effetto poi di questa scelta, la Scozzese si presenta al suo interno come fortemente unitaria e, contemporaneamente, diversificata.
Il primo tempo, introdotto da un solenne Andante con moto, si riallaccia alle impressioni suscitate dalla visita alla Cappella di Maria Stuarda. Nella lunga coda dello stesso movimento, ricco di passaggi cromatici e forti contrasti, sembra essere descritta una tempesta. Il secondo movimento, il Vivace non troppo – che, singolarmente, segue la forma-sonata – è uno dei tipici movimenti “magici” di Mendelssohn, quasi una citazione dal Sogno di una notte di mezza estate; particolare è il motivo pentatonico del clarinetto all’inizio, come anche la conclusione in pianissimo. Una sorta di recitativo dei violini introduce il tempo lento, un Adagio dove l’intensa melodia viene accompagnata da pizzicati.
Quasi una deflagrazione sembra introdurre l’ultimo movimento, l’Allegro vivacissimo: di grande forza drammatica, percorso da una straordinaria energia ritmica, lascia spazio ad uno sviluppo multiforme, ricco di preziosi giochi di orchestrazione e improvvisi contrasti. Questo sviluppo sfocia in una breve ripresa, ma la sezione veramente sorprendente dell’ultimo movimento è la conclusione: interviene infatti un Allegro maestoso assai, in tonalità maggiore e con la funzione di imponente coda; il risultato è un finale di grandissimo effetto, che ribadisce la logica di varietà nella continuità che avevamo sottolineato quale caratteristica principale della “Scozzese”.