69ª Stagione Sinfonica Orchestra I Pomeriggi Musicali - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 07 novembre 2013
Ore: 21:00
sabato 09 novembre 2013
Ore: 17:00

Kernis Musica coelestis
Bernstein Serenata per violino e orchestra
Beethoven Sinfonia n. 2

Biglietteria

BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50

Ridotti
(Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50

Il Cast

Direttore Daniel Kawka
Violino Rachel Kolly d’Alba
Orchestra di Trento-Bolzano

Note di sala

Aaron Jay Kernis  (1960)
Musica Celestis per orchestra d’archi
Leonard Bernstein (1918-1990)
Serenade per violino e orchestra
Phaedrus – Pausanias: Lento – Allegro marcato
Aristophanes: Allegretto
Erixymachus: Presto
Agathon: Adagio
Socrates – Alcibiades: Molto tenuto – Allegro molto vivace

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Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 36
Adagio molto – Allegro con brio
Larghetto
Scherzo. Allegro
Allegro molto

Aaron Jay Kernis
Musica Celestis per orchestra d’archi
Il compositore
Il musicista statunitense Aaron Jay Kernis è nato il 15 gennaio 1960 a Bensalem Township, Pennsylvania, vicino a Philadelphia.
L’opera
Musica Celestis nacque come parte integrante del primo Quartetto per archi di Kernis nel 1990; il brano venne trascritto per orchestra d’archi nel 1991.
Organico dell’orchestra
Archi (violini i e ii, viole, violoncelli e contrabbassi).
Edizione
New York, Associated Music Publishers, Inc., 1990; © 1992 per la versione per orchestra d’archi.
Bibliografia essenziale
Alan Rich, Aaron Jay Kernis, in Contemporary Composers, edited by Brian Morton and Pamela Collins, Chicago – London, St. James Press, 1992;
Michael Anthony, Aaron Jay Kernis, «American Record Guide», vol. 60, no. 3 (1997);
Daniel Webster, Roth and Graham Win Arts Pulitzers. Also Honored was Composer Aaron Jay Kernis, who was Born in Bensalem and Studied in Philadelphia, «The Philadelphia Inquirer», April 15, 1998;
David Patrick Stearns, Composer Kernis ends a Fruitful Residency with Astral Artists, «The Philadelphia Inquirer», March 22, 2011.
Discografia
Musica Celestis è incisa sul cd Echoes: Classic Works Transformed, con musiche di Jeremiah Clarke/David Stock, Georg Friedrich Händel/Gerard Schwarz, Johannes Brahms/Bright Sheng, Igor Stravinskij/David Schiff, Thelonious Monk/John Harbison: Gerard Schwarz/Seattle Symphony – cd Naxos (Collana American Classics);dal 1996 buona parte della sua produzione è stata registrata da Argo Records.

Dopo aver iniziato a suonare il violino e il pianoforte fin da ragazzo, Aaron Jay Kernis ha studiato composizione con John Adams al San Francisco Conservatory, con Charles Wuorinen alla Manhattan School of Music a New York e con Morton Subotnick, Bernard Rands e Jacob Druckman alla Yale University. Già consulente musicale della Minnesota Orchestra, vive a New York e insegna alla Yale School of Music.

Vincitore di ben tre bmi Foundation Student Composers Awards, ha esordito nel 1983 con Dream of the Morning Sky, eseguito dalla New York Philharmonic Orchestra diretta da Zubin Mehta. Kernis da allora ha scritto altri venticinque lavori per orchestra, tra cui due Sinfonie (la Second Symphony del 1991 riflette la prima guerra del golfo), New Era Dance, Lament and Prayer (1996), Newly Drawn Sky, Concerti per violino e chitarra (1997), per violoncello e per corno inglese. Il suo catalogo comprende, inoltre, una trentina di brani da camera, ventidue pezzi per coro e quattordici lavori per pianoforte, tutti pubblicati da G. Schirmer (New York).

Vincitore del Rome Prize (1984), grazie al quale ha potuto studiare in Europa, premiato dal National Endowment for the Arts, dalla Guggenheim Foundation e dalla New York Foundation of Arts, con Musica Instrumentalis (Quartetto per archi n. 2, 1998) ha vinto il Pulitzer Prize for Music, assegnato in precedenza a compositori quali Ned Rorem (1976), Roger Sessions (1982), Gunther Schuller (1994), Morton Gould (1995) e Wynton Marsalis (1997). Con Colored Field ha ottenuto il Grawemeyer Award for Music Composition della University of Louisville (2002), che – prima di Kernis – aveva visto premiati musicisti quali Witold Lutoslawski (1985), György Ligeti (1986), Harrison Birtwistle (1987), John Corigliano (1991), Krzysztof Penderecki (1992), Toru Takemitsu (1994), John Adams (1995), Tan Dun (1998), Thomas Adès (2000) e Pierre Boulez (2001). Nel 2012 gli è stato assegnato il Nemmers Prize in Music Composition, grazie al quale egli attualmente è composer in residence presso la Northwestern University (2013-2015).

Sue opere sono state eseguite tra l’altro dalla Baltimore Symphony e dalla Birmingham Symphony Orchestra, dalla Philadelphia Orchestra, dalla San Francisco Symphony e dalla Seattle Symphony Orchestra, da Joshua Bell e da Renée Fleming.

Lo stile di Kernis è alquanto eclettico, unendo egli elementi del minimalismo e del post-romanticismo, non disdegnando cioè di scrivere musica tonale e di puntare all’emozione diretta dell’ascoltatore, al contrario di certa ‘avanguardia’ (ormai alquanto datata) che rifiuta sdegnosamente qualsiasi coinvolgimento emotivo degli astanti. Kernis non solo si ispira a grandi maestri del passato quali Hildegard von Bingen, Mahler, Debussy o Stravinskij, ma nelle sue scorribande musicali si ritrovano talvolta anche accenni a ritmi latino-americani, al jazz, al rap e alla hip-hop music.

Musica Celestis era in origine un tempo del primo Quartetto per archi, composto nel 1990; il brano venne trascritto per orchestra d’archi nel 1991, quando Gerard Schwarz, direttore stabile della Seattle Symphony dal 1985 al 2011, chiese a sei dei suoi migliori amici musicisti – Samuel Jones (nato nel 1935), John Harbison (1938), David Stock (1939), David Schiff (1945), Bright Sheng (1955) e Aaron Jay Kernis (1960) – di arrangiare o riscrivere dei brani ben noti preesistenti dalla durata di cinque-dieci minuti («transform them for our present time»), o di compositori classici o anche di musicisti del Novecento, per raggiungere un nuovo pubblico («reach out to engage a new audience»). Kernis non volle cimentarsi con l’orchestrazione di un brano pianistico di Brahms (op. 118 n. 2), come fece Bright Sheng, o con la versione jazz del Finale dall’Uccello di fuoco di Stravinskij, come decise di fare David Schiff, bensì – non senza un pizzico di civetteria – pensò di cimentarsi con una propria creazione, evidentemente ritenuta già «well-known». Negli Stati Uniti quello di Aaron Jay Kernis al più tardi da una quindicina d’anni è un nome di prima grandezza: il Pulitzer Prize – vinto da lui, infatti, nel 1998 – è il premio più ambito (a parte forse l’Oscar) di qualsiasi musicista americano, dato che il tentativo di convincere l’Accademia di Svezia a istituire un Nobel per la musica non andò a buon fine (oltre alla musica, altre categorie del Pulitzer sono riservate al giornalismo e alla letteratura). Non so però se Kernis potesse ambire a essere considerato una sorta di classico già all’inizio degli anni Novanta; fatto sta che Musica Celestis è un brano obiettivamente assai riuscito, di rara suggestione, un po’ alla maniera di Henryk Gorecki o di Arvo Pärt, che si pone perfettamente in linea con la tradizione romantica, senza, tuttavia, essere privo di un tocco personale. Il brano si divide in tre parti (aba), laddove la prima sezione (Adagio), ripresa in maniera variata alla fine, si pone come omaggio evidente a Wagner, nella fattispecie come quasi-citazione del Preludio al primo atto del Lohengrin (1850), in cui i violini divisi in registro acuto tengono delle note lunghissime, una sorta di corale sui generis, da cui si arriva man mano a un picco emotivo, un fff a tutta orchestra (corrispondente allo svelarsi del Gral), per poi ritornare al ppp iniziale. Guarda caso, poi, Kernis sceglie la maggiore come tonalità dell’inizio del suo brano, che è anche quella associata alla sfera dei cavalieri del Gral in Lohengrin; ma dopo poche battute siamo già immersi in tutt’altra atmosfera, da cui poi (nella sezione b), Con moto, dipartono numerosissime scale ascendenti, in un crescendo d’intensità verso l’acuto, non esente da richiami all’Adagio per archi (1936) di Samuel Barber (1910-1981), altro caso di trascrizione di un Quartetto per orchestra d’archi, che acquisì una notevole celebrità. Anche in Kernis alla fine si torna alle armonie celestiali dell’inizio, alla Sphärenmusik che giustifica appieno il titolo di Musica Celestis, e che – non è un azzardo – può ben essere considerata un esempio di eclettismo magistrale, laddove il compositore riesce nella quadratura del cerchio, cioè nel tentativo di scrivere musica ‘moderna’ quanto basta per non poter essere tacciato di essere un bieco epigono della tradizione postromantica (alla maniera di molti compositori di musica per film, per intenderci), musica al contempo personale, inconfondibile, che non dia l’idea del déja entendu, senza però rivolgersi a un pubblico di soli specialisti (e cioè compositori e musicologi), bensì a quello ‘normale’ degli abbonati alle stagioni di musica ‘classica’ nelle sale da concerto tradizionali: musica bella, senza altri aggettivi.

Johannes Streicher

Leonard Bernstein
Serenade per violino e orchestra
I movimenti
1. phaedrus – pausanias: lento –allegro marcato
2. aristophanes: allegretto
3. Erixymachus: Presto
4. Agathon: Adagio
5. Socrates – Alcibiades: Molto tenuto – Allegro molto vivace

Il compositore
Nato il 25 agosto 1918 a Lawrence, Massachusetts; morto il 15 ottobre 1990 a New York City, New York: pianista, compositore e direttore d’orchestra statunitense.

L’opera
Commissionata dalla Fondazione Koussevitzky, la Serenade after Plato’s «Symposium» for Solo Violin, Strings, Harp and Percussion venne composta nel 1954.

Organico dell’orchestra
Violino solista; archi (violini i e ii, viole, violoncelli, contrabbassi), arpa, timpani e percussioni (cinque esecutori).

Edizioni
Jalni Publications, Inc., 1956 (Boosey & Hawkes, Inc.); Corrected Edition: 1988.

Dedica
«To the Beloved Memory of Serge and Natalie Koussevitzky».

Prima esecuzione assoluta
Venezia, Teatro La Fenice, 12 settembre 1954: Israel Philharmonic Orchestra sotto la direzione di Leonard Bernstein, con Isaac Stern come solista.

Bibliografia
Leonard Bernstein, The Joy of Music, New York 1959;
David Ewan, Leonard Bernstein, West Philadelphia, Pennsylvania, Chilton, 1960;
John Briggs, Leonard Bernstein, Cleveland, Ohio, World Publishing Co., 1961;
Joan Peyser, Bernstein. A Biography, New York 1987; edizione aggiornata: New York, Billboard, 1998;

Leonard Bernstein – Enrico Castiglione, Una vita per la musica. Conversazioni, Roma, Edizioni Logos, 1991 (Musicalia, 1; molte ristampe successive);

Leonard Bernstein. Una traccia per la memoria. Antologia critica, a cura di Roberto Tirapelle, Verona, Cierre Edizioni, 1992 (Sequenze);

Humphrey Burton, Leonard Bernstein, New York, Doubleday, 1994;

Meryle Secrest, Leonard Bernstein. A Life, New York, Random House, 1994;

Paul Myers, Leonard Bernstein, London, Phaidon, 1998;

Barry Seldes, Leonard Bernstein. The Political Life of an American Musician, University of California Press, 2009; traduzione italiana di Francesca Cosi, Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano, Torino, edt, 2011 (Biblioteca di cultura musicale. Contrappunti, 3).

Discografia

Serge Blanc/Orchestre Philharmonique de l’ortf/Georges Tzipine – lp sb 001 (Francia);

Zino Francescatti/New York Philharmonic Orchestra/Leonard Bernstein – lp cbs;

Rachel Kolly d’Alba/Orchestre National des Pays de la Loire/John Axelrod – cd Warner;

Gidon Kremer/Israel Philharmonic Orchestra/Leonard Bernstein – lp e cd dg;

Itzhak Perlman/Boston Symphony Orchestra/Seiji Ozawa – cd emi;

Isaac Stern/Symphony of the Air/Leonard Bernstein – lp Odyssey e cd cbs;

Sonig Tchakerian/Orchestra di Padova e del Veneto/Zsolt Hamar – cd «Amadeus».

 

Universalmente noto come direttore d’orchestra tra i più celebrati del Novecento (primo americano salito stabilmente sul podio della New York Philharmonic Orchestra, grande interprete di Mahler e di buona parte del repertorio internazionale da Bach e Haydn a Stravinskij, Copland e oltre), musicista a tutto tondo, Leonard Bernstein con ogni probabilità troverà un posticino – e forse non solo uno strapuntino – nella storia della musica grazie a West Side Story. Ma se anche questo musical del 1957 lo ha reso noto a vasti strati della popolazione, egli in realtà ambiva non solo a conquistare Broadway, ma a imporsi come compositore ‘serio’ anche nelle sale da concerto di tutto il pianeta. L’ego di Lenny era di dimensioni ragguardevoli, non a torto, se consideriamo il pianista-direttore- scrittore-presentatore-showman, ma la critica internazionale non gli ha ancora riservato le (forse) giuste attenzioni quale autore di musica sinfonica e non-teatrale in genere. Ne scrisse, in effetti, parecchia, spaziando dalla Sinfonia propriamente detta al Konzertstück, dalla Cantata all’Oratorio, dal ciclo di Lieder a una Messa sui generis. Ma sotto sotto viene sempre fuori l’autore di teatro, l’inventore di pezzi ritmicamente tanto sorprendenti quanto trascinanti, che – con Charles Ives (1874-1954), Aaron Copland (1900-1990), Elliott Carter (1908-2012: sic!), Samuel Barber (1910-1981), John Cage (1912-1992), Lukas Foss (1922) e André Previn (1929) – fa parte della schiera non troppo folta di compositori americani che abbiano lasciato il segno (gli ultimi due in realtà sono nati a Berlino, ma sono immigrati negli Stati Uniti da ragzzi).

La Serenade per violino di Bernstein (1954) si inscrive nella storia del genere della Serenata, laddove quelle per violino solista e orchestra di Mozart (fra tutte, la Serenata “Haffner”, k 250) sicuramente sono quelle più note; l’idea era quella di intrattenere in maniera intelligente un pubblico serale o notturno, forse anche un tantino distratto, che non disdegnava di unire i piaceri della gola a quelli dell’orecchio. Bernstein si divertì a scrivere una partitura tecnicamente piuttosto impegnativa, che si riallaccia idealmente a una cena conviviale con annessa conversazione intelligente, nella fattispecie una sua rappresentazione ideale a firma di Platone (427-347 a. C.).

Ecco come lo stesso compositore commentava la sua Serenade nel 1954:

 

La Serenade non si basa su un programma letterario, nonostante sia ispirata a una rilettura del dialogo intitolato Simposio di Platone. La musica si pone, esattamente come il dialogo, come una serie di affermazioni, collegate l’una all’altra, in lode dell’amore, e generalmente segue la forma di Platone quanto alla successione degli oratori durante il banchetto. La relazione dei singoli movimenti non è dovuta al fatto che si basino su materiale tematico comune, ma si spiega con la derivazione di ogni movimento da elementi di quello precedente.

Per chi fosse interessato alle allusioni letterarie, le seguenti righe valgano come una sorta di indicatori stradali.

Phaedrus – Pausanias (Lento – Allegro marcato): Fedro apre il Simposio con un’orazione lirica in lode di Eros, il dio dell’amore (fugato, iniziato dal violino solista). Pausania prosegue, descrivendo la dualità di amante e amato, che è espressa in un classico Allegro in forma di sonata, sulla base del materiale del fugato d’apertura.

Aristophanes (Allegretto): Aristofane non gioca il ruolo del clown in questo dialogo, ma invece quella di un narratore che dà la ‘buona notte’. Lo fa invocando la favolosa mitologia dell’amore.

Erixymachus (Presto): Il medico parla dell’armonia del corpo, come di un modello scientifico per le varie tipologie dell’amore. Questo è uno Scherzo fugato estremamente breve, nato da una miscela di mistero e humour.

Agathon (Adagio): Forse il discorso più commovente del dialogo, il panegirico di Agatone abbraccia tutti gli aspetti del potere dell’amore. Formalmente questo movimento corrisponde alla tipologia della cosiddetta ‘forma di canzone’ semplice tripartita.

SocratesAlcibiades (Molto tenuto – Allegro molto vivace): Socrate descrive la sua visita alla veggente Diotima, citando il suo discorso sulla demonologia dell’amore. Questo brano è un’introduzione lenta che ha un peso maggiore rispetto ai movimenti precedenti. Riprende la sezione centrale del movimento Agathon, in una sorta di forma sonata nascosta. L’interruzione di Alcibiade con la sua banda di festaioli ubriachi introduce l’Allegro, che è un lungo rondò pieno di energia; il clima è quello della musica da ballo in una festa gioiosa. L’accenno al jazz nella celebrazione spero che non venga considerato come un anacronismo, visto che siamo dinnanzi a una festa greca, ma piuttosto come espressione naturale di un compositore contemporaneo americano, imbevuto dello spirito senza tempo di quella cena.

Leonard Bernstein

Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 36

I movimenti
1. Adagio molto – Allegro con brio
2. Larghetto
3. Scherzo. Allegro
4. Allegro molto

Il compositore
Battezzato il 17 dicembre 1770 a Bonn; morto il 26 marzo 1827 a Vienna (dove era vissuto dal 1792): pianista, compositore e direttore d’orchestra tedesco di origini nederlandesi.
Genesi dell’opera
La Sinfonia n. 2 venne composta tra il 1801 e il 1802 a Vienna e Heiligenstadt.
Organico dell’orchestra
Due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni, due trombe, timpani e archi (violini i e ii, viole, violoncelli, contrabbassi).
Dedica
Al principe Carl von Lichnowsky.
Prima esecuzione pubblica
Vienna, Theater an der Wien, 5 aprile 1803, sotto la direzione dell’autore.

Prima edizione
Wien, Kunst- und Industriekontor, 1804.
Bibliografia essenziale
Max Chop, Le nove Sinfonie di Beethoven. Commento storico-musicale, a cura di Ervino Pocar, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1952, 41965 (Biblioteca Moderna Mondadori, 284; edizione originale: Max Chop, Erläuterungen zu Meisterwerken der Tonkunst, Leipzig, Reclam, s. a.);
Maynard Solomon, Beethoven, New York, Schirmer Books, 1977; traduzione italiana di Nicoletta Polo, Beethoven. La vita, l’opera, il romanzo familiare, a cura di Giorgio Pestelli, Venezia, Marsilio Editori, 1986;
Sandro Cappelletto, Beethoven. La vita e l’opera, Roma, Newton Compton editori, 1986 (universale tascabile, 56. Serie I grandi musicisti, a cura di Enrico Stinchelli);
Luigi della Croce, Ludwig van Beethoven. Le nove Sinfonie e le altre opere per orchestra, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1986, ristampa 1988 (Collezione L’arte della fuga, 6);
Ludwig van Beethoven, Autobiografia di un genio. Lettere, pensieri, diari, a cura di Michele Porzio, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996 (Piccola Biblioteca Oscar);
Ugo Morale, Introduzione a Beethoven, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1999 (Testi e pretesti);
Dieter Rexroth, Beethovens Symphonien. Ein musikalischer Werkführer, München, Verlag C. H. Beck, 2005 (C. H. Beck Wissen in der Beck’schen Reihe bsr 2209).

Discografia essenziale
Claudio Abbado/Berliner Philharmoniker – cd dg;
Claudio Abbado/Wiener Philharmoniker – cd dg;
Leonard Bernstein/New York Philharmonic Orchestra – lp cbs e cd Sony;
Leonard Bernstein/Wiener Philharmoniker – lp e cd dg;
Karl Böhm/Wiener Philharmoniker – lp e cd dg;
Riccardo Chailly/Gewandhausorchester Leipzig – cd Decca;
Wilhelm Furtwängler/Wiener Philharmoniker – lp e cd emi;
Herbert von Karajan/Berliner Philharmoniker – lp e cd dg;
Otto Klemperer/Philharmonia Orchestra – lp e cd emi;
Gustav Kuhn/Orchestra Haydn di Bolzano e Trento – cd col legno;
Riccardo Muti/Philadelphia Orchestra – cd emi;
Georg Solti/Chicago Symphony Orchestra – lp e cd Decca;
Arturo Toscanini/nbc Symphony Orchestra – dischi a 78 giri, lp e cd rca.

Il vero problema per uno scrittore, è stato osservato, non è scrivere il primo libro. L’opus primum, e ciò vale anche per i registi, di regola è intriso di elementi autobiografici o comunque di cose che all’artista sono assai prossime, per cui è un po’ come se si scrivesse da sé. Il problema è il secondo. Lì viene fuori se si ha la stoffa dello scrittore, del regista, o se, tutto sommato, il primo libro era solo una sorta di libro di memorie, di autobiografia rivista e corretta, o, all’uopo, camuffata. Se questa regola dovesse valere anche per i compositori, pur con tutte le debite differenze, Hector Berlioz potrebbe essere un ottimo esempio: la Symphonie fantastique era l’autobiografia, e tutto quello che è venuto dopo era espressione del problema di come affrontare il genere sinfonico al di là del primo colpo di genio. Che Beethoven sia autore sinfonico nato, credo non sia mai stato messo in dubbio da nessuno. Ma certamente la Seconda Sinfonia gli dette del filo da torcere, se i primi abbozzi risalgono all’estate 1800 per arrivare al febbraio 1802, mentre la composizione vera e propria pare sia stata stesa fino all’aprile 1802; non è sicuro se vi abbia messo ancora le mani prima della pubblicazione, che avvenne tra la fine del 1803 e l’inizio del 1804. Beethoven desiderava eseguire la nuova Sinfonia in pubblico, prima di darla alle stampe, ma il concerto previsto per questo scopo, nell’aprile 1802, non si poté realizzare perché il barone von Braun, sovrintendente del Hofburgtheater, concesse il teatro ad altri musicisti. Solo un anno dopo, il 5 aprile 1803, Beethoven organizzò un nuovo concerto con proprie opere. Quella sera al Theater an der Wien vennero eseguite le prime due Sinfonie, op. 21 e 36, il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra, op. 37, e l’Oratorio Christus am Ölberg, op. 85.

La «Grande Sinfonie pour deux Violons, Alto, deux Flûtes, deux Hautbois, deux Clarinettes, deux Bassons, deux Cors, deux Trompettes, Timballes, Violoncelle et Basse» era «composée et dediée à son Altesse Monseigneur le Prince Charles de Lichnowsky par Louis van Beethoven», e ciò comportava il fatto che la nuova composizione sia stata per un certo lasso di tempo proprietà esclusiva del dedicatario; è quindi probabile che la Seconda Sinfonia sia stata eseguita per la prima volta in forma privata in casa del principe Lichnowsky, prima di apparire in un concerto pubblico o a stampa. Delle reazioni degli ospiti del principe nulla è dato sapere, ma come al solito gli ascoltatori della prima esecuzione pubblica della Seconda Sinfonia rimasero disorientati, preferendole la Prima. È questo un comportamento che si sarebbe ripetuto per quasi tutte le prime esecuzioni beethoveniane a Vienna; se il fattore autobiografico – sempre che si possa applicare la ‘regola’ citata in apertura alla musica – ha mai influito sulle opere di Beethoven, pare che il pubblico abbia però individuato la nota ‘personale’ in tutti i suoi lavori principali, stigmatizzandoli come ‘ricercati’, scaturiti dal desiderio di apparire nuovo a tutti i costi.

In realtà la Seconda oggi non appare fuori da ogni schema: il primo, secondo e quarto tempo seguono la forma sonata, mentre solo il terzo abbandona le movenze del classico minuetto, per introdurre al suo posto uno Scherzo, inframmezzato però, esattamente come il minuetto, da un Trio. Formalmente, in effetti, non è novità da poco, considerando che per tutto il secolo a seguire (e oltre) i compositori si sarebbero sostanzialmente attenuti a questo schema. In realtà però quello che nella Prima Sinfonia venne definito ancora «Menuetto» era già uno Scherzo in piena regola (basti pensare agli accenti ruvidi e al caratteristico grande crescendo iniziale che portava in sole otto battute da p a f), per cui nella Seconda Sinfonia Beethoven si limitò a sottolineare la novità introducendo la denominazione nuova. Forse era questo ciò che stupì i viennesi; se poi si pensa all’inizio del quarto tempo con un motivo di poche note veloci, con un trillo in sforzato e due staccati, che anch’esso ha qualcosa di uno scherzo, si può forse anche comprendere la loro sorpresa (sulla natura del quarto tempo, che ha anche qualcosa del rondò, dato che il tema torna identico quattro volte, si è discusso ripetutamente). L’introduzione lenta del primo tempo non è, invece, una novità, ricorrendo svariate volte anche in Haydn e in Mozart, ma forse la sua estensione ragguardevole (33 battute) fu giudicata bizzarra (come tante altre peculiarità di Beethoven); ma è proprio dalla tensione dell’introduzione che nasce lo slancio del primo tempo, i cui sedicesimi ascendenti contribuiscono in maniera determinante al carattere festoso dell’opera, il cui re maggiore può ricordare eventualmente la “Haffner” mozartiana (k 385), di cui costituisce una sorta di intensificazione, di ampliamento, di estensione beethoveniana. Senza, beninteso, con ciò voler rinnegare l’insegnamento della Sinfonia “Praga” (k 504), anch’essa in re maggiore e provvista di estesa introduzione (Adagio), e sottovalutare gli elementi di autentica novità in Beethoven, non ultimo dei quali l’intensità lirica del Larghetto, uno dei suoi movimenti lenti più riusciti (e in cui, forse, si può intravedere già un germoglio di Schubert).

Johannes Streicher