Le date
Serie Red Planet – Serie Curiosity
Albert Schnelzer A Freak in Burbank
R. Strauss concerto per oboe e orchestra
Beethoven Sinfonia n. 4
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore Giordano Bellincampi
Oboe Francesco Quaranta
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
ALBERT SCHNELZER (1972)
A Freak in Burbank
9 minuti
RICHARD STRAUSS (1864-1949)
Concerto per oboe e orchestra
Allegro moderato
Andante
Rondò finale. Vivace
25 minuti
LUDWIG VAN BEETHOVEN (1770-1827)
Sinfonia n. 4, op. 60
Adagio – Allegro vivace
Adagio
Allegro molto e vivace – Un poco meno allegro
Allegro ma non troppo
35 minuti
Guida all’ascolto
A CURA DI BENEDETTA AMELIO
Schnelzer – A freak in Burbank
Nell’estate del 2010 è presentato ai BBC Proms il brano di un giovane compositore svedese: Albert Schnelzer. Il lavoro si intitola A Freak in Burbank e gli è stato commissionato pochi anni prima, nel 2007, dalla Chamber Orchestra di Stoccolma. La critica internazionale ne resta piacevolmente colpita, annoverando Albert Schnelzer tra i giovani compositori maggiormente degni d’attenzione. Nato nel 1972, tra il 1994 ed il 2000 studia alla Malmo academy of music e, successivamente, al Royal college of music di Londra. Mentre è ancora studente, nel 1998, vince una competizione per compositori esordienti e il suo lavoro, Erupto, viene eseguito dalla Helsingborg Symphony Orchestra. Dal 2001 fa parte dell’albo dei compositori svedesi: le sue fatiche vengono portate alla conoscenza del pubblico da numerosissime e importanti orchestre di tutto il mondo, ottenendo numerosi riconoscimenti. La sua musica viene definita aggressiva, impegnativa e ardua per quanto concerne la strumentazione, ma anche fragile e vibrante.
Ciò che contraddistingue il suo linguaggio musicale è probabilmente il fatto di riuscire a mescolare tra loro tradizioni musicali molto differenti: da una parte lo studio e l’affezione al periodo Romantico, dall’altra, l’interesse per la musica popolare, infine, l’amore per il rock. A esempio di questo strano connubio si prenda il suo brano per pianoforte Dance with the devil (2000) che Schnelzer stesso definisce “un incrocio tra Franz Liszt e gli Iron Maiden”; lo studio delle musiche balcaniche, invece, si colloca alla base di un altro suo brano, Limpin’ dances (2001).
La fonte d’ispirazione principale per A Freak in Burbank avrebbe dovuto essere il grande padre del classicismo viennese, Joseph Haydn, ma, alla fine, Schnelzer prese spunto da un personaggio forse altrettanto grande, di sicuro radicalmente differente. È lo stesso compositore, infatti, che in un’intervista dichiara che nel periodo in cui stava lavorando al brano per la Chamber Orchestra di Stoccolma era immerso nella lettura della biografia di Tim Burton. È proprio questo eclettico regista a influenzare e a permeare con tutta la sua stravaganza – magnificamente espressa nei suoi film – il lavoro di Schnelzer. Parafrasando ciò che dice lui stesso, A freak in Burbank è un brano formato da un 90% di Burton e da un 10% di Haydn. Il padre del classicismo da sempre influenzava il compositore svedese, in particolare per il carattere trasparente e giocoso delle sue composizioni; Schnelzer ritrova questa trasparenza e giocosità anche in Burton – nato appunto a Burbank, negli Stati Uniti.
È in particolare la tenera perfidia di quando Burton era piccolo – che il regista stesso racconta nella sua autobiografia – che colpisce l’immaginazione di Schnelzer: un bambino che distruggeva le cose e incuteva una scherzosa paura.
Da questi due ritratti – Haydn e Burton – il compositore crea un unico, breve e coloristico brano, vestendo un’orchestra “haydniana” con abiti più moderni e dalle tinte scure ma divertenti, proprio come i film di Burton. A freak in Burbank vuole essere una risposta alla domanda che Schnelzer stesso riporta a inizio partitura: cosa è rimasto dello spirito di Haydn nella periferia americana, in questo caso rappresentata da Burbank, luogo di nascita di Tim Burton? È un’opera che, in un unico movimento, di circa nove minuti, ha in se tutta la spaventosa, dolce poesia del regista americano e anche tutta la leggerezza di orchestrazione e di narrazione di Haydn. L’atmosfera che Schnelzer crea è inquietante, ma viene resa simpatica dalle rapide note degli archi e dei fiati, che sembrano descrivere i veloci passi degli eccentrici personaggi (cioè i freaks) che animano i film di Burton. Subito dopo l’intro interviene un’altra sezione, caratterizzata da un ritmo leggero, quasi di danza, ma sempre a tinte scure; infine, prima della ripresa della prima vorticosa parte nel finale, si incontra un terzo segmento di brano, più malinconico, al quale le note lunghe e tenute degli archi donano un’aura decisamente funerea.
Schnelzer costruisce il brano come se stesse dipingendo sia la scena di un film – con l’ambientazione lugubre contrapposta ai giocosi movimenti – sia il personaggio che interviene in essa – dal macabro, tenero aspetto – sia colui che l’ha pensata, ovvero la fantasia di Tim Burton.
Risorse bibliografiche:
Strauss – Concerto per oboe e orchestra
[L’opera] deve avere plasticamente efficacia sull’ascoltatore, bisogna che davanti agli occhi spirituali del pubblico sia plasticamente evidente ciò che l’autore voleva dire. Ciò è possibile soltanto grazie alla fecondazione attraverso un’idea poetica, che venga o non venga aggiunta all’opera come programma
(R. Strauss).
Gustav Mahler, non solo “collega”, ma anche amico di Richard Strauss, etichettava se stesso come “inattuale”, contrapponendosi al “grande attuale” ovvero proprio il compositore tedesco. Ma quando nel 1945 Strauss compone il Concerto per oboe e orchestra, le carte in tavola nel panorama della musica europea sono decisamente cambiate: l’arte del compositore che aveva guadagnato stima e fama grazie a opere come Don Juan, Also sprach Zarathustra, Ein Heldenleben, Salome, Elektra – solo per citarne alcune – è sempre più soggetta a revisioni critiche che puntano a svelarne l’aspetto più retrospettivo, tradizionalista e legato al passato. Se all’inizio della sua carriera, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, il musicista di Monaco veniva annoverato tra i compositori più apprezzati dell’epoca, lo sconvolgente spartiacque creato da Schönberg portò Strauss a ancorarsi ad un “passato-tonale” che allontanò da lui alcuni suoi estimatori, tanto che a due anni dalla morte, avvenuta nel 1949, disse: “Io sono l’unico compositore vivente che oggi ha una cattiva stampa; per questo la mia musica è tanto migliore”.
Thomas Mann, parlando di Salomè, tratteggia delicatamente ma precisamente lo stile straussiano: “Mai avanguardismo e sicurezza di successo si sono uniti in maggior confidenza. Non mancano gli affondi e le dissonanze, e poi quella bonaria condiscendenza che fa la pace con il timorato di Dio e gli fa capire che, in fondo, la cosa non è tanto grave”.
Sì, Strauss non cedette all’innovativa sensualità dell’atonalità proposta da Schönberg ma non per questo lo si può definire un compositore retrogrado: nei suoi lavori emerge sempre l’incredibile estro del grande orchestratore, dai piedi ben saldi in un glorioso passato musicale, ma con lo sguardo curioso nell’esplorare le possibilità armoniche e timbriche che proprio in quegli anni stavano emergendo.
Il Concerto per oboe e orchestra venne commissionato a Strauss da John de Lancy, oboista dell’orchestra di Philadelphia, giunto a Garmisch come soldato dell’esercito americano che in quel periodo occupava parte della Germania. Articolato in tre movimenti, quest’opera punta ad un’essenzialità del discorso armonico che fa emergere lo strumento solista sia per virtuosismo tecnico, sia per ricerca di espressività: distanziandosi dall’immane, magnifica massa di suoni che caratterizzava le prime composizioni, Strauss crea un brano di brillante intimità, sul quale sembra aleggiare lo spirito giocoso e profondo di Mozart – autore molto amato dal nostro. Nell’Allegro, all’oboe è affidata l’esposizione dei due temi formati da sinuose linee melodiche che rendono subito il brano estremamente sensuale, godibile, attraente, accattivante. Dopo l’esposizione della prima idea musicale, interviene più corposamente l’orchestra che torna poi al suo ruolo di sostegno quando rientra lo strumento solista. I soggetti musicali sono costruiti sapientemente, passando da una sfumatura di colore ad un’altra: a tratti la melodia si fa scherzosa, alle volte malinconica, poi, intensa.
Il secondo movimento ha molti elementi di collegamento col primo: anzitutto le rapide note degli archi – che avevano aperto e chiuso il primo movimento – vengono qui riproposte come se non ci fosse stacco tra l’Allegro e l’Andante. Su di esse, tuttavia, si innesca una frase musicale molto ampia, cantabile, intensissima. Inoltre, nel corso di questo movimento, Strauss riprende le idee melodiche esposte nell’Allegro e le sviluppa sempre mantenendo la dolcezza cifra di questo Andante. La lunga cadenza dell’oboe del secondo movimento, sfocia, poi, direttamente nel terzo: carico di idee melodiche differenti, in questo Rondò Strauss torna alla leggerezza del primo movimento. Più che nei precedenti, qui la voce del solista e quella corale dell’orchestra si intrecciano (in particolare si creano alcuni momenti di duetto tra flauto ed oboe). Il brano si chiude rapidamente, con una stretta che, quasi scherzosamente, lascia attoniti gli ascoltatori, come alla ricerca di qualche suono che debba ancora essere emesso.
Bibliografia:
Norman Del Mar, Richard Strauss, III vol., Boston, Faber and Faber, 1986;
Bryan Gilliam, The life of Richard Strauss, Cambridge, Cambridge University Press, 1999.
Discografia:
ob. Simon Fuchs, dir. David Zimann, Tonhalle-Orchester Zurich, Richard Strauss: Orchestral Works and Concertos (7 CD), CD 7 (Sony, 2014);
Strauss: Complete Tone Poems and Concertos (13 CD), CD 9 (Decca, 2014).
Beethoven – Sinfonia n. 4
Salutata all’unanimità, senza i ma ed i se che erano soliti nella critica ogni qual volta si trattava del nome di Beethoven (Schindler)
È il volto del Beethoven che non ti aspetti quello che emerge all’ascolto della Quarta sinfonia: composto, “settecentesco”, senza eccessi, pulito, chiaro, ma non per questo meno profondo o incisivo.
Stupirà forse – o forse verrà utilizzata come motivazione a quanto detto sopra – che tale sinfonia sia nata proprio a cavallo tra l’Eroica e la Quinta, due lavori che sono passati alla storia come le composizioni per eccellenza in cui il genio di Bonn mostra la sua vena più drammatica, titanica, profondamente romantica.
Parlando della genesi dell’opera, è da riferire come, nel 1806, il musicista compì un viaggio nella Slesia Superiore per visitare il castello del conte Franz von Oppersdorf che, amante della musica, chiese lui di comporre una sinfonia per l’orchestra di corte. In un primo momento Beethoven pensò di donare al nobile la Sinfonia in do minore a cui stava già lavorando ma, successivamente, capendo che quest’ultima composizione necessitava di un più lungo periodo di gestazione, decise di idearne una ex novo: così nacque la Quarta sinfonia (Quella in do minore venne effettivamente terminata successivamente, diventando la famosa opera de “il destino che bussa alla porta”: la Quinta).
Poiché si posiziona in mezzo ai titanici capolavori della Terza e della Quinta, questa sinfonia potrebbe essere additata come meno convincente per il suo carattere più “da intrattenimento” che “poetico”: in realtà la cifra stilistica del maestro di Bonn – caratterizzata da questo continuo espandere schemi e idee musicali – è ben rintracciabile anche nella Quarta, ad esempio, nelle sperimentazioni che sempre più allargano il campo timbrico-espressivo degli strumenti o nella scelta di una struttura che, se da un lato riprende quella classica haydniana, dall’altro si fa completamente nuova (minuetto-trio-minuetto-trio-coda) e dona a tutta la sinfonia unità e equilibrio.
“Una introduzione solenne, pomposa, un Allegro pieno di fuoco, di splendore e di sostanza, un Andante pieno d’arte e di grazia (bisognava dir Adagio, Adagio del più grande stile e delle più vaste proporzioni), uno Scherzando assolutamente nuovo (Minuetto si doveva dire) pieno di amabile fascino e un finale stranamente imbrogliato ma pieno d’effetto; tutt’insieme gaio, chiaro e piacevole”: ecco quanto diceva la “Gazzetta musicale italiana” del tempo in riferimento alla Quarta sinfonia; citando invece Berlioz e Barbette, in questo lavoro Beethoven abbandona “l’ode e l’elegia” per tornare allo stile meno complesso – ma non meno difficile – della Seconda sinfonia: il carattere è vivo, svelto, d’una celeste dolcezza; Ernouf invece commenta: “una delle sinfonie più accessibili di Beethoven”. Dunque, l’impressione che si tratti di un Beethoven “diverso”, emerge sin dalle primissime critiche.
La Quarta sinfonia si apre con una lunga, misteriosa ma composta introduzione (la più imponente di tutte le nove sinfonie) che prelude alle inconfondibili e burbere frenate col tutti orchestrale: esse sfociano poi in motivi energici, cantabili, briosi, gagliardi, nei quali, qua e là, si possono riconoscere timidi accenni dei futuri motivi che animeranno la “Pastorale”. Il secondo movimento si caratterizza per la cantabilità dei molti e definiti profili tematici, che si intrecciano tra loro: non ha una struttura definita ma tutto sgorga – quasi naturalmente – da una sola melodia. Berlioz definiva questo Adagio “puro di forme”, sfuggente a qualsiasi analisi, espressione di una tenerezza angelica; lo paragonava al racconto dantesco di Francesca di Rimini.
L’Allegro vivace del terzo movimento è introdotto da una parte in cui il tema si concretizza in “frasi di domanda” e “frasi di risposta”; nella parte centrale del movimento, poi, questa stessa struttura è portata avanti da archi e fiati che instaurano così tra loro un gioioso dialogo.
In ultimo, è ancora Berlioz che ci fornisce una semplice e chiara descrizione del movimento finale: è uno “scoppiettio di note scintillanti”, un “cicaleccio continuo” dove a tratti emerge – come era stato nel primo movimento – il volto severo e maestoso del compositore di Bonn.
Bibliografia:
Alfredo Colombani, Le nove sinfonie di Beethoven, Milano, Bocca, 1953;
Carl Dahlaus, Beethoven e il suo tempo, Torino, EDT, 1990;
Alfredo Ceccato, Beethoven duemila: attualizzazioni delle nove sinfonie, Bologna, Pendragon, 2010.
Discografia:
dir. Renè Leibowitz, Royal Philarmonic Orchestra, The 9 Symphonies (Ucraina records, 2013);
dir. Herbert von Karajan, Berliner Philharmoniker, Le 9 Sinfonie (Deutsche Grammophon, 1963);
dir. Barenboim, Staatskpelle Berlin, Beethoven (Warner).