Le date
Serie Red Planet – Serie Curiosity
Wolfgang Amadeus Mozart: La Clemenza Di Tito – Overture
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto Per Pianoforte K449
Ludwig van Beethoven: Sinfonia N.5
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore: Manuel Lopez Gomez
Pianoforte: Jeffrey Swann
FuturOrchestra
Note di sala
Mozart, La Clemenza Di Tito, Ouverture
L’opera, in un meraviglioso allestimento di Guardasoni, andò in scena, come previsto, il 6 settembre 1791. Nonostante il positivo giudizio apparso sulle cronache dell’incoronazione, il successo fu tiepido e l’accoglienza disorientata (famosa rimane l’esclamazione dell’Imperatrice: “una porcheria tedesca”), e segnò l’inizio di un ambivalente e contraddittorio destino critico che, allora e oggi, l’opera porta con sé.
Certo non è facile trovare una equilibrata chiave di lettura di questo difficile lavoro, il cui fine era quello di rappresentare i sentimenti, le passioni, le sfumature dell’animo non attraverso l’elaborazione dei caratteri o il supporto dell’azione ma mediante il soccorso del canto astratto. Eppure, tutte le caratteristiche che possono essere considerate con i limiti di un’operazione rischiosa – l’impianto e le situazioni stereotipate, l’atmosfera fredda e astratta, la prevalenza della cerebralità sul sentimento – erano in realtà frutto di una profonda consapevolezza, di un programma attento e controllato, di una raffinatezza di mestiere a lungo elaborata. Da sempre Mozart aveva voluto giungere alla configurazione drammatica attraverso l’immediatezza espressa dall’inesauribile varietà della voce umana; nel caso specifico de “La clemenza di Tito” l’autore dichiarava apertamente di voler slavaguardare la tradizione ma rivificando i logori materiali – così come è stato – attraverso una moderna psicologia esprimibile esclusivamente in termini musicali.
Alla freddezza statuaria dell’opera, alla quale i critici hanno imputato le colpe maggiori, si contrappongono in alcune parti, imprevedibili zone di calore, vaghe inafferrabili risonanze con le opere contemporanee, specialmente con la “Zauberflöte” alla quale Mozart stava lavorando quando giunse l’ordinazione boema. E’ quello che vuole esprimere Paumgartner quando scrive: “Vi è comunque in gioco, in quest’opera, un che di imponderabile, di commoventemente umano, qualcosa che non vuole rinnegare il suo creatore neppure in quella forzata situazione di conflitto”.
CURIOSITA’ Riportiamo alcuni giudizi dell’epoca relativi alla rappresentazione de “La clemenza di Tito”.
Dal diario del conte Zinzendorf, presente (come sempre) alla “prima”: “L’opera era programmata per le ore cinque al Teatro della città vecchia. La corte arrivò solamente alle sette e mezza passate. Ci hanno regalato uno dei più noiosi spettacoli che si possano immaginare, la Clemenza di Tito”.
Dal “Krönungsjournal für Prag”: “Il 6, giorno dell’Incoronazione, i Nobili Stati, per rendere omaggio a Sua Maestà in questa occasione, diedero un’opera con musica tutta nuova ma su testo italiano di Metastasio, rivisto comunque dal sig. Mazzola, poeta di teatro a Dresda. La composizione è del famoso Mozart e torna a suo onore, benché non avesse molto tempo per scriverla e fosse inoltre caduto ammalato mentre si accingeva a finire l’ultima parte (…)”.
Il corrispondente da Praga degli “Studenten für Tonkünstler und Musik-freunde” così si espresse: “La Clemenza di Tito del signor Maestro di Cappella Mozart venne qui eseguita in occasione delle festività per l’incoronazione. Ma non riscosse il successo che ci si attendeva da un compositore così popolare nella nostra città”.
Pochi anni più tardi, il musicologo E. Rochlitz scrisse nella rivista “Deutschland” (1796): “Mozart si vide costretto o a presentare un’opera assolutamente mediocre, oppure a comporne con cura e bene i soli pezzi più importanti, tirando giù alla leggera quelli meno interessanti, tanto per compiacere al gusto corrente della grande massa. E ciò egli fece”.
Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra K 449
Il vertice della produzione pianistica di questi primi anni viennesi è costituito dai dodici Concerti per pianoforte e orchestra composti fra il febbraio 1784 e il dicembre 1786: dopo i primi tre (K 413, K 414, K 415) Mozart riprende, nel 1784, il “romanzo interrotto” e sfodera con disinvolta scioltezza ben sei Concerti per pianoforte (K 449, K 450, K 451, K 453, K 456, K 459), ripetutamente presentati all’entusiasta pubblico viennese. E’ proprio in questa tranche di opere che si raggiunge un ulteriore traguardo nella rivoluzione del concerto: lo strumento solista può finalmente sfoggiare tutta la magnificenza del suo racconto sonoro ma attraverso un rapporto sempre più equilibrato, disteso e limpido con l’orchestra; questa a sua volta – limitata come organico e resa discreta come potenza espressiva – riesce a sostenere e dialogare con il solista senza problemi di rivalità. Primo della serie dei “grandi Concerti viennesi”, il K 449 fu commissionato a Mozart dalla allieva Barbara Ployer, figlia di un suo concittadino trasferitosi a Vienna. Come ebbe a scrivere Mozart stesso nella lettera al padre del 20 febbraio 1784, si tratta “di un concerto di genere assai speciale, che meglio si adatta a una piccola piuttosto che a una grande orchestra”. La partecipazione dei fiati è infatti “ad libitum” (forse per non escludere la possibilità di eseguire il Concerto nei salotti, con un piccolo complesso da camera) e ciò concorre a creare quella fisionomia del tutto “speciale”. Per questa caratteristica fu apprezzato dal pianista P. Badura-Skoda “come il più intimo dei Concerti di Mozart, dalla trasparenza e lucidità di un quartetto per archi”.
Si fa notare che, nei primi due movimenti, la sapiente limitazione della scrittura sinfonica e concertante viene controbilanciata da uno schema ricco di modulazioni armoniche; mentre nel terzo movimento – uno dei finali più originali della produzione viennese – il vivace spirito contrappuntistico che sostiene la pagina assume la disinvoltura del linguaggio naturale.
COMMENTO In generale sui Concerti viennesi – Lichtenthal: “La seconda “specie” fu da Mozart stesso portata a tale perfezione quale non sussisteva né prima né dopo di lui. Questa è la specie più nobile e artificiale, e alcuni di questi Concerti palesano tale grandezza di sentimento che vengono paragonati meritatamente ad altrettanti drammi lirici.”
In particolare sul K 449 – Einstein: “Questo lavoro possiede una varietà e unità tematica, e una ricchezza della forma, che rivelano una profonda gioia creativa. Anche il primo tempo è piuttosto fuori dal normale per Mozart; esso esprime un’inquietudine che mai non cessa d’inventare temi contrastanti.” Minardi: “Con questo Concerto si può dire che Mozart abbia oltrepassato una nuova soglia dove, senza mai smentire le esperienze precedenti, sono più pressanti implicazioni personali sul piano emotivo che si intrecciano alle convenzioni mondane, si innervano impalpabilmente con esse, elevando il tono generale e realizzando quella unità che è al tempo stesso emozionale e formale”.
CURIOSITA’ Si segnala che i Concerti del 1784 furono eseguiti in cinque Aaccademie pubbliche per sottoscrizione e in una ventina di Accademie nei palazzi della nobiltà viennese (famose rimasero le serate da Golicyn e dagli Esterhazy). A proposito del Concerto K 449, ecco un altro accenno nella lettera del 20 febbraio 1784: “Si ricordi di non mostrarlo a nessuno – chiede Mozart al padre – perché l’ho composto per la signorina Ployer che me l’ha pagato profumatamente (…). Come posso proteggermi dall’incisore che può certamente stampare quante copie vuole e può fregarmi? L’unico modo per evitare questo rischio è quello di tenerlo veramente d’occhio (…). Sono quasi propenso a non vendere più nulla agli incisori ma far stampare i concerti per sottoscrizione, come fanno tutti e trarre guadagno in questo modo”.
Sempre all’inizio del 1784 Mozart, forse per dare parvenza di ordine e di equilibrio alla sua vita, acquistò due quaderni. Il primo, destinato a elencare tutte le sue composizioni, fu inaugurato proprio con il Concerto K 449 e rimase aggiornato fino al 15 novembre 1791, data della “Cantata Massonica” K 623. Il secondo fu utilizzato invece come libro contabile nel quale registrare le entrate (dovute principalmente alle lezioni) e le uscite. Commovente è l’annotazione sulla pagina di maggio: “ Due mazzetti di mughetti, 7 Kreutzen; 34 Kreutzen per uno stornello”.
Beethoven, Sinfonia n.5
Coralmente considerata “la più beethoveniana fra le Sinfonie di Beethoven” la Quinta è l’opera che più di ogni altra ha contribuito all’alone di leggenda e al processo di mitizzazione della sua produzione. Un imbarazzante elenco di suggestioni e di luoghi comuni (a cominciare dalla pericolante definizione di “Sinfonia del destino” – il Destino che bussa alla porta (!) – riportato da quel sedulo quanto ottuso servitorello musicale che era l’allievo Schindler. Non possiamo negare che la Quinta è una delle opere più inflazionate dalle associazioni-definizioni, che insistono – tutte – sul tratto grandioso e imponente dell’opera: una deriva retorica che porta a sigle come “cupola gigantesca”, “cattedrale michelangiolesca“, “edificio tridimensionale di immenso volume”, “una delle più gigantesche sculture mai concepita da essere umano”: ecco un assaggio delle mille iperboli che hanno rafforzato l’immaginario collettivo su questa Sinfonia.
Va detto innanzitutto che la creazione della Quinta avvenne nel corso di molti anni: concezione, gestazione e stesura furono lunghe e complesse. Schizzi all’inizio del 1800; le prime pagine nel 1804 (nei taccuini del Fidelio e della Leonora); poi l’opera venne accantonata mentre componeva la Quarta. La Sinfonia Op. 67 fu stesa infine tra l’aprile del 1807 e l’aprile 1808 (curiosamente intrecciata alla antitetica Sesta).
Fu apprezzata dalla critica del tempo, a volte acida con Beethoven, proprio per via del lato eroico-flamboyant, per la personalità incisiva e maschia, per quel tratto para-militare che la fece perfino apparire avvolta in un alone patriottico.
Per quanto si cerchi di prendere le distanze da una pericolosa interpretazione simbolico-psicologica, non si può non riconoscere che una vena di “fatalismo eroico” suggelli ogni pagina; e che alla base della Sinfonia vi sia la filigrana di una lotta tesa a vincere il caos primigenio e raggiungere un trionfo stabile e assestato.
Un accenno merita pure la scelta della tonalità, l’impegnativo e autorevole Do minore: nella stessa tonalità furono impostate le opere più ambiziose (e arroganti) dell’universo beethoveniano (a cominciare dal Trio Op.1 n.3, alle Sonate Op 10 n.1, alla Patetica
Op. 13 al terzo Concerto per pianoforte Op.37, per concludere con la avveniristica Sonata Op.111).
Un breve tratteggio dei movimenti. L’Allegro iniziale è aperto da quelle quattro note che si sono trasformate in uno degli incipit più noti della musica classica: cellula lapidaria, audace, intimorente, che annuncia l’esordio del tragico confronto tra uomo e fato (Furtwaengler: “Non ci troviamo di fronte a un tema, nel senso corrente della parola, ma a quattro battute che svolgono il ruolo di un’epigrafe, di un titolo-sigla scolpito a caratteri cubitali”); e su questo inciso assiomatico si propaga una sovrumana manifestazione di energia e volontà. La lotta tra le due forze contrapposte è sempre tesa, battuta dopo battuta, incalzante, accanita ed aspra sino agli accordi finali.
L’Andante che segue presenta (scelta non convenzionale) un primo tema dolce consolante a cui fa seguito una parentesi centrale dal carattere trionfale, parentesi che assolve al compito di imprimere forza e speranza. Questo movimento centrale rappresenta il ristoro dopo la lotta, la rassegnazione; suggerisce “il respiro regolare del convalescente”. Mentre nuove ombre si addensano nell’ultima pagina dell’Andante, come a voler riproporre interrogativi non ancora risolti.
Nel terzo movimento lo Scherzo tradizionale è sostituito da un imponente Allegro: anche qui ombre enigmatiche e toni umoristici-sarcastici diffondono un sinistro malessere, sempre in agguato (vedi gli spettrali effetti dei contrabbassi, che rilanciano, anche se svuotato, il leggendario “tema del destino”).
A questo punto esplode, senza soluzione di continuità, il canto di liberazione dell’ultimo movimento. Il Finale squarcia le tenebre con la forza di un’energia abbagliante: dalla voragine delle forze cieche dell’inizio alla fatica della lotta degli episodi centrali, siamo giunti all’accecante forza della coscienza razionale (importantissima la Coda, che si assume la responsabilità di risolvere l’instabilità psicologica lasciata alle spalle). Il Finale della Quinta viene universalmente riconosciuto come il brano-capolavoro della Sinfonia, non solo per la densità emotiva quanto per la perfezione della logica serrata che in essa si manifesta.
Crocevia fondamentale: la Quinta può essere intesa come l’ideale prosecuzione della Terza (epopea dell’individuo) nonché come il preludio della Nona (epopea dell’umanità).
La Quinta e la Sesta furono presentate insieme, con numeri invertiti: la attuale Sesta con il n.5 e la Quinta con il n.6) nel famoso concerto del 22 dicembre 1808 al Theater an der Wien. Stranamente la Quinta presentava una doppia dedica, al principe Lobkowitz e al conte Razumowsky.
Concerto leggendario, che durò oltre le cinque ore. Un programma davvero ai limiti della patologia: la Pastorale, un’Aria per soprano e orchestra, una dozzina di Marce ed Inni, una parte (!) della Messa Op.86, il Concerto per pianoforte Op. 58, la Sesta seguita dalla Quinta, la Fantasia Op.80 e, per concludere, alcune improvvisazioni di Beethoven al pianoforte. Ascoltiamo un reportage di questo concerto dalla voce del musicologo Reichardt, di passaggio a Vienna in quei giorni. “Il povero Beethoven, che da quel concerto sperava di ricavare il primo ed unico guadagno di tutto l’anno aveva incontrato – e nell’organizzazione e nell’esecuzione – solamente opposizioni. Nessun appoggio. I cantanti e l’orchestra erano elementi totalmente disomogenei, poco amalgamati, e non avevano avuto nemmeno la decenza di sottoporsi alla prova generale di tutto il programma…
Quando fu il momento della Fantasia corale l’esecuzione andò a gambe all’aria a causa della totale scompagine dell’orchestra, al punto che Beethoven, acceso da un sacro furore mistico, dimenticò pubblico e teatro, e si mise a sbraitare. “Ricominciamo tutto da capo!”. Grande fu poi la sofferenza postuma, del compositore e dei suoi sostenitori”.
Edgar Vallora