Le date
Montalbetti, Foresta di fiori, concerto per violoncello e orchestra (prima esecuzione assoluta)
Haydn, Concerto per violoncello e orchestra n. 1, Hob. 101
Schumann, Concerto per violoncello e orchestra, op. 129
Biglietteria
BIGLIETTI
Interi
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla 30): € 19,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla 40): € 13,50 + prevendita
Balconata: € 10,50 + prevendita
Ridotti (Giovani under 26; Anziani over 60; Cral; Ass. Culturali, Biblioteche; Gruppi; Scuole e Università)
Primo Settore (Platea, dalla fila 1 alla fila 30) € 15,00 + prevendita
Secondo Settore (Platea, dalla fila 31 alla fila 40) € 11,50 + prevendita
Balconata € 8,50 + prevendita
CARNET LIBERI DI SCEGLIERE:
da oggi sei libero di abbonarti a 6, 8 o 10 concerti della Stagione scegliendo in base alle tue preferenze e alle tue disponibilità senza dover rinunciare al vantaggio economico dell’abbonamento (i carnet costano da €. 56,40 a €. 163,00 a seconda del numero di concerti selezionati)
Per informazioni e prenotazioni:
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Il Cast
Direttore e Violoncello: Mario Brunello
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Foresta di fiori, concerto per violoncello e orchestra di Montalbetti, sarà diretta dal M° Cadario
Note di sala
FORMA E NON FORMA
di Claudia Ferrari
Franz Joseph Haydn sapeva d’esser bravo. Con il tempo e gli strumentisti messi a sua disposizione dai nobili Estherhazy, al cui servizio stava, poteva cercare, sperimentare, raffinarsi, ascoltando sùbito e ad alto livello i risultati; con il successo trionfale che aveva avuto a Londra, aveva capito che il pubblico lo seguiva con trasporto. Però sapeva anche che Mozart era più bravo di lui, e lo diceva apertamente e di lui era anche maestro e amico. Perché, oltre ad essere un fondatore della classicità, cioè d’una musica che disciplina i conflitti, le tensioni, le passioni in una esatta chiarezza, era anche un uomo autorevole e generoso. Lo chiamavano “Papà Haydn”.
Aveva scritto una montagna di musica: 23 opere teatrali, 3 musiche di scena, 13 cantate corali, 36 cantate solistiche, 14 Messe, 5 oratorii, 9 altre composizioni sacre, 104 sinfonie, 16 ouvertures, 7 marce, 33 concerti, 30 danze, 103 quartetti per archi, 41 trii con pianoforte, 21 trii per archi, un centinaio di trii e duetti con baryton, 6 duetti per violino e viola, 42 divertimenti, 32 pezzi per strumento meccanico, 52 sonate per pianoforte, 2 pezzi per pianoforte a 4 mani, 48 Lieder, 13 terzetti e quartetti vocali con pianoforte, 46 canoni più 7 volumi di arrangiamenti di canti popolari, probabilmente era il solo che la conoscesse tutta. Si riteneva il magior competente su se stesso… Non per niente quando, nel 1805, si era sparsa la falsa notizia della sua morte, e grandi compositori gli avevano già dedicata una composizione in memoria, e la celebrazione era stata rinviata all’ultimo momento, aveva commentato: “Che brava gente e quale onore! Però mi piacerebbe toccasse a me dirigere la mia commemorazione”.
Haydn è un grande, e ad ascoltare sua musica ci si sente sempre a posto, e ben confortati. Però ci prende anche un problema. Siamo un po’ troppo abituati dai conflitti eccitanti fra solista e orchestra del tempo successivo – Beethoven, Brahms, e tutti gli altri, fino a Ravel e Bartók, – da porre istintivamente la nostra attenzione non tanto sul materiale affascinante del concerto, quanto sulla capacità dell’autore di mettere ordine; quella luminosa realtà un po’ lontana che sembra a volte nascere dalle regole fuori da noi piuttosto che dalla necessità del discorso. E l’equilibrio a volte un po’ ci fa sentire colti e un po’ distratti. E’ quasi come se fosse troppo tutto a posto. E poi abbiamo perso il gusto della curiosità delle cose. La sinfonia, per noi, come il concerto dal Settecento in poi, è un blocco sacro e inviolabile; un applauso fra un tempo e l’altro è segno di insensibilità diseducata, e chi s’avventurasse a dire “Bravo!” dopo un adagio sarebbe subissato da zittii di gente offesa e che vuol dimostrare di sentirsi tale: Haydn addirittura, invece, a volte concedeva il bis d’un adagio se glielo chiedevano. Noi musicologi parliamo di strutture di sviluppi tematici, e quasi un po’ ci vergogniamo dei soprannomi dati alle composizioni in cui Haydn avviava da processi imitativi aperture di linguaggio. Ma se nell’ultimo tempo d’una sinfonia udiamo un borbottare di bassi, veniva chiamata L’orso; se la seconda idea del primo movimento è gaia e chiocciante, ecco la sinfonia La gallina; un botto di timpano improvviso fa sobbalzare il quieto ascoltatore dell’andante, e dà il nome alla sinfonia La sorpresa…
Ecco, probabilmente la cosa più importante da fare per ascoltare con pienezza il Concerto per violoncello n°1, che il Maestro compose attorno ai 35 anni e che perdemmo presto e ritrovammo solo nel 1961, è lasciarsi prendere dalla freschezza comunicativa che rende vivo il colloquio fra solista e orchestra nella infallibile costruzione d’una forma classica, nel primo tempo baldanzoso, seduttivo elegante nel secondo e, nell’ultimo, irrefrenabile. Goderne, e poi pensarci su.
Tutto diverso Robert Schumann. il grande musicista romantico nato nel 1810, l’anno dopo la morte di Haydn. E il suo è il primo concerto per violoncello di un compositore importante dopo il secondo concerto di Haydn. Ma con nessuna continuità; né si poteva pensarlo. Tormentato, fino a perdere la ragione, Schumann aggredisce d’affetti, ci coinvolge in passioni che scavano fino in zone sconosciute senza darne una ragione: eppure chi potrà darci mai la gioia leggera del secondo tempo della sua Prima Sinfonia? E quando ascoltiamo il famoso Sogno dalle Scene infantili per pianoforte non ci viene quasi da pensare che la sua convinzione d’avere parlato veramente con gli angeli avesse un fondamento?
Contraddizioni e legami impensati danno una tinta coerente e un’inquietudine incancellabile al suo Concerto per violoncello, composto a quarant’anni; ma come per natura interna, d’uno che pensava senza sosta in musica, e lasciava che le idee si avvicendassero quasi interrompendosi fra loro per esprimere un’urgenza necessaria, dal brivido del primo strappo alla violenza dell’ultimo accordo. Come se non esistesse un piano preordinato, o venisse travolto dalla necessità di dire tutto e subito. Per chi vi si immedesima, è un’esperienza quasi insostenibile. Ci si salva soltanto con la capacità di avvertire in ogni gesto sonoro la fecondità della bellezza.
Deve provare un certo felice imbarazzo, Mauro Montalbetti, ad apparire con due colleghi di tanta grandezza. Ma vuole trasmettere un messaggio di cui si sente sicuro. La foresta di fiori è un libro di Ken Saro-Wiwa, scrittore nigeriano difensore degli oppressi Ogoni, finito impiccato fra le proteste delle Nazioni. Scrive semplice, da narratore attento al gusto delle cose. Nel suo pezzo, Montalbetti sceglie il violoncello protagonista, quasi personaggio che si assume la coscienza del dolore e dell’ingiustizia sociale. L’orchestra lo sostiene, lo accompagna, solo all’ultimo si fa più strettamente complice, proponendo qualche idea musicale; a tratti la natura africana si fa sentire, anche con suggestioni vivide come il fruscio della foresta notturna; il canto, con quei suoi larghi intervalli e il raggrumarsi inquieto, esprime lacerazioni: e tutto va a finire in morendo.
RIFLESSIONE SUL TEMPO
Italo Calvino, nell’ultima delle sue sei Lezioni Americane che nella versione italiana del libro è messa in appendice e intitolata Cominciare e finire, parla di Consistency.
Il termine andrebbe tradotto come coerenza, densità. Lo scrittore riflette sul momento iniziale della creazione artistica – facendo riferimento ovviamente alla letteratura, ma potremmo benissimo pensare a questo riferendoci alla composizione musicale – . Ci invita a riflettere sull’importanza dell’attimo in cui la penna si posa sul foglio: un’infinità di mondi possibili sono a disposizione di colui che scrive, che fino al momento appena precedente l’inizio della sua opera appartiene anch’esso a un mondo, a una sua idea di mondo. Da questo mondo sceglie di creare qualcosa, qualcosa di tremendamente diverso da esso o di simile a ciò che è famigliare, sceglie di tracciare confini sconosciuti, di sospendere il tempo e lo spazio. Una volta iniziato, il mondo è fuori e tutto viene disegnato dal compositore. I confini della forma – ricordiamo che stiamo per ascoltare tre concerti, scritti a più di 250 anni di distanza l’uno dall’altro – non sono più così netti, eppure i compositori, così come gli scrittori, ancora devono o per meglio dire vogliono, scelgono di misurarsi con essa. L’attimo prima dell’inizio della scrittura del concerto sarà stato differente per ognuno dei compositori che ascolteremo oggi: Haydn si trovava alla corte degli Esterhazy, Schumann trascorreva un periodo denso di impegni oltre alla composizione, Montalbetti è qui, accanto a noi nel pieno di questa scottante contemporaneità. Più di due secoli sono trascorsi, non si può nemmeno pensare di elencare tutti i cambiamenti sociali ed anche musicali avvenuti, eppure siamo ancora qui: il compositore ancora una volta trova lo spunto per misurarsi con la forma, con la scrittura, e noi siamo chiamati a metterci in ascolto. L’attimo prima dell’inizio racchiude la tensione verso un futuro che non si chiude con la doppia barra alla fine della partitura, ma trascende il tempo e fa sì che, per dirla con le parole di Calvino in riferimento alle storie, “per esaurite che siano, per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a raccontare ancora”.
Citazioni
Al fine di comporre, tutto quello che dovrete fare è pensare a una melodia alla quale nessuno ha ancora pensato. (Schumann)
Le ultime parole.
Giovanni Mosca, in Ricordi di scuola, racconta a un certo punto d’uno studente a cui vien chiesto a un esame quali fossero le ultime parole pronunciate da Cavour prima di morire. Il poveretto prova a immaginare: “Addio, miei cari…”, “Non dimenticatemi”… o altre cose del genere. No, Cavour sul letto di morte pronunciò “Libera Chiesa in libero Stato”. Proprio quello doveva venirgli in mente in quel momento?
A volte temo che siamo noi ad inventarle. Bernadette Soubirous, che ebbe le apparizioni della Madonna a Lourdes, secondo François Trochu, acclarato biografo ufficiale, mormorava “Ho paura”. Ma in
genere le si fece dire “Io amo”; e nel film più noto arrivava planando una Madonna tutta in bianco e lei esclamava: “Io ti amo”. Oppure le interpretiamo in modo universale e profetico. Si sa che Goethe finì splendidamente invocando “Più luce”, ma forse voleva solo che gli dischiudessero la finestra.
Robert Schumann guardò la moglie, e dichiarò “Clara mia, io so…”. Frase aperta ad ogni supposizione e adattissima comunque alla sua morte. Vi si può aggiungere una frase della Bibbia, mezzo Holdering, Jean Paul, tutto Novalis. Quello che però sappiamo è che poi ebbe qualche ora di convulsioni quasi da indemoniato, e all’improvviso si addormentò dolcissimamente nella morte.
Aneddoti
Che cosa dobbiamo fare per conoscere Haydn da vicino? Proviamo a seguire la ricetta di “Musica Viva” in occasione del suo 250° anno dalla nascita, giugno 1982.
Da dove cominciare? Quasi quasi dal suo ritratto, quel gran naso autorevole, quegli occhi un po’ bonari, da medico di fiducia, quelle labbra un po’ ironiche e carnose che fanno immaginare una sorta di popolana e primitiva ingenuità, quella fierezza consapevole, concreta e quieta dell’uomo che s’è fatto da sè e non corre rischi. E’ proprio il tipo che ha potuto cominciare da bambino l’educazione musicale suonando le campane in un villaggio, ed esordire in pubblico da timpanista minuscolo della banda di Haimburg, dopo essersi costruito di furia un arnese di prova con un setaccio e uno straccio. E’ il tipo che ha potuto fare carriera nelle corti rifiutando le inquietanti sistemazioni di allora, come farsi castrare per diventare cantore ammirato, o farsi prete per sostentarsi… E’ il tipo, raro anche allora, che può votarsi ad una professionalità totalmente fedele ai suoi impegni, da restare legato ai protettori anche quando il successo internazionale lo portava trionfi nelle capitali europee, quasi che fosse normale essere l’uomo più popolare di Londra ma tornare velocemente ad indossare la livre presso il Principe di Esterhaz perché il permesso era esaurito.
Cammina, la fantasia. Par di capire, dal ritratto, qualche incerto segreto: l’intelletto ed i sensi svegli ma quasi indipendenti l’uno dagli altri. Intellettuale fondo, rapido, lavoratore, indagatore e ordinatore quasi al di sopra delle cose, e insieme passionale e sprovveduto in
quelle di cuore. Certo l’aspetto qualche cosa nasconde: guardandolo non verrebbe da immaginare che potesse essersi lasciato convincere a sposare la sorella della ragazza sui aveva messo gli occhi, destinata al convento; e tanto meno che la sposa rimediata dovesse crescere bisbetica e distratta al punto d’usare i fogli da musica vergati dal marito per arricciarsi i capelli; e che una scappatella portasse il musicista ad un amore tumultuoso con una cantante, la signora Polzelli, avida di denaro almeno quanto d’affetto. Ma insomma, nel riguardarlo non ci prende quel sussulto di tenera inquietudine che suscita un ritrtatto di Mozart, o la soggezione un po’ impaurita che emana quello di Beethoven. Era un grande normale, per dirla incuranti della contraddizione apparente. Poteva anche essere galante: da giovinetto, accompagnando al pianoforte la bella Contessa von Morzin che si era chinata verso di lui, gettò lo sguardo inevitabile sul corsetto che si era un po’ aperto e rimase inchiodato, le dita irrigidite sopra i tasti . <> , “Vostra Grazia, chi mai non perderebbe la calma?”. Da vecchio, quando fu portato ad assistere ad un’esecuzione all’aperto della sua Creazione, ed era marzo e Venna era un po’ fresca, la Principessa Estherházy gli avvolse attorno alle gambe il suo scialle, egli sentì l’emozione salire vertiginosamente: buon rimedio, un bicchiere di vino.
Era simpatico. Sul suo ultimo biglietto da visita aveva stampato le prime battute d’un suo Lied: “La mia forza è perduta, sono vecchio e debole”: Ma in una delle ultime sue lettere aveva scritto: “Quando le forze fisiche e morali mi vengon meno, sento uno spirito misterioso mormorare: forse col tuo lavoro tu puoi confortare l’umanità….
Sono così poche le persone felici”.
Perché Brunello: poeta del violoncello, che nelle sue mani suscita l’intensità d’una meditazione, la leggerezza d’una danza. Affermato dovunque, creatore d’iniziative sempre contagiose e mai invadenti, è inconfondibilmente meraviglioso.
Perché Cadario: compositore tra i più imprevedibili la cui memoria raccoglie ogni esperienza e categoria musicale, trasformandole una cosa nuova, sta imponendosi anche come direttore che studia intensamente e intensamente sa fare studiare.