Le date
Kodály, Danze di Galanta
Tutino, Vatel, su testo di Angelo Callipo – Commissione I Pomeriggi Musicali. Prima esecuzione assoluta.
Ghedini, Concerto dell’albatro per violino, violoncello, pianoforte, voce recitante e orchestra
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla 30): € 19,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla 40): € 13,50 + prevendita
Balconata: € 10,50 + prevendita
Ridotti (Giovani under 26; Anziani over 60; Cral; Ass. Culturali, Biblioteche; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50 + prevendita
Balconata € 8,50 + prevendita
CARNET LIBERI DI SCEGLIERE:
da oggi sei libero di abbonarti a 6, 8 o 10 concerti della Stagione scegliendo in base alle tue preferenze e alle tue disponibilità senza dover rinunciare al vantaggio economico dell’abbonamento (i carnet costano da €. 56,40 a €. 163,00 a seconda del numero di concerti selezionati)
Per informazioni e prenotazioni:
promozione@ipomeriggi.it 02/87905267
Il Cast
Voce recitante: Alfonso Antoniozzi
Direttore: Andrea Battistoni
Trio Modigliani
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Note di sala
Zoltán Kodály
(Kecskemét, 1882 – Budapest, 1967)
Danze di Galanta
Durata: 34’
Allegro non troppo e molto maestoso – Allegro con spirito
Andantino semplice – Prestissimo
Allegro con fuoco
* * *
Marco Tutino
(Milano, 1954)
Vatel, per voce recitante e orchestra (Commissione I Pomeriggi Musicali, prima esecuzione assoluta)
Durata: 35’
Andante un poco maestoso – Allegro molto vivace
Larghetto
Scherzo: molto vivace
Allegro animato e grazioso
Giorgio Federigo Ghedini
(Cuneo, 1892 – Nervi, 1965)
Concerto dell’albatro per violino, violoncello, pianoforte, voce recitante
Saggio di Lorenzo Arruga
Ieri, oggi, moderno, antico: vicini o lontani fra loro? E a noi?
L’orchestra attacca e ci lancia un segnale. Come l’incipit dell’immortale Toccata e fuga in Re minore di Bach. Come l’inizio perentorio dell’ultimo tempo della Sinfonia dal Nuovo Mondo di Dvorak. Prima ancora di dirci se annuncia un pezzo tradizionale o atonale, da godere o soffrire, da capire immediatamente o da cercare nella memoria per decifrarlo, ci si impone come una condizione, una legge. Ci vengono forse in mente i segnali sonori e gestuali che Truffaut, negli Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg insegnava agli umani per comunicare con gli extraterrestri. Non per nulla consistevano in un metodo didattico di Zoltán Kodály, autore di questo nostro primo brano, le Danze di Galànta. Un alfabeto, prima ancora che un linguaggio, che sembrava ai primordi della natura e della storia, e che si legava alle ricerche nelle tradizionali musiche popolari non scritte dell’Ungheria, compiuta fin da giovane in amicizia con il grande Béla Bartók.
Galànta era una cittadina slovacca, vicina all’Ungheria, fra Budapest e Vienna, dove Kodály era vissuto da ragazzo, e s’era formato in quello stile classico che aveva continuato ad apprendere in casa dal padre ferroviere ma violinista e dalla madre casalinga ma pianista; là aveva anche ricevuto i primi sussulti d’emozione a un suono d’orchestra ascoltando la celebre banda di zingari del luogo. Passati i sessant’anni, nel 1933, ormai musicista internazionale prestigioso, aveva deciso di dedicare a quella città questa composizione, in occasione del cinquantesimo anno della Filarmonica di Budapest. E questi temi, esposti, incatenati con l’autorevolezza d’un maestro di cultura, di vita, e un compositore di grande talento, procedono senza lasciarci staccare dal discorso, idee brevi e lapidarie o arabeschi severi, passati dai violoncelli ai corni con strumenti in dialogo e contrasto, complicità e sopraffazioni o affilati nel gioco acuto di ottavino, glockenspiel e triangolo fra gli armonici degli archi, via via arricchendosi, danzando ed incalzando fino all’ultimo tempo a perdifiato, per spezzarsi di colpo come un in urto inesorabile.
Noi ascoltiamo la musica del Novecento, così diversa proprio ai nostri orecchi da quella dell’Ottocento e con distacco rapido come non era mai avvenuto nei secoli precedenti. Ciò che ci separa dalla musica d’oggi è proprio la difficoltà di assorbimento per le possibilità sempre più ampie della tecnica – come avviene anche nella scienza e nello sport – e nella mancanza d’uno sviluppo graduale della nostra esperienza d’ascolto. Quest’oggi ascoltiamo musica che ha portato novità espressive e morali e linguistiche nel Novecento portandosi dietro però gli ascoltatori. Per altri bisogna invece compiere ancora adesso un lavoro di conquista. In Italia siamo poco formati nella musica e siamo invece geneticamente tifosi: sembrano scale di merito, qualcuno dice che chi ha cambiato di più linguaggio è più bravo, qualcun altro che chi non ci emoziona sùbito è più scadente; ma si tratta di percorsi diversi, immisurabili. Anche nell’esprimere il mondo che cambia, ci sono differenze notevoli. Come si misurano le distanze fra gli eventi, e come fra le creazioni artistiche? Dove lo sconvolgimento di linguaggi non c’è stato, si avverte che il mondo è cambiato, ma senza la durezza dell’impatto per accogliere la nuova esperienza. Fra le Danze di Galanta, del 1933 o il Concerto dell’Albatro del 1945 e oggi passano 82 e 70 anni, come fra il famoso Concerto per pianoforte K467 di Mozart, quello dall’Adagio rapinoso, che il film Elvira Madigan rese popolare e adesso è più popolare del film, e l’Aida di Verdi, o come invece fra Lucia di Lammermoor e La vedova allegra.? 82 anni prima delle Danze di Galànta nasceva il Rigoletto, 70 prima del Concerto dell’Albatro Brahms stava finendo la Prima Sinfonia. Il fatto è che adesso cambiano anche i parametri di giudizio. Adesso è come se fosse crollato uno scaffale di libri e ci trovassimo in mezzo, tutto mescolato e sovrapposto, a portata di mano o finito chissà dove. Il tempo della musica risponde veramente al tempo dei calendari? Ed è importante saperlo?
Oggi ascoltiamo una novità. Io penso che per ciascuna ci siano innumerevoli modi di accostarla. Per le più dichiaratamente rivoluzionarie è bene soprattutto, forse, sapere che cosa non aspettarci. Se uno voleva guardare un Picasso, anni fa, spesso doveva rinunciare a fatica agli occhi sopra il naso ed al naso sopra la bocca. Questo naturalmente non significava che chi metteva un occhio al posto della bocca fosse più bravo degli altri. Voleva dire che cercava di esprimere altro, a cominciare dal guardare da diversi punti di vista contemporaneamente. Se uno cerca in Miles Davis le melodie di Puccini perde tempo, deve aspettarsi la voluttà del suono della tromba e la libertà tipica del jazz. Ma altre volte è anche una buona strada ascoltare a testa sgombra, senza l’obbligo di giudicare, e con curiosità.
Marco Tutino è un musicista che parte dall’emozione immediata che può portare. Probabilmente il metodo migliore, che qui suggeriamo, è quello di non sapere nulla sulla nuova composizione, tanto più che la guida della voce recitante ci porta chiarezza. Sentire il piacere eventuale e comunque il rischio benedetto del primo ascolto. Poi pensarci su, seguendo ad esempio la preziosa nota che l’autore ci ha mandato e che trovate nei nostri Pilucchi. Il soggetto è attraente, e fa molto Expo, la fiera milanese e si spera internazionale del cibo ai nostri giorni.
Per il Concerto ddll’Albatro, invece, un’emozione nuova eccezionale si prova, credo, al riascoltarlo, anche dopo una sola volta. Si tratta d’un’attesa. Aspettare l’entrata della voce recitante. E’ il memorabile attacco “La prima volta che ho veduto un albatro”, da Moby Dyck di Melville. E’ come se il racconto, finalmente, coagulasse (anzi no: offrisse loro una traccia) le immagini e i pensieri che la mente ha elaborato o ha lasciato formarsi fino a quel momento, per lunghi minuti. Immagini di stupefazione, carezze o brusii d’incognite sensazioni, insinuate dal trio solista che ora si lascia aizzare dal pizzicato degli archi, ora s’acqueta quasi cercando un’estasi, ora lascia che s’alzino i tromboni e l’orchestra tutta…
Uccello dalle grandi ali, spesso bianco, in isole ventose, proprio per i suoi caratteri veri, l’albatro è un mito diffuso degli ultimi secoli.
Giorgio Federico Ghedini, maestro di quel secolo, uomo capace di suscitare climi di rarefatta spiritualità come di inquietudini, che sa giocare con armonia e logica le componenti della dottrina musicale del tuo tempo, sembra scrivere un racconto, ma, come per noi che lo seguiamo, come per il Capitano Achab che invano attende la balena bianca, i pensieri e le stesse immagini si stemperano in realtà sonore che si rifrangono in se stesse, e proprio queste sonorità e queste rispondenze ci toccano come una verità con il paradosso d’apparire ai confini del mondo e di specchiarci.
Pilucchi
Tutino dice, di Tutino…
Ecco la nota sul suo pezzo in programma che il maestro Tutino ci ha gentilmente mandato:
“Vatel, appartiene al genere del melologo, ampiamente frequentato da illustri autori del passato e del presente. Mi sono sempre trovato a mio agio nel pensare la musica come paesaggio per un testo; dove però il paesaggio non svolga la semplice funzione di sfondo, e nemmeno rappresenti un commento didascalico, per quanto pertinente, ad una narrazione altra. La musica e il testo, stringono un patto indissolubile nel concorrere alla drammaturgia, che qualsiasi storia narrata sottende. E la supremazia dell’una sull’altro è esclusa: entrambe le lingue narrano, su piani e con regole diverse, la stessa vicenda. Come direbbe Vatel, il cuoco francese protagonista del racconto, che di amalgami e alchimie se ne intendeva, dall’unione di diversi elementi si può ottenere una terza cosa che ha però un unico sapore, non la semplice somma algebrica delle sue componenti ma la fusione inestricabile di sostanze precedentemente divise. Ho rinunciato da subito a stabilire una qualsiasi relazione tra il tempo evocato dalla vicenda – il ‘700 – e lo stile della musica; la presenza di memorie settecentesche riferite al testo avrebbe limitato la possibilità straordinaria che il linguaggio musicale detiene quasi in esclusiva, quella di rendere presente ogni passato, di riannodare ogni distanza temporale in un attimo, e in definitiva di annullare il tempo cronologico per evocare un tempo interiore che è per sua natura immanente. Vatel è dunque il racconto di una esperienza, ma anche l’esperienza del racconto. Si divide in porzioni distinte, possiede temi ben riconoscibili e ricorrenti, impiega una logica armonica assai unitaria, e si dota di una struttura ritmica molto omogenea. Ma questi sono ingredienti che tutti possono procurarsi. Quanto alle quantità e al modo di metterli assieme, la ricetta è segreta.”