Le date
GUIDA ALL’ASCOLTO
di Paolo Castagnone
«Il mio percorso ha seguito uno sviluppo costante, che rispondeva al desiderio di raggiungere la massima semplicità» [Béla Bartók]
Nella seconda metà dell’Ottocento i giovani musicisti in cerca di una via d’uscita alla crisi del linguaggio accademico iniziarono a interessarsi agli idiomi popolari, affascinati dalla loro capacità di raccontare ogni evento della vita in infiniti modi. Fu così che un artista profondamente legato alla cultura del proprio Paese, l’ungherese Béla Bartók, assunse gli elementi basilari della musica slava a fondamento della propria invenzione. Con un paziente lavoro di ricerca, il compositore magiaro scoprì l’esistenza di antichissimi canti rimasti nella memoria collettiva delle comunità rurali. Quest’opera di recupero della tradizione – ora conservata in un imponente archivio nella città di Budapest – contribuì allo sviluppo dell’etnomusicologia e lo portò ad affermare: «Ognuna delle nostre melodie popolari è un vero modello di perfezione artistica. Nel campo delle forme semplici le ritengo senz’altro dei capolavori, esattamente come nel campo delle forme complesse lo sono una fuga di Bach o una sonata di Mozart».
Assai delicato fu però in Bartók il passaggio dall’esplorazione scientifica del materiale folklorico all’invenzione artistica. Si tratta di un lento processo di acquisizione in cui il documento popolare non viene più accettato come un genere inferiore che deve essere nobilitato ma, al contrario, detta orgogliosamente le condizioni della composizione. Nacquero così alcuni dei capolavori della sua prima maturità quali le Danze popolari rumene, nate come raccolta pianistica nel 1915 e trascritte per piccola orchestra nel ‘17. La musica danubiana, con la sua straordinaria ricchezza di ritmi e movenze melodiche, dà vita a un’armonia ardita; la ricerca di innovativi effetti sonori è però ricondotta a una costruzione formale ben delineata e simmetrica. Questa partitura di grande intensità e suggestione si apre con la Danza col bastone, in tempo “Molto moderato” e, passando dalla vitalità della Danza della fascia e della Polka rumena alla malinconica cantabilità della Danza del corno, giunge ai Măruntel, due movimenti assai veloci in cui l’orchestra si precipita in uno slancio inebriante.
«Mi alzo di buon’ora, m’inginocchio e prego Dio che anche per oggi mi venga l’ispirazione» [Franz Joseph Haydn]
Una delle più sensazionali scoperte musicologiche del secondo Novecento è costituita dal ritrovamento di un concerto per violoncello ricordato da Haydn nel suo Entwurf-Katalog, un catalogo autografo che egli cominciò a compilare verso il 1765. Creduta persa, l’opera è stata riscoperta nel 1961 dallo studioso Oldrich Pulkert nell’archivio del castello di Radenin in Boemia e, nel giro di pochi anni, è stata eseguita in tutto il mondo, entrando di diritto nel gotha del repertorio settecentesco.
Dagli studi condotti sul manoscritto si deduce che il lavoro risale al primo periodo di assunzione del compositore austriaco ad Esterhaza. In quegli anni vi era un solo violoncellista nell’orchestra; non vi è dunque alcun dubbio che il Concerto in do sia stato pensato per Franz Joseph Weigl, il padre del famoso operista, che nel 1761, su raccomandazione haydniana, era entrato a far parte dei musici di corte. Per lui vennero certamente pensati anche i numerosi soli delle Sinfonie “Le Matin, Le Midi, Le Soir”, che mostrano quanto egli dovesse possedere una tecnica brillante e un bel suono nei tempi lenti. Tuttavia, per quanto fosse sempre disposto ad accontentare le richieste dei colleghi, Haydn non gradiva troppo comporre pezzi di bravura. Si deve forse a ciò se i suoi concerti appartengono quasi tutti al tipo del “concerto da camera”, dove il solista è primus inter pares, collabora con l’orchestra più che contrapporvisi dialetticamente.
La partitura sembra voler mostrare il magistero compositivo del proprio autore sin dalle prime battute e già nel Moderato iniziale, con i suoi ritmi puntati “alla Lombarda” e il piglio vivace e brillante, si è proiettati nel “grande stile” dell’Haydn degli anni ‘60. Il seguente Adagio, impreziosito da un’incantevole e delicatissima melodia, ci fa conoscere l’animo sognante del suo autore: emergendo da un accompagnamento in filigrana, il solista può mettere in luce notevoli qualità espressive, sfruttando appieno il caldo registro del proprio strumento. L’Allegro molto conclusivo fonde gli stilemi tartiniani e vivaldiani alla brillantezza dei finali haydniani: scintillante e dichiaratamente gioioso, conclude degnamente una delle più belle creazioni del musicista austriaco.
«La musica è in me un dono di Dio» [Wolfgang Amadeus Mozart]
Leopold Mozart osteggia fino all’ultimo il fidanzamento tra il figlio e Konstanze Weber: agli occhi di un uomo imbevuto di una mentalità ancien régime non può apparire opportuno imparentarsi con una stirpe di musici ambulanti! Dopo le nozze, celebrate a Vienna il 4 agosto 1782 con la vistosa assenza dei familiari, il compositore si ripromette di portare quanto prima la moglie a Salisburgo per presentarla al padre e alla sorella. Il soggiorno salisburghese è pieno di amarezze, causate anche dai legami formali con la cappella musicale dell’odiatissimo arcivescovo Colloredo. A rinfrancare lo spirito avvilito degli sposi, sulla via del ritorno a casa giunge una lieta sorpresa, poiché a Linz li attende il Conte Thun, un sincero sostenitore del musicista sin dalla sua infanzia: grandi festeggiamenti e incarico di organizzare un’«Accademia» così, su due piedi. Amadeus, che in valigia non ha nulla di adatto alla circostanza, compone “a rotta di collo”, in circa quattro giorni, una grande Sinfonia nella luminosa tonalità di do maggiore.
Molto è stato detto sulla sua sconcertante rapidità creativa, ma qui l’impresa è tanto più impressionante se si pensa alla vastità dell’impianto dell’opera. La K 425 è la prima sinfonia mozartiana ove l’Adagio introduttivo viene impiegato in maniera tanto solenne e consapevole: è un’anticipazione della “Praga” e dell’Ouverture del “Don Giovanni”. Con questi esempi, però, l’introduzione della “Linz” non condivide l’estrema tensione drammatica e sembra invece riattingere alla teatralità barocca. Dopo una pausa con corona ecco apparire, purissimo, il tema principale dell’Allegro: con una tecnica già felicemente attuata nella “Haffner”, Mozart fa germinare una frase dall’altra, imprimendo al discorso un eloquio serrato e fuggevole che sembra temere le soste meditative.
Nel secondo movimento, Poco adagio, suonano anche le trombe e i timpani, contravvenendo a uno dei principi basilari della tradizione musicale settecentesca, che vorrebbe questi strumenti silenziosi durante i tempi lenti. Probabilmente all’anziano conte Thun piacevano le fanfare militari e l’amico compositore volle omaggiarlo con le squillanti sonorità da lui amate. La pagina è costruita su un ritmo di Siciliana impreziosito da lievi cromatismi, che conferiscono a un brano fondamentalmente contemplativo una malinconia di struggente bellezza. Dopo un Minuetto gioiosamente solenne e un Trio in cui l’oboe e il fagotto si divertono a disegnare una bella melodia contadinesca, il Presto finale rielabora in chiave personale uno degli stilemi preferiti da Haydn, la gioiosa fusione fra la scrittura contrappuntistica e una pulsazione ritmica scatenata, che conduce la Sinfonia al suo epilogo trionfale.
Il Cast
Direttore: Guenter Pichler
Violoncello: Frans Helmerson
Orchestra: I Pomeriggi Musicali