Le date
Serie Red Planet – Serie Curiosity
Mozart Sinfonia n. 29
Schumann Concerto per violoncello e orchestra
Beethoven Sinfonia n. 7
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla 30) € 19,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla 40) € 13,50
Balconata € 10,50
Ridotti (Giovani under 26 ; Anziani over 60; Cral ; Associazioni Culturali ; Biblioteche ; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00
Secondo Settore (Platea dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50
Balconata € 8,50
Il Cast
Direttore Giordano Bellincampi
Violoncello Julian Steckel
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
WOLFGANG AMADEUS MOZART (1756 -1791)
Sinfonia n.29 KV201 in La Maggiore I.: Allegro moderato II.: Andante III.: Menuetto IV.: Allegro con spirito
ROBERT SCHUMANN (1810 -1856)
Concerto per Violoncello e orchestra in La Minore op.129 I.: Nicht zu schnell II.: Langsam III.: Sehr lebhaft
LUDWIG van BEETHOVEN (1770-1827)
Sinfonia n.7 op.92 in La Maggiore I.: Poco sostenuto – Vivace II.: Allegretto III.: Presto IV.: Allegro con brio
a cura di EDGAR VALLORA
Mozart – Sinfonia N.29 – Sinfonia “A Mezza Orchestra”, K201 (K 186A)
Il periodo salisburghese, compreso fra il marzo 1773 e il dicembre 1774 (che coincide con la data di inizio del viaggio a Monaco) non offre notizie biografiche che aiutino a far luce sull’evoluzione del percorso artistico di Mozart; ancora una volta è l’analisi delle composizioni a delineare i contorni della sua maturazione artistica e del sentiero da lui seguito. Dopo il gruppo delle Sinfonie salisburghesi (così riordinate cronologicamente: K184, K199, K166, K181, K182 e, gemma isolata, la K183) appare nel 1774 un nuovo terzetto di composizioni sinfoniche. Incastonata fra due compagne dalla personalità più sbiadita, la Sinfonia K201 riprende le conquiste stilistiche della K183; ed è considerata dalla critica – grazie alla sua variegata offerta di elementi scontrosi, estrosi, tenebrosi – un significativo “segnale di transizione” fra lo stile haydniano e quello “galante”, che caratterizzerà le opere di Mozart sino alla partenza per Parigi. Suggestiva l’immagine di Giorgio Pestelli: “In quest’opera lo stile galante è superato, ma dall’interno, con tecnica omeopatica, spingendolo a estremi di squisitezza melodica, di sofisticazione tematica e di fascinosa sensualità di combinazioni”. Si noterà, fin dal primo all’ascolto, come Mozart punti sullo sviluppo del materiale tematico senza lasciarsi assorbire, come nel periodo italiano, dall’imperturbabile bellezza delle melodie. Quanto all’impalcatura della Sinfonia è interessante prestare attenzione al legame (affinità spirituale e parentele tematiche) che collegano, pur all’interno di un’omogenea volontà costruttiva, il primo e l’ultimo movimento, e il secondo con il terzo. Un cenno all’impronta unica e inconfondibile dell’Allegro, così ricco di trapassi di tonalità: il cui tema (quel singolarissimo profilo che ricorda, trasportato in grafica, il tracciato di un elettrocardiogramma) è giustamente divenuto popolare, uno dei simboli della musica di Mozart. Un cenno all’Allegro finale, pagina dal tono sereno, a tratti parodistico, che corre verso una coda impetuosa (chiusa da un arpeggio che, alla moda di Haydn, resta sospeso nel vuoto). Ma dove l’attenzione emotiva di Mozart sembra concentrarsi è nel binomio centrale: nell’Andante che, per qualità del materiale tematico – un continuo sbocciare di controcanti, talvolta così rilevanti da acquisire l’importanza di soggetti indipendenti – ha lo spessore di un grande Adagio contemplativo; e nel terzo movimento, uno dei Minuetti più personali e meno “cortigiani” di Mozart. Anche la conclusione di questo brano è unconventional: una burbera fanfara dei corni e degli oboi, sul tema del Minuetto ormai ridotto alla sua ossatura ritmica. Nonostante il padre Leopold considerasse queste Sinfonie con il metro salisburghese (“Per quanto tu possa essere stato contento scrivendole, (…) io sarei ben lieto che nessuno le avesse ascoltate e che nessuno le ascolti mai” … Complesso di Laio?!), si suppone che Mozart non fosse stato sbilanciato da questo infelice commento. Si sa con certezza che, ancora nel periodo viennese del 1781, Wolfgang le proponeva a cuor leggero nelle sue Accademie. R. Schumann – Concerto per violoncello e orchestra in La minore, Op. 129 (Due parole, in apertura, sul violoncello quale personaggio-solista di un Concerto. Alla fine del Seicento, archiviato il logoro ruolo di “basso continuo”, il violoncello – grazie anche agli smaglianti sviluppi della liuteria – aveva conquistato autonomia e indipendenza, con personalità timbrica e sonora del tutto personali; in seguito, nell’epoca barocca, aveva continuato il suo cammino “imparando l’italiano”: Bologna, Venezia, Roma erano culle di affermatissime scuole, veri punti di riferimento, ben più che le sorelle austro-tedesche. Si può quindi dire che i primi veri concerti per violoncello, finemente congegnati, nacquero in Italia, dove si costruì una importante letteratura musicale: che tendeva ad una minore esposizione “mediatica” dello strumento ma, al contempo, ad una maggiore intensità comunicativa, una indiscutibile cantabilità del protagonista ed una equilibrata compartecipazione degli altri strumenti (vedi i Concerti di Vivaldi, Tartini, Boccherini). Ma, paradossalmente, per altri centocinquant’anni (nonostante le evoluzioni stilistiche in altre aree compositive) il Concerto per violoncello mantenne fattezze classiche; scompigliate solamente dall’irrompere dei fumi del romanticismo. Un balzo folle, dunque, da quel single, compìto ed educato, che era stato il Concerto di Haydn, a quella famiglia allargata – personalità forti ed esaltate – dei concerti romantici per eccellenza (da Schumann a Saint-Saëns, a Lalo, Dvoøák, Elgar). Note storico-biografiche. A parte i frammenti e gli abbozzi, sono poche le composizioni di Schumann per strumento solista: il Concerto per pianoforte op. 54 (1841- 46); il Concerto per cello che stiamo ascoltando; in ultimo quello per violino, rimasto senza numero d’opera (1853). Se la partitura per pianoforte appartiene ad un anno ancora sereno (illuminato dalle nozze con Clara e dall’ottimismo per un’affermazione professionale), se le opere di Dresda sono ancora umide di una felicità sognata.
Schumann – Concerto per violoncello e orchestra in La minore, Op. 129
Concerto per violoncello nasce, come si dice, “al di là della soglia”. Nel settembre 1850 era avvenuta l’ultima svolta nella vita di Robert e di Clara: la coppia e i (troppi) figli erano trasmigrati a Düsseldorf, una cittadina apparentemente inoffensiva dove invece si sarebbe consumata la tragedia di un destino devastante (dalla malattia all’udito al tentato suicidio, dalla follia alla morte: in meno di quattro anni). Ma al tempo in cui nacque l’op. 129, la follia era soltanto una larva in agguato (e, come buffamente suggeriscono i commentatori dell’ottocento, la malattia venerea “irradiava ancora una sua demoniaca genialità”): nulla ancora della caduta, delle tenebre, del transito, di “quel lugubre Acheronte, del quale sarà testimone il tombale Concerto per violino”. La composizione del Concerto per violoncello coincide col periodo in cui Schumann assunse l’incarico di direttore dell’orchestra e del coro di Düsseldorf: quattro anni – dalla stagione del 1850 a quella del 1855 – di fanatica attività non solo dal punto di vista compositivo, ma anche di direttore d’orchestra e di organizzatore. Bilancio creativo tutt’altro che modesto (la Sinfonia “Renana”, alcune Ouvertures di rilievo, i Phantasiestücke, la Messa Op. 147, il Requiem Op. 148); ma un bilancio esistenziale decisamente amaro. Come direttore d’orchestra Robert non riuscì a conquistare i favori della Casta (“musicista troppo riservato, chiuso in se stesso e lontano da ogni virtuosismo della bacchetta”) e la soluzione di compromesso che ne seguì (far dirigere a Schumann esclusivamente i concerti dove presentava dei suoi lavori!) non fece che minare un animo già devastato. Proposte umilianti, un lavoro intellettuale bulimico, la comparsa delle prime insidie fisiche e psichiche: un mix diabolico di angoscia, depressione, di forme mistiche e allucinatorie. Il tutto condito da un’ossessiva rincorsa a fenomeni paranormali e a sedute di spiritismo. (Clara confessa candidamente: “Robert è ormai incantato da queste forze miracolose […], dialoga in continuo con l’Aldilà. È felice solo più quando riesce a far muovere il tavolino. Subito si sente bene e piacevolmente eccitato (…) poi crolla. La malattia lo sta divorando e riducendo al silenzio”). Travaglio anche sul piano compositivo, parlando dell’Op.129: l’autore, che in gioventù aveva studiato questo strumento, non “si sentiva” un violoncellista completo; e durante la stesura del concerto pare si fosse piegato all’inquietante tutela di un virtuoso dello strumento (“tanto abile nella tastiera, quanto asino nella lungimiranza compositiva”). Sofferenze anche qui. Schumann iniziò il Concerto il 10 ottobre 1850; la bozza fu pronta in sei giorni e l’intera orchestrazione in altri otto giorni. (Composizione estemporanea, sì, ma amata nel tempo: se diamo retta a Clara, che ammise che il consorte era ancora ossessionato, dopo anni, dalle correzioni a questo lavoro: quando i demoni dell’anima lo braccavano ormai con allucinazioni continue). Travaglio infine nella presentazione. Il 23 marzo 1851 fu il violoncellista Christian Reimers a farlo conoscere al pubblico, ma in forma “ridotta”, col solo accompagnamento di pianoforte. Mentre, in vista di una prima con orchestra (a maggio) Schumann fece la corte al grande Robert Bockmühl: alleanza che però si chiuse dopo poche prove, entrambi insofferenti ai reciproci consigli. Bisognerà aspettare l’aprile 1860 per avere notizia della prima esecuzione pubblica. Trama del op.129. La composizione si articola in tre movimenti che si susseguono senza soluzione di continuità; tre tempi che si inanellano, rendendo liquida la sintassi musicale tanto da indurre a parlare, letteralmente, di “movimenti”. (Attenzione, i tempi sono indicati con termini tedeschi, non più italiani: “l’uso della lingua tedesca, con le sue inevitabili allusioni pietistiche e con il suo suggello romantico, induce l’ascoltatore a dare rilievo all’interiorità di questa musica”). Il Concerto si apre con un accordo dolce-fermo, nella tonalità di La minore, affidato ai legni; e dopo una manciata di battute preparatorie il tema si libera e si alza in volo, un aquilone. Manca dunque la classica prima-parte orchestrale (grande analogia con l’incipit, ma anche il mood, del Concerto di Mendelssohn!). Il tema è un Grande Tema (cantabile, generoso, rapsodico, slanciato, curvilineo, nervoso, passionale, caldo: di tutto si è scritto, per definirlo) e tornerà più volte nel corso del concerto. Il tema si propaga, si fa lungo, le frasi si spezzano in semifrasi, le idee rotolano le une nelle altre. Ne risulta una linea variegata, irregolarmente ondulata, ma mai spezzata: l’elettrocardiogramma di un cuore in palpitazione, non disperato. Nessun antagonismo, di conseguenza, fra solista e orchestra: il dialogo è continuo, rassicurante, di un’intesa quasi cameristica. E così pure il suono orchestrale, timbricamente omogeneo, è particolarmente adatto ad esprimere il sentimento intimistico di questo lato schumanniano. Anche nel Langsam (l’Adagio), legato senza cesura al primo tempo mediante una modulazione-cerniera guidata dal solista, il tema appare subito, in forma di Lied, carico di pathos. La meditazione che racchiude la pagina – quel canto del solista che si libra nelle galassie dei fiati – secondo molti critici paralizza l’ascoltatore, tanto è intensa la carica espressiva (“un caso in cui la musica è un allucinogeno che fa bene al corpo e allo spirito”); e lo conduce gradualmente verso una sorta di estasi metafisica. Anche in questo movimento si susseguono brevi e guizzanti incisi, del solista e dell’orchestra, “alternati come il bianco e il nero sulla scacchiera”; saette che si rapprendono e si dissolvono in continuazione. Poi una turbata cadenza del solista (Schnell und schneller) fa sprofondare nel terzo movimento. Il Sehr lebhaft è pagina tanto ardua tecnicamente quanto estrosa formalmente, bizzarra psicologicamente: così da ricordare lo Schumann sognatore delle rapsodiche composizioni per pianoforte. Il violoncello non perde mai la sua tempra, rivendica battuta dopo battuta diritti e doveri; affronta una temeraria cadenza, non contrassegnata da alcun virtuosismo artificiale, e guida la stretta finale con carattere rabbioso e gioioso ad un tempo. Affermando, incredibile, la vittoria della tonalità di La maggiore su quella del La minore d’impianto. Punto di forza del concerto. La struttura in tre movimenti, legati e collegati internamente, riflette una delle più forti intuizioni del genio di Schumann (quella vocazione di ciclicità che si sarebbe, di lì a poco, presentata in maniera dirompente nella Sonata per pianoforte di Liszt; e che sarà terreno di sperimentazione in tutto il percorso di Brahms). Da sempre Schumann aveva mostrato interesse nei confronti del corto circuito tra le parti di un lavoro; ma nel Concerto per violoncello tenta una formula ancora più radicale. Qui si passa da un movimento all’altro senza nemmeno rendersene conto; qui l’élan vital del tema-principe tende un arco su tutta l’opera, anzi, allunga i tentacoli sui movimenti che seguono. (E, se vogliamo, la genialità del compositore emerge proprio nelle sezioni di transizione: vedi la riflessione ipnotica che apre il secondo movimento o la cocciuta accelerazione che sostiene il Finale). Per finire, chiediamo in prestito a Quirino Principe una delle sue illuminate “visioni”: “Schumann e la sua musica sono termini di straniamento: vita e arte sono in lui quasi sempre un’antitesi, e sovente anche all’interno di un’opera si realizza un’antifrasi, nel senso che il significato finale nega o rovescia l’intento originario del compositore. Tal è la splendida Neujahr-kantate, o la dolorosissima Genoveva, il cui lieto fine non fa altro che accentuare il carattere desolato di quella musica. Nel Concerto per violoncello accade l’inverso: l’Io riversa sul mondo la propria pena, e il dilagare alluvionale – dall’interiorità dell’anima allo spazio esterno – della visione nera dell’esistenza si avverte icasticamente sin dalla prima semifrase del primo tempo, con l’ideogramma sonoro della caduta, della decomposizione e dell’estinzione”.
Beethoven – Sinfonia N. 7, Op. 92
Genesi della sinfonia. Quattro anni separano la “Settima” dalla “Sesta”: anni di capolavori in vari campi (basti pensare al Concerto per pianoforte “Imperatore”, alla Sonata degli “Addii”, al Trio dell’”Arciduca”) ma caratterizzati da un insolito “vuoto” sinfonico: quattro anni votati alla ricerca verso l’affrancamento da problemi di contenuti e verso la conquista di un linguaggio musicale assoluto. L’attenuarsi di certi contrasti dialettici (visceralmente beethoveniani) sino ad allora imperanti coincidono con il parallelo nascere di valori Altri, quali la polifonia e l’elaborazione strutturale, elementi che saranno dispiegati negli anni a venire. La “Settima” fu abbozzata prima del 1811 ma la definitiva conclusione della partitura avvenne nel maggio del 1812. Sul piano della vita personale questo periodo contempla (accanto alla nascita dell’amitiée amoureuse con Bettina Brentano) la rottura sentimentale con la contessa Therese von Brunsvik, evento che tatuerà irrimediabilmente la già fragile-morbosa sensibilità del compositore. Mai come in questo caso, tuttavia, l’espressione musicale non risulta contaminata dai tormenti della vita privata. Il carattere della sinfonia. La “Settima” si presenta libera da sottotitoli, sfide, programmi o finalità (che, guarda caso, si “appiccicheranno” in occasione del debutto); e non offre il benché minimo riferimento personale. L’unica etichetta che l’ha contrassegnata riguarda quella (per altro volgare) di “apoteosi della danza”, definizione coniata nientemeno che da Wagner (il quale in una delle sere del suo ultimo inverno a Venezia, a Palazzo Vendramin, ebbe il coraggio di ballare la Sinfonia, presentata da Listz in una sua riduzione per pianoforte!). I commentatori del nostro tempo hanno sottolineato, al contrario, il carattere essenzialmente “ritmico-astratto” di quest’opera, ritmo cha appare sotto aspetti, luci e intenzioni differenti dal passato e che resta il marchio inconfondibile della “Settima”. Il ritmo fa sentire la sua presenza in ogni angolo della Sinfonia, asservito alle differenti tipologie dei movimenti: a volte perfino sovraesposto nei riguardi delle parti più deboli e sognanti. Il ritmo, dunque, come ossatura costitutiva, spina dorsale, emblema della “Settima”. La struttura. Beethoven apre la Sinfonia con una Introduzione di rilievo – “larga e pomposa”, secondo Berlioz -, forse la più lunga della sua produzione sinfonica: un ultimo ricorso allo “stratagemma preparatorio” utilizzato nelle prime Sinfonie, abbandonato poi nelle ultime. Si presti attenzione al subitaneo avvento del ritmo nel Vivace che vi si innesta: un ritmo ternario (simile alla giga) che nel suo esplodere astratto allontana l’apparizione del tema sino alla quinta battuta; e così pure nello sviluppo, il ritmo si palesa in una serie di motivi variati, per cui rimane ancora l’elemento di primo piano. A questo punto, onde continuare a mantenere in primo piano l’elemento ritmico (seppur sotto sfumature dissimili), Beethoven strategicamente sostituisce il tipico Andante con un Allegretto (scelta che caratterizzerà anche l’”Ottava”). Sfuggente ma insuperabile il fascino di questa pagina, incantata, misteriosa, irrequieta nella sua continua oscillazione tra maggiore e minore: fascino creato, non tanto dai temi, quanto dal loro incrociarsi, dal gioco armonico, dalla flessione continua del ritmo. Il contrasto ricercato da Beethoven è ottenuto con l’introduzione di una idealizzata Marcia funebre, dal profilo semplice ma marcatissimo cui fa da contraltare una tenera melodia consolatrice dei fiati. Immaginabile che il ritmo – vero mattatore di questa Sinfonia – trovi negli ultimi due movimenti un risalto ancora più vistoso. Prima nel Presto, dal carattere di Scherzo, il più brillante ed esteso delle nove Sinfonie, animato da vis autentica, vitale giocosità, da un’allegria che a tratti si fa spavalderia. In ultimo, nell’Allegro finale, pagina in cui si susseguono, con rapido succedersi, l’esposizione di un tema imperioso, un passaggio contrappuntistico, un tema leggero ma puntualmente ritmato; e infine una Coda trattata come una fanfara sicura di sé. L’Op.92 è considerata un ponte indispensabile verso le due ultime Sinfonie: l’unità della struttura e l’economia dei mezzi utilizzati la rendono una delle più interessanti, organiche e complete, anticipando nuove strade. A parte il successo tributato dal pubblico, quest’opera conquistò l’autore stesso (solitamente incontentabile), il quale in una lettera confessò “di ritenere la Sinfonia in La una delle mie opere migliori”. La “Settima” fu offerta al conte Moritz von Fries, già dedicatario di importanti Sonate per violino. Venne presentata al pubblico nel dicembre 1813 all’Università di Vienna, in un concerto di beneficenza patriottica. Due commenti. Berlioz: “Capolavoro di abilità tecnica, di gusto, fantasia, di scienza e di invenzione”. Della Corte-Pannain: “La Settima è la più luminosa e smagliante tra le Sinfonie di Beethoven: come la Quarta la più serena, la Sesta la più sensuale e lirica”. Carli Ballola: “La Settima (…) è il coronamento di una gioiosa “libertà” creativa, acquistata attraverso il superamento della fase cruciale dell’individualismo eroico e del sublime assillo dell’urgenza contenutistica”. Piccole curiosità. Le prime due esecuzioni della “Settima” avvennero sotto la direzione dell’autore l’8 e il 12 dicembre 1813 nell’Aula magna dell’Università di Vienna, in occasione di due serate di beneficenza a favore dei soldati austriaci e bavaresi rimasti invalidi nella battaglia di Hanau. I concerti furono organizzati da Nepomuk Malzel, quell’eccentrico personaggio viennese, nominato “meccanico di corte”, inventore di mille diavolerie (cornetti acustici, boites-à-musique, automates, il celebre “panharmonicon” ecc.). Non ultimo, inventore del metronomo… Pare che i migliori strumentisti di Vienna fecero a gara per partecipare a questo evento: ogni musicista del tempo – così scrissero i giornali del tempo – voleva manifestare i sentimenti di gratitudine per i risultati ottenuti dalla nazione tedesca contro Napoleone. L’orchestra, la celebrazione, l’esecuzione riuscirono a scatenare un vero fanatismo, esaltata perfino la recensione sul giornale musicale (di solito acidulo), l’”Allgemeine Musikalische Zeitung”. Ma il trionfo reale fu merito, pensiamo, anche della piccola nuova Sinfonia.