70ª Stagione Sinfonica Orchestra I Pomeriggi Musicali - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 19 marzo 2015
Ore: 10:00*
giovedì 19 marzo 2015
Ore: 21:00
sabato 21 marzo 2015
Ore: 17:00
*I Pomeriggi in anteprima

Vivaldi, Concerto “La caccia”, RV 362, Concerto “La notte”, RV 439, Concerto “Il cucù”, RV 335, Concerto “Grosso Mogul”, RV 208
Händel, Musica sull’acqua

Biglietteria

BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla 30): € 19,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla 40): € 13,50 + prevendita
Balconata: € 10,50 + prevendita

Ridotti (Giovani under 26; Anziani over 60; Cral; Ass. Culturali, Biblioteche; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50 + prevendita
Balconata € 8,50 + prevendita

CARNET LIBERI DI SCEGLIERE:
da oggi sei libero di abbonarti a 6, 8 o 10 concerti della Stagione scegliendo in base alle tue preferenze e alle tue disponibilità senza dover rinunciare al vantaggio economico dell’abbonamento (i carnet costano da €. 56,40 a €. 163,00 a seconda del numero di concerti selezionati)

Per informazioni e prenotazioni:
promozione@ipomeriggi.it 02/87905267

Il Cast

Direttore e Violino: Stefano Montanari
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Note di sala

Antonio Vivaldi
(Venezia, 1678 – Vienna, 1741)

Concerto per violino RV 362 “La caccia”
Durata: 9’
Allegro – Adagio – Allegro 

Concerto per violino RV 104 “La notte”
Durata: 7’
Largo – Fantasmi: Presto – Largo – Presto
Il sonno: Largo – Allegro 

Concerto per violino RV 355 “Il cucù”
Durata: 10’
Allegro – Largo – Allegro 

Concerto per violino RV 208 “Grosso Mogul”
Durata: 15’
Allegro – Grave recitativo – Allegro 

* * *

Georg Friedrich Händel
(Halle, 1685 – Londra, 1759) 

Musica sull’acqua
Durata: 40’
Suite n.1 in fa maggiore
I Ouverture
II A dagio e staccato
III S enza indicazioni di tempo
IV Andante
V S enza indicazioni di tempo
VI Air
VII Menuet
VIII Bourrée
IX Hornpipe
X S enza idicazioni di tempo
Suite n. 2 in re maggiore
XI S enza indicazioni di tempo
XII A lla hornpipe
XIII Menuet
XIV Lentement
XV Bourrée
Suite n. 3 in sol maggiore
XVI S enza indicazioni di tempo
XVII Rigodon
XVIII S enza indicazioni di tempo
XIX Menuet
XX S enza indicazioni di tempo
XXI S enza indicazioni di tempo
XXII S enza indicazioni di tempo

Saggio di Lorenzo Arruga

Dietro quelle note trascinanti

Vivaldi è un autore del nostro tempo, nato a Venezia il 4 marzo 1678. Ha avuto successo anche nei secoli passati, ma questo è meno interessante; il fatto è che adesso ne sentiamo la musica spuntare dappertutto, la Primavera sua la possiamo intonare andando avanti per un po’, il suo ritmo ci viene di ballarlo, subito, anche con passi inventati, con entusiasmo; se una cantante inizia rapinosa una sua aria e poi si mette a vagheggiare su nel cielo dei virtuosismi ci si accende la voglia di andare al computer e inventare coi mezzi d’oggi, di figure e colori, qualcuno di quei manifestini che una volta si tiravano in teatro alle primedonne e spedirglielo per mail.

Non sono stati certo i musicologi a prolungargli trionfalmente la vita, e nemmeno gli agenti discografici. Senza alcun populismo, è necessario per cronaca dirlo: è stata la gente e soprattutto i ragazzi. Hanno riempito prima i teatri, poi anche le chiese e le piazze ed i siti del web:

nessun bisogno di mettersi a capirlo, era già pronto, eloquente, e si poteva soltanto comprenderlo ed amarlo di più. Della sua vita d’oggi, certo, voi conoscete sintomi e circostanze, ed avete esperienza; su quella  che passò concretamente nel mondo, forse, sapete pochissimo; e qualchecosa di quel poco che sappiamo noi, per le scarse notizie tramandate, invece è bene che lo conosciate.

Musicista

Vivaldi Antonio, dunque, di Giovanni Battista “sonador de violino” ed ex-barbiere, incontrò e amò subito la musica. Da ragazzo voleva farsi prete, prete voleva dire la carriera, l’ingresso alle cappelle delle chiese ed alle cantorie, e anche al teatro e nella società, bene accettato nei confessionali, e, come si dice di quel tempo veneziano disinvolto e scapestrato, se aveva qualità anche nelle alcove. Divenne prete presto e arrivò presto all’Ospedale della Pietà per insegnare, come attesta il documento, “violin alle figliuole”.

L’ospedale della Pietà era uno degli ospizi che raccoglievano orfanelli e trovatelli educandoli, ed era il più importante fra i quattro che raccoglievano soltanto donne, destinandole allo studio della musica.

Le trovatelle, che pubblicamente cantavano e suonavano dietro una grata,  guidate da questo curioso “prete rosso” di rossi capelli, che era Vivaldi, dopo qualche tempo incuriosirono, ma ben presto proprio per la qualità e fantasia dei concerti cominciarono ad entusiasmare i veneziani  e a richiamare forestieri.  Per mezzo secolo Vivaldi  continuò questa attività e con sempre maggiore rispondenza.

Perché gli ascoltatori correvano ad ascoltarlo? Prima di tutto proprio per lui, che era uno splendido violinista; e chi suonava il suo strumento cercava anche di riceverne lezioni. Il Presidente del Parlamento di Borgogna De Brosses si diceva contento di farsi spillare quattrini  per suonare con lui; Johann Georg Pisendel, un artista che pare si nutrisse di radici e che comunque era un formidabile violinista tedesco, veniva a Venezia per farsi scrivere concerti per lui;  Vivaldi gliene dedicò quattro.

Ma colpiva moltissimo il gruppo. Vivaldi era un docente scrupoloso ed era un creatore: queste ragazze, spesso in cattiva salute e comunque in difficoltà di vivere si trovano nel rapporto con lui ad essere considerate con la massima intensità umana e professionale possibile. Vivaldi le formava, curava la loro bravura strumentale, e genialmente dalle  caratteristiche fisiche e psicologiche di ciascuna riusciva a trovare un modo originale di cantare e suonare. Proprio attraverso questo studio personale Vivaldi ha potuto inventare caratteri particolari nel suono degli strumenti, scoprirne le possibilità. E c’era qualcosa di più intimo e più intenso, quella felicità soltanto di chi crede che nell’insegnamento si crea insieme, e sente che può nascere qualchecosa di nuovo in loro e dunque nel mondo, che si può reinventare. La musica che nasce dalla vita alla vita ritorna e la conforta.

Prete

Era prete. Strano prete, si dice che una volta celebrando la Messa la sospese per annotare il tema d’una fuga in sacrestia, poi ritornò all’altare. Fu deferito all’Inquisizione, che per provvida stupidità lo considerò “musicista”, come a dire “matto” e si limitò a proibirgli di dir Messa per l’avvenire. E’ un aneddoto falso, modulato sul mito dell’artista ispirato, probabilmente. Certo però sei mesi dopo l’ordinazione sacerdotale smise di celebrare la Messa; molti anni dopo

dichiarò in una lettera al vescovo che la causa era un’asma bronchiale,

o. come lui scriveva “strettezza di petto”, per cui la doveva interrompere più volte. Pure, non lasciò mai la veste talare, e diceva il breviario come i sacerdoti normali: lo trovò così anche Carlo Goldoni nel famoso incontro raccontato nei Mémoires, mentre era impegnato a finire a ritmo furibondo un’opera, e viveva con un soprano, la Giraud,

ufficialmente sua infermiera, su cui correvano le più ovvie voci.  Contraddizioni? Compromessi? Onestà che rifiutava una missione troppo leggermente accettata, o forse pigrizia o qualche altra ragione? Misterioso è il paese delle anime, e vi sembra ragionevole fornire una diagnosi trecento anni dopo?   Certo, nella fede il suo meglio ancora una volta lo dava nella musica: la balzante gioia del Gloria, l’accorata

pietà di quell’attacco Stabat Mater dolorosa…

Teatro

La sua passione più grande era il teatro.  A lui, violinista, insegnante, compositore strumentale, uomo di chiesa balenava sempre quest’idea, questa  tentazione, questo richiamo.

Per noi adesso l’opera del primo Settecento, che ancora si usa chiamare barocca, fa venire alla mente strutture ordinate e musicologiche: l’Aria dove il personaggio si confida a qualcuno o a nessuno disponendo su poche parole un caleidoscopio di suoni incantatori o vertiginosi, il Recitativo dove i personaggi sbrigano fra loro le poche faccende di azioni dalle vistose conseguenze,  e le eleganze delle armonie. Ma allora era un’altra cosa il mondo del teatro.

Era lo spiraglio di luce verso uno spazio strano, misterioso, commovente, eccitante: proibito, anche, alle più pie coscienze. Un poco sul peccaminoso, insomma; dove poteva accadere di tutto, non solo nei fondi dei palchi, ma anche per la commozione che poteva rivelarsi di qualcosa di profondamente profano, o che si considerava tale, e a volte era semplicemente la donna, la femminilità calda e appassionata che il costume non voleva guardare ed i costumi stessi castigavano, dolcissimo, primordiale, e la sensualità della voce modulata del soprano o del contralto rivelavano.

Per noi delle ultime generazioni, Vivaldi operista è stato una sorpresa:

escono ancora storie del teatro d’opera dove si parla d’una crisi perché  la musica “cedeva” alla bellezza e all’importanza della scenografia, e quasi si pensava che l’Orlando Furioso o l’Atenaide

fossero momenti secondari della sua attività. Dimenticando che l’opera in musica era l’espressione più trascinante di quella Venezia che faceva pazzie pur di non perdere una rappresentazione, dove gli impresari arrivavano a prendersi a bastonate,  e dove il mondo del potere vegliava perché i temi eroici suonassero a loro celebrazione e non nascondessero pericolose insinuazioni rivoltose. Vivaldi offriva al palcoscenico i voli della voce,  a combattere con le forze delle tempeste: “Agitata da due venti…” e le toccanti confidenze anima ad anima: “Guarda in quest’occhi e senti…”

Venezia

Venezia, la sua città, era quella di sempre: canali, calli, campielli, ponti, acqua, aria, la notte, quella luna. Le immagini dei quadri, gli interni dove ci sembra di essere entrati dopo Longhi e la sua vita borghese sommessa; fuori, il cielo da contemplare di Canaletto, il cielo inarrivabile di Tiepolo. Ma anche la Venezia di allora, meno case, più giardini, più colori.; e la sua storia dove in quegli anni il  potere decade mollemente, i dogi sono vecchi e poco prestigiosi, le guerre sono logoranti, senza gloria e anche senza rapina, e non s’avverte un gran fervore di difesa, la voglia di inventarsi la ricerca  d’una nuova civiltà. Meno commerci, più feste, mascherate, chiacchiere buffe fino anche in chiesa, con disperazione delle autorità ecclesiastiche, più propense però alle intemerate che a dare buon esempio. E fra i mille suoni e canti delle giornate e le serenate tra fiaccole e silenzi nelle notti, Vivaldi si trovava  impegnato, affaccendato e  chissà mai se bisognoso di pace: pronto a buttarsi nella opere, e ne scrive novantaquattro, come allora si poteva in quella forma aperta che ammetteva scambi e pastiches , e fa anche l’impresario e lotta e litiga contro cantanti presuntuosi, danzatori, scenografi ed a volte anche con i vescovi.

Gira in Europa, ma non tanto. Ad Amsterdam lo pubblicano: non era un segno di diffusione come “mettere una hit sulla rete”, ma un sintomo di rango internazionale, tanto più che Vivaldi continuava a scrivere per la sua gente, le sue trovatelle, la sua fascinosa città .

Lui

La grande carriera di Vivaldi incomincia nel nostro tempo. A Settecento inoltrato ad accorgersi di lui come Maestro fu Johann Sebastian Bach, che trascrisse ed elaborò qualche sua partitura. Ma ci fu anche per l’immenso Bach il turno d’un po’ d’oblio, prima che nell’Ottocento Mendelssohn lo rilanciasse.  Ora Vivaldi è uno degli autori più eseguiti del mondo, dovunque. Allora era soprattutto considerato efficiente.

A un certo punto, passa anche un po’ di moda.  Soprattutto quando lascia Venezia, e viene a mancare la sua presenza di concertista affascinante. Nelle liste compilate dai grandi visitatori il suo nome

si dirada. Da fuori arrivano musicisti francesi, e soprattutto napoletani con le loro opere serie e buffe magistrali.

Non c’è declino, però, nella sua arte. E nemmeno nella sua personalità.  Autore d’una musica felice e libera, era a volte felice e sempre un uomo libero. Proprio questo aspetto di libertà diede parecchi guai al prete rosso. E non soltanto con i vescovi, non solo con le autorità veneziane del momento, se è vero che l’impaziente forza e la disinvoltura con cui prendeva in scena i temi politicamente scabrosi gli proibirono, ad esempio, l’ingresso a Ferrara dove fu montata una polemica moralistica, inadatta e insensata, per mascherare il fastidio che aveva dato la rappresentazione d’una sua opera. Non era un combattente politico, era soltanto un uomo libero.

Così, non ci stupisce che anche la sua fine fu quella d’un uomo libero.

Difatti a sessantadue anni, nel 1740, riceve 70 ducati e 23 lire per una serie di venti concerti, come se, sul punto di lasciare l’Ospedale della Pietà. dove ancora insegnava, liquidasse gli ultimi elementi del suo repertorio, come cioè se dovesse lasciare Venezia in fretta e furia.

Non abbiamo, su lui, documenti quanti vorremmo.  Ma di solito partenze come la sua si associano all’esilio.

C’è un altro indizio: dopo non abbiamo più notizie di Vivaldi, o meglio deduciamo che forse fu a Graz, dove sappiamo che la Giraud cantava; e che finì a Vienna. Fino a mezzo secolo fa non sapevamo neanche se a Vienna fosse morto. La notizia fu data scoprendo un necrologio sui registri della chiesa di Santo Stefano, il duomo.  La notizia d’una morte da uomo indipendente, libero, chissà mai se orgoglioso di se stesso, e certamente solo.

Il necrologio dice semplicemente: “Antonio Vivaldi, morto il 26 o 27 luglio 1741. Prete. Funerale dei poveri, 19 fiorini in tutto, accompagnato da due soli tocchi di campana”.

Pilucchi

Quella sera sul Tamigi

Era luglio,  il Re (Giorgio I) che amava la musica e anche starsene all’aperto, aveva chiesto all’appaltatore di fiducia uno spettacolo da eseguire sul Tamigi, proprio a pelo dell’acqua, su di una grossa chiatta da porre accanto al suo battello, ma bisognava cercare soldi in giro e avevano la precedenza i grandi balli. Così si pensò a un bel concerto. Non era semplice: bisognava fare in modo che la musica si sentisse bene, o almeno la sentisse bene il Re con la sua corte, e calibrare bene i doppi strumenti a fiato, dal suono penetrante, con il gruppo degli archi, più sfuggente all’aperto, tener conto dell’aria e anche dell’acqua che scorreva e, come in una rappresentazione ben studiata, calcolare che quando le sonorità erano più deboli la chiatta si trovasse vicina a quella regale e quando i suoni erano più forti si potesse sfruttare l’effetto di allontanarsene, sempre con eleganza ma anche con ardimento.

Così fu incaricato il grande Haendel, musicista preferito del Re, che veniva fra l’altro da Hannover, in Germania, della cui casata era proprio proveniente anche Giorgio I, Re d’Inghilterra da poco tempo.

(Forse fu Haendel che insistette, perché aveva paura di perdere il suo posto).  Tutti sognavano una serata eccezionale. (O alla peggio che, come altre volte sarebbe accaduto,  i musicisti cadessero in acqua e venissero tratti a riva inzuppati, che è sempre uno spettacolo). La qualità musicale fu eccellente, i suonatori stavano perfettamente in equilibrio fisico e artistico, le melodie erano nobili e semplici, gli scoppi dell’orchestra perentori: si magnificava come in tempo breve Haendel avesse potuto inventare tante bellezze (Dato che si trattava di Suites, dalla coerenza poco obbligante, probabilmente aveva usato pezzi almeno in parte già composti).

Fu un evento fantastico, c’era tutto quello che si usa chiamare  parterre des rois: oltre a Re Giorgio, conti e contesse di storiche stirpi e una quantità di barche di appassionati arrivati per ascoltare. Il tempo era stupendo. Il Re era d’ottimo umore. Dopo un’ora di musica, chiese il bis. Affaticati o meno, gratificati dall’autorevole approvazione e dal successo, gli strumentisti lo eseguirono, lieti dopo i nuovi applausi di andare finalmente a cena.(Un po’ meno lo furono quando, dopo la cena, il Re fece loro suonare ancora tutto da capo).

 

Da Asterischi di Storia Musicale in “Gazzettino     dell’Accademia Umanistica Laica siciliana”, 1986.

Disinvolta traduzione redazionale di una cronaca

inglese settecentesca d’incerta fonte. Le parentesi in    corsivo sono di F. T. (probabilmente Felice Turno),

                   traduttore.

 

La natura nel Barocco e nel Settecento

Il raccontare per immagini, per momenti, di Vivaldi, un rispecchiarsi

degli archi nella natura, a cui si può unire o che può commentare con trasporto pensoso lo strumento solista, è naturalmente preparato e voluto; ma non è legato a un programma teorico, a una ricerca di equivalenze; nasce piuttosto da una tradizione di racconto radicata nella Lombardia e nel Veneto e nell’Emilia, è la forma del madrigale che porta al racconto, soprattutto dopo che è passato un narratore sensazionale come Monteverdi. Il quale, fra l’altro, ha messo in musica con intelligenza critica ma anche per anima aggiunta ad anima, voce aggiunta a voce, la poesia di Torquato Tasso,  come in madrigali immortali:

Ecco mormorar l’onde

                   e tremolar le fronde

                   a l’aura mattutina, e gli arboscelli…

immagini che continuano a muoversi e si arricchiscono

(…) Ecco, già l’alba appare

                   e si specchia nel mare

                   e rasserena il  cielo

                   e imperla il dolce gelo…

e in Monteverdi nel colore e nel gioco delle voci acquistano una

gioiosa veggenza.

E’ un’attitudine al raccontare la natura che investe il Settecento italiano, anche in poeti con ben minore potenza, come il soave

Jacopo Vittorelli:

Guarda che bianca luna, guarda che notte azzurra,

                   un’aura non sussurra, non tremola uno stelo…

Nei famosi sonetti che sembrano avere ispirato le celeberrime Stagioni,  c’è chi parla di fedeltà del musicista al poeta, come in un preciso programma… E c’è anche chi ipotizza che Vivaldi abbia prima scritto i concerti e poi adattato ad essi i sonetti, scrivendoseli

da solo: ipotesi giustificata dalla grandezza libera della musica e dalla bruttezza dei sonetti.

La natura nel nostro tempo

         Lasciatemi bere le acque dove i torrenti

bagnano le montagne,

lasciate che il profumo e il bianco dei fiori

scorra libero attraverso il mio sangue,

lasciatemi dormire nelle vostre valli

tra i verdi steli dell’erba,

lasciatemi camminare lungo la strada

con il mio fratello in pace.

Andate nel paese dove la terra incontra il sole,

se avessi rubini e ricchezze e corone

comprerei tutto il mondo e cambierei ogni cosa

getterei tgutti i fucili e i carri armati nel mare

perché non sono che errori della storia passata.

Lasciatemi bere le acque dove i torrenti

bagnano le montagne

lasciate che il profumo e il bianco dei fiori

scorra libero attraverso il mio sangue.

 

BOB DYLAN

(da Let Me Die In My Footsteps )

Riportiamo il testo originale completo della canzone citata di

Bob Dylan, parole d’un soldato che sente vicina la morte:

I will not go down under the ground

“Cause somebody tells me that death’s comin’ ‘round

An’ I will not carry myself down to die

When I go to my grave my head will be high,

Let me die in my footsteps

Before I go down under the ground.

There’s been rumors of war and wars that have been

The meaning of the life has been lost in the wind

And some people thinkin’ that the end is close by

“Stead of learnin’ to live they are learning to die.

Let me die in my footsteps

Before I go down under the ground.

I don’t know if I’m smart but I think I can see

When someone is pullin’ the wool over me

And if this war comes and death’s all around

Let me die on this land ‘fore I die underground.

Let me die in my footsteps

Before I go down under the ground.

There’s always been people that have to cause fear

They’ve been talking of the war now for many long years

I have read all their statements and I’ve not said a word

But now Lawd God, let my poor voice be heard.

Let me die in my footsteps

Before I go down under the ground.

If I had rubies and riches and crowns

I’d buy the whole world and change things around

I’d throw all the guns and the tanks in the sea

For they are mistakes of a past history.

Let me die in my footsteps

Before I go down under the ground.

Let me drink from the waters where the mountain streams flood

Let me smell of wildflowers flow free through my blood

Let me sleep in your meadows with the green grassy leaves

Let me walk down the highway with my brother in peace.

Let me die in my footsteps

Before I go down under the ground.

Go out in your country where the land meets the sun

See the craters and the canyons where the waterfalls run

Nevada, New Mexico, Arizona, Idaho

Let every state in this union seep in your souls.

And you’ll die in your footsteps

Before you go down under the ground.

VIVALDI: I QUATTRO CONCERTI DI OGGI

Vivaldi legge la natura attraverso la forma del concerto come Foscolo leggeva la sera attraverso la forma del sonetto, come Giorgione leggeva la tempesta attraverso la forma d’una rappresentazione a suo modo realistica d’un quadro irreale.

E nulla è più sera di quel “vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme /

che vanno al nulla eterno, e intanto fugge / questo reo tempo”. E,al di là delle mille interpretazioni su significati dottrinali o allegorici, nulla è più sentore di natura, vago umidore intriso di tempesta come quella donna quieta e nuda, quel paesaggio, quel lampo lontano.

Nel nostro incontro d’oggi c’è una specie di drammaturgia di

immagini, un percorso.

Chi prendeva sul serio la boutade di Stravinskij che Vivaldi avrebbe scritto quattrocento volte lo stesso concerto, può sentire quanta varietà di concezione, di melodizzare, di timbrica, di proporzioni interne esista accostandone alcuni.

La caccia nel cauto ribattere d’accordi dell’inizio, nel contrasto disagiato dell’intrico fra violino solista e archi e nel più sfrenato finale.  La notte in quel rinunciare a ogni descrizione, data come per nota e presente nella nostra esperienza, per lasciare fluire naturalmente oscurità e fantasmi. Il cucù facendoci paventare uno di quei pezzi di genere in cui uno strumentino a fiato imita l’uccelletto nel suo andare su e giù per le sue due note, e affidando invece al violino, così dissimile,  un puro divertimento, una sfida di innocenza travolgente, entro cui il secondo tempo chiama archi e cembalo nella confidenza d’un languore malinconico indimenticabile. Ma nel Grosso Mogul, il famoso grande diamante del Re delle Indie, dopo avere salpato per l’Oriente misterioso – così a portata dei Veneziani – e prima di un finale dallo sbalorditivo

virtuosismo, nell’Adagio fra violino e basso continuo Vivaldi prende direttamente la parola da poeta: come un cantante che non abbia bisogno di parole, come un uomo che possa dire se stesso e il mistero del mondo in mille rifrazioni preziose, di cui ci concede di immaginare la fatica per averle raggiunte e per cercarne il senso ultimo, al di là della meraviglia.

Perché Montanari:  ben noto qui, ai Pomeriggi Musicali, e ormai dappertutto, non solo mette insieme senza proclamarlo virtuosismo, talento e civiltà, ma è un artista raro che ci può far capire che cosa sia la musica per lui e che cosa possa diventare per noi.