70ª Stagione Sinfonica Orchestra I Pomeriggi Musicali - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 12 febbraio 2015
Ore: 10:00*
giovedì 12 febbraio 2015
Ore: 21:00
sabato 14 febbraio 2015
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Villa Lobos, Bachiana brasilera n. 9
Piazzolla, Le quattro stagioni
Beethoven, Sinfonia n. 2, op. 36

Biglietteria

BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla 30): € 19,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla 40): € 13,50 + prevendita
Balconata: € 10,50 + prevendita

Ridotti (Giovani under 26; Anziani over 60; Cral; Ass. Culturali, Biblioteche; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50 + prevendita
Balconata € 8,50 + prevendita

CARNET LIBERI DI SCEGLIERE:
da oggi sei libero di abbonarti a 6, 8 o 10 concerti della Stagione scegliendo in base alle tue preferenze e alle tue disponibilità senza dover rinunciare al vantaggio economico dell’abbonamento (i carnet costano da €. 56,40 a €. 163,00 a seconda del numero di concerti selezionati)

Per informazioni e prenotazioni:
promozione@ipomeriggi.it 02/87905267

Il Cast

Direttore: Alvise Casellati
Violino: Marc Bouchkov
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

a cura di Claudia Ferrari

Protagonisti involontari di questa serata, insieme a Beethoven, con cui si chiuderà il concerto, sono due compositori le cui coordinate biografiche sono ben piantate nel cuore della vecchia Europa: Johann Sebastian Bach e Antonio Vivaldi. I loro celebri nomi vivono stasera all’interno di quelli di due compositori lontanissimi da loro (geograficamente e non solo): Heitor Villa-Lobos e Astor Piazzolla.

Villa-Lobos, nato a Rio de Janeiro nel 1887 (città in cui poi morirà, nel 1959), si forma musicalmente quasi totalmente da autodidatta; basa i suoi studi sul Clavicembalo ben temperato di Bach, che negli anni non smetterà mai di apprezzare, trovando nel compositore tedesco un modello di riferimento. Di famiglia borghese ma di indole rivoluzionaria, impara a suonare la chitarra con i Choros, un gruppo di musicisti popolari che frequentava di nascosto dal padre. Il viaggio è da sempre una componente fondamentale per la sua formazione umana e musicale: a soli diciotto anni visita la parte est e sud del suo Paese e raggiunge anche l’Amazzonia.

Studia diversi strumenti, tra cui il pianoforte, il sassofono, il violoncello, con cui ha la possibilità di diventare un concertista e punta di diamante della nuova musica moderna brasiliana, partecipando con altri artisti alla Settimana dell’arte moderna nel 1922. È  con la chitarra, però, che si palesa il suo tratto di vero innovatore nella scrittura.

Villa-Lobos aveva scelto per sé il soprannome di “indiano bianco”, a evidenziare le sue origini indiane da parte di madre; evidentemente il compositore trovava nel meticciato di provenienze che formavano sé stesso e anche il suo intero Paese una ricchezza e con la sua musica lavorò per esaltarne i tratti.

Le  Bachianas Brasileiras sono un chiaro esempio di questa concezione della musica, radicata ai tratti del folklore, della musica popolare, ma costruita sui pilastri della grande tradizione europea, che il compositore aveva conosciuto a fondo negli anni tra il 1923 e il 1930 che trascorse a Parigi, in cui la sua musica ebbe successo e lui venne consacrato alla popolarità, all’estero e in patria.

Delle nove composizioni che formano il ciclo Bachianas Brasileiras  questa sera ascolteremo l’ultima, composta nel 1945, ben quindici anni dopo la prima.

La musica di Bach viene dall’infinito per infiltrarsi all’interno della musica folklorica” affermava Villa-Lobos, e in questa composizione in due movimenti il suo pensiero prende forma. La prima parte (Preludio) ci conduce in un’atmosfera misteriosa, che sottende una certa tensione non manifesta: quasi un’inquietudine del colore della nostalgia del passato – forse doloroso – o di un futuro senza rosee promesse.  Nel secondo movimento (Fuga) un nuovo tema, vigoroso e intenso, stravolge il clima di riflessione che regnava nel preludio: la tensione prima solo percepibile nelle sfumature di lunghe arcate qui esplode nel tema esposto dal violoncello e riproposto contrappuntisticamente dagli altri strumenti. Il ritmo inusuale di 11/8 dà una connotazione quasi selvaggia al tema derivato dalla musica tradizionale brasiliana, che nello sviluppo diventa drammatico, raggiungendo un climax molto espressivo in cui i violini primi, tragici nella lunga discesa di note tenute sembrano lottare con l’incessante incedere di contrabbasso e violoncelli.

Qui Bach rivive, nel rigore della forma, nella scrittura, ma anche nell’elaborazione tematica, in cui Villa-Lobos esprime la sua poliedrica personalità.

La provenienza da una terra in cui convivono diverse culture lega Villa-Lobos a Astor Piazzolla (Mar de la Plata, 1921 – Buenos Aires, 1992), altro autore figlio dell’America Latina, continente di passioni ardenti e contraddizioni disperate.

Las cuatro estaciones porteñas (1964-1970) sono state scritte duecentocinquanta anni dopo le Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi, manifesto di un barocco veneziano nel pieno del suo splendore. Cercare di farne un paragone sistematico, ricercando similitudini e contrasti tra i due compositori sarebbe un’operazione priva di senso, poiché il titolo accomuna i due cicli ma non certo le intenzioni espressive. Quello di Piazzolla è un omaggio a Vivaldi, nella scelta della struttura e nelle citazioni – spesso talmente nascoste da risultare irriconoscibili – che il compositore fa in ogni parte delle sue Stagioni, della corrispondente Stagione vivaldiana. Ma le Estaciones di Piazzolla non sono semplicemente stagioni, ma Estaciones porteñas, ossia stagioni del porto di Buenos Aires, culla delle origini del tango argentino e piazza di scambi culturali internazionali, teatro di scontri e fusioni delle tradizioni sudamericane con quelle africane e ispaniche. Queste Stagioni sono proprio la rappresentazione quasi teatrale della ricerca incessante di un equilibrio tra il fuoco dei ritmi di danza e lo sviluppo delle melodie di temi a tratti liricheggianti, più vicini alla delicatezza di una rassicurante melodia cantabile che non all’irruenza di un folklore dai colori del sud. Eppure in un attimo il compositore riesce a dare vita al calore del tango, che si libera dalle strutture tipiche della tradizione per spingersi in strutture più sciolte e ardite. Anche le armonie stupiscono: Piazzolla non esita a impiegare dissonanze dalle tinte sature, che scorrono su ritmi spesso irregolari. Travolge sia nella liricità e nella chiarezza della forma, vicina alla musica colta europea, che nei momenti più liberi, vicini al jazz,  pervasi dalla tradizione della musica folklorica argentina. Ne Las cuatro estaciones porteñas il compositore non accosta la tradizione popolare alla musica colta europea, ma ne intreccia le forme, i ritmi e i sapori, in uno stile inconfondibile che ha fatto di Astor Piazzolla una delle firme più celebri al grande pubblico nel secolo scorso.

Non con un riferimento all’Europa, bensì con uno dei più grandi nomi della musica europea si chiude il concerto. Nel 1803, quando fu presentata al pubblico per la prima volta a Vienna diretta dall’autore stesso, la Seconda Sinfonia in Re Maggiore, op. 36, non venne compresa. In alcune recensioni del tempo si legge di quanto fosse considerata troppo lunga, elaborata; se ne apprezzava l’invenzione tematica ma s’arrivava addirittura a descrivere come “troppo rumoroso” il finale.

Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770 – Vienna, 1827) scrive quest’opera sulle basi strumentali della tradizione sinfonica haydniana: l’orchestra è la stessa, così come la divisione in quattro movimenti; ma Beethoven – come usa affermare nei suoi lunghi monologhi un celebre cantautore italiano – era Beethoven!

Così, l’Adagio molto iniziale, dopo poche battute di grande compostezza, pervase da una certa drammaticità, si veste di abiti leggeri di temi sempre nuovi, quasi solo presentati e subito scomparsi, seguiti da nuove idee, frammenti melodici dai colori vivi, in cui l’orchestra prende vita e sembra pervasa da una libertà espressiva insolita per un adagio iniziale. Si passa dall’introduzione all’Allegro con brio senza soluzione di continuità: violini e viole propongono il breve tema da cui esploderà tutta l’energia che pervade questo primo movimento in forma sonata, in cui Beethoven non smette di stupire, riuscendo a presentare idee tematiche sempre originali, in cui non si perde mai il vigore iniziale; dai brevi tratti pervasi da una tensione drammatica, cui rinasce poi con vitalità il tema agli archi. Il Larghetto che segue ricorda atmosfere settecentesche di calma e serenità, in cui i dialoghi orchestrali hanno un perfetto equilibrio. Degna di nota è la coda alla fine di questo movimento, in cui gli archi con interventi in fortissimo sembrano voler preparare al movimento successivo, il terzo, uno Scherzo: Beethoven si svincola dalla tradizione settecentesca che qui vorrebbe un Minuetto. Nel primo e nel secondo movimento il focus era prevalentemente melodico e armonico, qui è ritmico: le linee sono semplici, ma l’orchestrazione è magistrale e rende al meglio l’atmosfera giocosa nei dialoghi tra le varie famiglie strumentali, conducendo l’ascoltatore al Finale (Allegro molto). Se i critici contemporanei di Beethoven l’avevano trovato troppo rumoroso era sicuramente perché nella tradizione sinfonica settecentesca avevano potuto conoscere solo un accenno di temi trattati in maniera leggera, fulminea e energica. Qui Beethoven sconvolge le aspettative dell’ascoltatore, trascinandolo in un gioco di contrasti, in una corsa rapida e turbolenta, più che mai energica, sia nei passaggi pervasi dalla serenità che in quelli dai toni più drammatici, fino al finale in cui gli interventi dei legni lasciano spazio agli archi che concludono la sinfonia, in cui noi ora, a due secoli di distanza, possiamo riconoscere il vero grande genio beethoveniano.

Perché Casellati: a concerto inconsueto, direttore dalla storia eccezionale. Diplomato in violino a Padova, brillante avvocato a New York, studente in composizione e direzione d’orchestra,  si butta in quest’ultima professione, con intenso successo e conserva tutta la sua curiosa originalità.

Perché Bouchkov: è al violino un conversatore naturale e convincente, sembra impegnato in colloquio con chi passo passo è introdotto nell’arte di ascoltare, restando di buon umore, con una logica affascinante.