Le date
Guida all’ascolto:
a cura di Edgar Vallora
BACH – WEBERN – Ricercare BWV 1079
Grande l’affinità elettiva che Webern nutrì verso Bach. Soprattutto nel primo periodo creativo, quando la struttura della composizione era maggiormente limpida, il nostro autore fu in più casi attratto da modelli preesistenti: tra l’altro, l’interesse per il tema “vita-morte” – colonna portante della psicologia e cultura bachiana – era altrettanto evocativo per Webern, e rivela un alto grado di interessi esoterici-teologici (con conseguente riflesso in molte sue composizioni).
Risale al 1935 l’orchestrazione da parte di Webern di un “Ricercar” a 6 voci tratto dall’Offerta musicale BWV 1079 (uno dei capolavori bachiani, nato durante un viaggio a Postdam e dedicato “con grande umilità” al Federico II, re di Prussia: il tema era stato concepito dal re stesso, che ne aveva chiesto “un corretto sviluppo nel percorso dell’arte canonica della fuga”. Il risultato bachiano – celebrazione assoluta dell’arte del contrappunto – consistette in un “pacchetto” di musica da camera suddiviso in piccoli settings: un ricercare a 3 voci, dieci canoni e un ricercare a 6 voci).
Il termine “ricercar” (in luogo di “fuga”) deriva, lapallissianamente, dal termine italiano “ricercare”. Ma pare stia in piedi anche l’ipotesi – letteraria curiosità – che le lettere che formano la parola RICERCAR possano derivare dall’acrostico “Regis Iussu Cantio Et Reliquia Canonica Arte Risoluta”.
Famoso il tema di base, che presenta cinque note lapidarie (quattro ascendenti con la caduta dell’ultima; che dal pianissimo della prima nota, dopo un crescendo, si chiudono in un piano: estrema sottigliezza bachiana!).
Webern lavora con libertà. Colora ogni “entrata” delle voci con sofisticatissime differenziazioni timbriche, soprattutto affidate ai fiati, lasciando la linea contrappuntistica agli archi; aggiunge contrasti dinamici coraggiosamente personali. “Webern sottopone la partitura – commenta giustamente Roberto Ranieri – a una raffinatissima vivisezione timbrica, a volte a scapito della sintassi; violando in questo un principio rispettato da ogni trascrittore “normale”, che di norma assegna almeno al “tema”, unità linguistica centrale del contrappunto, un’unica veste timbrica. Webern addirittura introduce dei rallentando espressivi che stravolgono l’unità della struttura originaria. La musica di Bach, comunque, non solo resiste all’operazione, ma “parla” nell’idioma orchestrale del Novecento”. L’intento? Parole di Webern stesso: “Vorrei rendere la musica di Bach ancora più accessibile, questo è la vocazione che sento!”.
Esiste dunque una parte destruens dell’operazione weberniana: col rendere indipendenti le varie parti dell’originale si corre il rischio della disgregazione; ma – questa è la parte costruens – evince la sperimentazione di rinnovare, attraverso l’orchestrazione, il lessico dell’antica tradizione polifonica. E il risultato ha una trasparenza che non vela l’originale, anzi lo illumina di una luce magicamente inedita.
Alcuni commentatori hanno mosso accuse di “metamorfosi” della fuga di Bach, riferendosi alla volontà weberiana di raggiungere un grado di purezza ancor più elevato dell’originale. Adorno, da parte sua, riteneva che l’intervento fosse asservito alla composizione bachiana. Come sempre, nel mezzo sta il giusto: nessun rapporto di subordinazione, né da una parte né dall’altra. Webern vuole aiutare e sostenere l’ascoltatore: prima procedendo con l’analisi e la separazione della parti, poi riaffermando, con l’aiuto di una geniale orchestrazione, i lineamenti-base della scrittura contrappuntistica.
“Non è il caso – sono ancora parole dell’autore – di svelare-risvegliare quello che era ancora dormiente nella segretezza del mondo troppo astratto di Bach? Un mondo che ha tutto, ma come non-esistente per nessuno, e alla fine completamente incomprensibile…”
Perfetta, a chiusura, ci pare questa chiosa di Gerd Zacher: “Bisogna uscir fuori dal “ricercar”: qui si tratta di conquistare, e, semmai, al ricercar si deve ritornare in seguito. Certo, il traguardo del ricercar weberiano, dopo questo “evento”, sarà differente dal ricercar bachiano. Ma come la cenere dalla quale nasciamo è differente dalle cenere di quello che siamo dopo la nostra morte”.
BERG – Concerto per pianoforte, violino e orchestra di fiati
Curioso, intrigante, molto apprezzato dalla critica ma poco conosciuto dal pubblico (principalmente per l’insolita formazione strumentale), questo “Concerto da camera” ebbe – almeno nelle intenzioni dell’autore – un’ossatura programmatica assai stagliata. Sul piano della realtà umana, avrebbe dovuto costituire il regalo per il cinquantesimo compleanno del suo maestro, Arnold Schoenberg (e pertanto da “consegnare” nel settembre 1924). La realtà cronologica fu invece scompaginata: Berg iniziò, sì, a lavorarvi alla fine del ’23 ma lo completò due anni più tardi, solamente nel luglio 1925. Anno comunque fortunato: se è vero che l’opera Wozzeck era stata chiusa nel 1921, fu la prima esecuzione del 1925 che decretò Berg quale “voce autorevole-dominante” nel panorama della musica contemporanea.
Anche sotto il profilo compositivo il Concerto ebbe un percorso tortuoso, dibattuto tra due diversi progetti: all’inizio era stato “pianificato” un piccolo Concerto per soli strumenti a fiato; ma, a parte l’iniziale annuncio di Berg, di tale progetto non se ne ha traccia. Da un’altra parte il compositore da tempo ambiva comporre un Concerto per pianoforte e orchestra. Così – ma si badi: con l’aggiunta di un violino solista come terza voce – le varie ambizioni psicologiche confluiscono nel Concerto per pianoforte, violino e 13 fiati. Seppur siano note le difficoltà, proprio in quegli anni, nella relazione amicale fra Berg e Schoenberg, tuttavia il Concerto resta l’emblema simbolico di una rara e forte complicità intellettuale (e questo evince, sia nella dedica, sia nella struttura compositiva).
Esiste poi una lettera diretta a Schoenberg (febbraio 1925), grazie alla quale scopriamo ulteriori intenzioni teoriche, più legate alla struttura tecnica del brano: qui si fissano apertamente le regole del gioco, il “programma tecnico-compositivo” che sta alla base dell’opera. Innanzitutto il Concerto è “giocato” sul numero 3 (tre movimenti, tre le famiglie di strumenti – pianoforte, violino e fiati -, temi con un numero di battute sempre multipli del tre, ecc.). Seconda notazione importante: i tre nomi dei compositori ispiratori – vale a dire Schoenberg, Webern e Berg – compaiono (musicalmente trasformati) nelle tre frasi d’apertura: rifacendoci al codice musicale delle lettere tedesche, che indicano le varie tonalità (ArnolD SCHoenBErG, Anton wEBErn, AlBAn BERrG: vale a dire La, Re, Mi bemolle ecc.).
Sul piano della struttura formale, il primo movimento sceglie la forma di Tema (l’indicazione è scherzoso) con variazioni. Anche qui i ben noti “giochi” berghiani sul materiale di base: il tema ritorna nella seconda variazione ma impostato in forma retrograda; come pure il tema è invertito nelle tre variazioni che seguono; mentre nell’ultima variazione ritorna al tema “puro” ma snodato in una serie di Canoni.
Ma esistono ancora altre implicazioni psicologiche-musicali: in questo caso è merito della musicologa Benda Dalen l’aver intuito, scandagliando alcuni commenti di Berg, che i tre movimenti sono collegati a tre parole di forte contenuto simbolico: Amicizia, Amore, Mondo.
Se il primo movimento era indubitabilmente legato al valore dell’amicizia, nel secondo movimento, Adagio, è l’amore ad essere “l’impressione fotografica” del brano: per questo alcuni commentatori hanno fatto riferimento alla moglie di Schoenberg, Mathilde, recentemente scomparsa. Anche qui trovate enigmistico-creative: il brano è infatti strutturato su un tracciato palindromo (vale a dire la sezione ternaria che apre il movimento viene ripetuta esattamente al contrario). Curioso che il pianoforte taccia sino al momento in cui rimarca l’inizio di questa “immagine a specchio” (e anche nell’opera Lulu il punto centrale di un palindromo musicale è segnalato dal pianoforte).
A chiudere il Concerto è un Rondò, che riunisce materiali tematici dei due precedenti movimenti. La cadenza introduttiva di violino e di pianoforte sfocia in un Rondò ritmico dove – come indica la notazione stessa – sono i ritmi a dominare, e non i temi. In quest’ultima parte il “programma simbolico” è il Mondo; e nella sopraccitata lettera Berg parla della rappresentazione del mondo e della vita “come un caleidoscopio”. E i ritmi trasmettono perfettamente l’immagine del caleidoscopio. Una serrata coda rintraccia e richiama ancora una volta i tre temi principali della composizione e i tre ispiratori (…Schoenberg evocato dal trombone, Webern dal corno, Berg dalla tromba).
L’opera venne offerta in prima esecuzione a Berlino nel marzo del 1927, direttore Hermann Scherchen.
MENDELSSOHN – Concerto per violino, pianoforte e orchestra d’archi
Alle proprie composizioni giovanili Mendelssohn guardò, da adulto, con severo (e forse logico) distacco; al punto di non inserirle nemmeno nell’edizione delle sue opere. Atteggiamento questo che punisce ad esempio i primi due Concerti per violino e orchestra (non stiamo alludendo al “grande” Op.64) e del Doppio per violino, pianoforte e archi, rimasti infatti alla stato di manoscritto fino al secondo dopoguerra e pubblicati solo pochi decenni or sono. Si trattava, sicuramente, di opere finalizzate al “prender la mano” (compositivamente parlando), ma comunque destinate, sul piano pratico, a quegli intrattenimenti musicali domenicali (le famose Sonntagmusiken) in voga ai tempi. Se pur trattasi di prepotenti affermazioni della precocità musicale dell’autore, ovviamente non troviamo i segni dello stile maturo mendelssohniano: opere comunque interessanti per scoprire le ascendenze, le tracce, le influenze che ebbero peso nella sua formazione, la sintesi che egli faceva dei modelli proposti dall’ultimo maestro, Carl Friedrich Zelter.
(Antefatto. All’inizio del 1822, Goethe, amico di famiglia, aveva inviato un biglietto a Felix, biglietto che terminava con le seguenti parole: “Ci auguriamo costantemente che ti riavvicini a noi e che componga vivacemente”. Così, nel settembre 1822, la famiglia Mendelssohn, al ritorno da un viaggio in Svizzera, si ferma a Weimar. Proprio negli stessi mesi, il maestro Zelter dichiarava, a proposito di progressi del piccolo allievo: “Penso che, oltreché compositore, Felix possa diventare un gran violinista”). Evidentemente influenzato da questo sproni, Mendelssohn – quattordici anni appena compiuti – stava dedicandosi a partiture per violino e orchestra: tra queste a quel curioso Doppio, il Concerto per violino e pianoforte in programma questa sera, il cui manoscritto reca la data precisa del 6 maggio 1823 (posteriore di un anno rispetto ai due “piccoli” Concerti per violino). Lo spessore della parte violinistica (più ancora di quella del pianoforte) testimonia indubbi salti di qualità, notevoli progressi nel dominio della tecnica di tale strumento.
E’ vero che, nell’impianto generale, l’autore ricorre più o meno involontariamente a modelli del passato: non mancano le influenze “di scuola” ma affiorano comunque modelli più contemporanei (vedasi l’impostazione del concerto Biedermaier): se la funzione dell’orchestra d’archi è relativamente accessoria (sempre brevi gli interventi di raccordo), la concezione formale delle parti solistiche è già mendelssohnianamente rapsodica e pertanto di sicuro potere innovativo. Non ci si lasci – a tal proposito – fuorviare dall’introduzione orchestrale dell’Allegro d’apertura, che ricalca un impianto classico-tradizionale (con la sensazione di “un qualcosa di già ascoltato”); non appena il pianoforte “agguanta” la tastiera, seguìto dal piglio pre-paganiniano del violino, ci si rende conto delle frecce che il genio precoce era già in grado di avere al suo arco.
Il lavoro tematico è serio e serrato, ma quel che maggiormente colpisce è il vulcano di fantasia e di estro (al limite dell’esuberanza caleidoscopica di idee, non priva di qualche intemperanza propria dell’adolescenza). I due solisti sposano una scrittura marcatamente brillante (anche se con una tecnica giudicata “non trascendentale”; e soprattutto per quanto riguarda il pianoforte, piuttosto “antiquata”), sempre improntata ad una filosofia di collaborazione piuttosto che di antagonismo.
Indimenticabili due inserti, all’interno di uno sviluppo considerato “insolito” da tutta la critica: un dolce in re bemolle maggiore, tema lirico dalle tinte schubertiane; e una sorta di recitativo andante, nel quale il violino diviene protagonista assoluto.
Segue un Andante, insolitamente esteso, snodato in tre strofe (la seconda delle quali in minore), che dopo un lungo ricorrere-rincorrere, alla fine si spegne come una candela. Atmosfera generale indubbiamente mozartiana, basata su una limpida cantabilità dei due solisti, con volute incursioni nel mondo belcantistico. Ma anche in questo intermezzo alcuni “scarti” romantici lasciano intravedere gli sviluppi del futuro Mendelssohn adulto.
A chiudere il Concerto è un Finale di sapore “zingaresco”, improntato a una brillantezza smagliante e compiaciuta, che offre grande spazio al virtuosismo degli interpreti; segno tangibile della volontà del giovanissimo compositore quattordicenne nell’emancipazione da modelli superati. Anche in quest’ultimo movimento non mancano parentesi di struggente dolcezza: come quando, dopo lo sviluppo, fiorisce un tema secondario che sembra “bloccare il tutto nell’incanto”; mentre invece la coda risuona fortissimo, e il Concerto chiude abbandonando perfino la tonalità minore di base.
Non si hanno notizie sulle prime esecuzioni del Concerto.
Il Cast
Direttore: Antonello Manacorda
Violino: Alexander Janiczek
Pianoforte: Llyr Williams
Orchestra: I Pomeriggi Musicali