Le date
Guida all’ascolto:
a cura di Piero Rattalino
La disastrosa sconfitta che la Francia subì ad opera della Prussia nel 1870 provocò nei musicisti una reazione di orgoglio che li indusse a cercare di uscire, nel campo della musica sinfonica e da camera, dal cono d’ombra in cui li aveva confinati la dominante civiltà austrotedesca. C’era stato un periodo della storia in cui la civiltà francese non era stata seconda a nessuno: c’era stato al tempo del Re Sole, c’era stato al tempo di Lully e di Rameau. La rievocazione del barocco francese divenne uno dei filoni attraverso i quali si materializzò la riscossa, e la pavana – che in origine era padovana, ma pazienza! – ne divenne il simbolo principale. Saint-Saëns introdusse una pavana nell’opera Étienne Marcel nel 1877, e un’altra in Proserpine nel 1886. La Pavana in fa diesis minore op. 50 di Fauré, la nostalgica molle melodia cantata dal flauto e che tanto piacque ai legittimisti, fu composta nel 1887 e fu dedicata alla contessa Greffuhle, mecenate di molti artisti. Divenne rapidamente celeberrima, la Pavana di Fauré, tanto da indurre un famoso dandy, Robert de Montesquieu, che era anche cugino e consigliere artistico della contessa, ad aggiungerle dei versi. Nel 1917, coreografata da Massine, la Pavana ottenne il suo ultimo trionfo entrando nel repertorio dei Balletti Russi di Diaghilev.
Il primo concertista itinerante di pianoforte, come già mi è avvenuto di dire in una di queste presentazioni, fu Dussek. Il più noto ritratto di Dussek ce lo mostra al termine della carriera, con le grosse guance rigonfie come quelle dei nani di Biancaneve. Ma in gioventù Dussek era detto Il bel Dussek, e il suo purissimo profilo incantava le femmine al punto da indurre il proprietario dello stesso ad operare una piccola rivoluzione: il pianista, che fino ad allora aveva mostrato al pubblico le terga, come oggi il direttore d’orchestra, facendo una giravolta di novanta gradi mostrò il fianco destro,… e il profilo. Essere belli non era per i pianisti indispensabile, però non guastava. Bruttissimo era Hummel, e Moscheles sembrava un impiegato del catasto austriaco. Bell’uomo Kalkbrenner, e bellissimo – il più bello prima di Liszt – Henri Herz. Kalkbrenner era tedesco di nascita, Herz viennese, ma entrambi si erano pariginizzati al punto da possedere al più alto grado le doti del seduttore francese. Kalkbrenner, pare, incorse persino nel reato di bigamia, Herz collezionò una serie di cuori infranti. Già anziano – morì a ottantacinque anni – suonò a Torino il suo Concerto n. 8. E lo storico dei Concerti Popolari, Giuseppe Depanis, non mancò di osservare che l’illustre maestro era accompagnato da una bella giovane moglie.
Nato a Vienna nel 1803, Herz studiò prima a Coblenza e dal 1816 nel conservatorio di Parigi. Divenne popolare come pianista-compositore nel 1828, quando eseguì il suo Concerto n. 1 op. 34, dedicato alla Duchessa del Berry, figlia del Re delle Due Sicilie e vedova del figlio di Carlo X, assassinato nel 1820. La duchessa gradì e la dedica e la musica, e il venticinquenne bellissimo Herz si trovò lanciato nel gran mondo parigino. Fioccarono le richieste di lezioni private, fioccarono le ordinazioni degli editori. Herz, prodigiosamente attivo, riceveva il primo allievo alle cinque (del mattino) e sfornava variazioni su temi d’opera a getto continuo. Fondò una fabbrica di pianoforti, inventò il Dactylion, attrezzo che serviva a rinforzare i muscoli flessori delle dita, e non trascurò di visitare i bordelli d’alta classe di cui divenne assiduo cliente. Nel 1845 fu il secondo grande pianista europeo – il primo era stato Leopold de Meyer – a recarsi negli Stati Uniti. E l’Alabama Planter, facendo il paragone fra i due campioni, scrisse: “De Meyer può frantumare i pianoforti, Herz può frantumare i cuori”. Questo fortunato tritamuscolicardiaci visse felicemente fino al 1888. La sua musica, si disse, lo aveva preceduto nella tomba alcuni decenni prima.
Gli otto Concerti di Herz si collocano fra il 1828 e il 1873, il n. 1 è op. 34, il no. 8 è op. 218. Il n. 5, in fa minore op. 180, è del 1854 e, date le sue caratteristiche Biedermeier di cui poi parleremo, è già un frutto fuori stagione perché negli anni cinquanta – con Litolff, Kullak, Dupont, Prudent, Bendel, il n. 1 di Brahms – era all’ordine del giorno il concerto sinfonico. Contrariamente a quanto avviene con i concerti Biedermeier del periodo della Restaurazione, che di norma sono imponenti, le dimensioni dei concerti di Herz oscillano fra i quindici e i trenta minuti di durata. Il Concerto n. 5, con i suoi sedici minuti, è uno di quelli di “piccola taglia”. E di piccola taglia, con i suoi sei minuti scarsi, è soprattutto il primo movimento. Herz rinuncia qui sia all’esposizione orchestrale, seguendo in ciò l’esempio di Mendelssohn, sia alla maestosa tripartizione in esposizione, sviluppo e riesposizione. Il primo movimento è rapsodico, con la tipica alternanza del momento vocale-patetico e del momento coreutico-motorio che caratterizza il concerto Biedermeier. Il secondo movimento è in mi maggiore, tonalità lontanissima da quella del primo movimento e che viene scelta da Herz, evidentemente, per la sua timbrica molto morbida. Si tratta di una delicata romanza vocalistica, con tratti che derivano melodicamente da Bellini e strumentalmente da Mendelssohn. Curiosa però, persino involontariamente comica la chiusa fragorosa dell’orchestra. Finale danzante, ballettistico, con una turbinosa sezione conclusiva che aggiunge un grado in più di eccitazione motoria quando sembra che già sia stato raggiunto il culmine. Concerto come spettacolo, insomma, abilmente confezionato da un maestro dello spettacolo.
Michele Dall’Ongaro, nato a Roma nel 1957 e formatosi nel conservatorio di S. Cecilia, è autore di una folta produzione che abbraccia vari generi, dal teatro alla musica da camera alla musica elettronica. A partire dal 1996 egli si è dedicato di frequente al melologo, cioè – il lettore scusi la precisazione, forse non necessaria – alla musica strumentale con voce recitante. Il melologo è una specie di fiume carsico che, apparso verso il 1770 e capace di interessare allora persino Mozart, si inabissa e riemerge nel corso dell’Ottocento e del Novecento, ma che in realtà diventa il genere musicale più popolare a partire dal 1930, sia pure sotto la denominazione truffaldina di “musica filmica”. I melologhi classici – si pensi a Enoch Arden di Strauss – e la musica per film accompagnano lo sviluppo narrativo di una vicenda. Babelè di Dall’Ongaro, come altri recenti melologhi, trae invece lo spunto da un testo poetico non narrativo, fatto di immagini e tendente verso la pura suggestione sonora della parola, tanto che vengono impiegati inserti che, dice il poeta, “richiamano le antiche lingue della nostra storia come il sanscrito, l’antico macedone, il persiano, l’accadico, l’ittita, il sumerico e l’etrusco”. La partitura è strutturata attraverso sezioni diversamente caratterizzate che si susseguono senza soluzione di continuità, partendo sia dal suono che dal significato simbolico dei versi. Senza volere qui anticipare una valutazione che potrà essere fatta soltanto dopo la prima audizione, Babelè sembra a me un lavoro maturo e coerente sotto l’aspetto sia della poetica che dell’uso sofisticato delle tavolozza sonora.
Nel 1777 il ventunenne Mozart, incatenato ad impiego mediocre presso la corte arcivescovile di Salisburgo dopo i trionfi ottenuti da fanciullo in Germania, Francia, Ingilterra, Olanda, Italia, desiderava con tutte le sue forze di ritentare la sorte fuori dal paesello natio. Chiese un congedo temporaneo, gli fu negato, insistette, fu licenziato. A quel punto – si era alla fine di settembre – partì, trascorse l’autunno e l’inverno in varie località tedesche, e in primavera arrivò a Parigi,… giusto in tempo per scoprire che la capitale francese, tutta presa dalla lotta fra gluckisti e piccinisti, non aveva occhi e orecchie per lui. Nei quattro mesi trascorsi a Parigi Mozart riuscì a far sentire la sua musica in due sole occasioni: l’11 giugno fu eseguito all’Opéra il suo balletto Les petits rien, e il 18 giugno, al Concert Spirituel, la Sinfonia in re maggiore, classificata poi con il numero 31. In entrambe le occasioni Mozart dovette accontentarsi dell’onore dell’esecuzione, senza percepire un soldo per le sue fatiche. Anzi, il direttore del Concert Spirituel, Joseph Le Gros, dopo l’esecuzione ritenne che il secondo movimento della Sinfonia fosse troppo elaborato per le orecchie parigine, e per ulteriori esecuzioni chiese a Mozart di sostituirlo. E Mozart obbedì.
Orchestra nutritissima con archi, otto strumentini (Mozart impiegava per la prima volta i clarinetti), quattro ottoni e timpani, primo movimento festoso e brillante, congegnato in modo da attirare l’applauso. Fino all’incirca alla metà del Novecento – ce ne resta testimonianza in molte registrazioni live – si usava ancora applaudire alla fine del primo movimento delle sinfonie e dei concerti. Nel Settecento, se c’era qualcosa che deliziava particolarmente gli ascoltatori, si applaudiva anche durante il movimento. Nel primo movimento della Sinfonia n. 31 Mozart piazzò un episodio melodico da applauso. E applauso fu. “Siccome quando lo composi sapevo bene”, scrisse Mozart al padre, “quale effetto avrebbe prodotto, lo ripresi una seconda volta prima della fine,… e gli applausi ritornarono da capo”. L’Andate che segue – il primo, non quello voluto da Le Gros – è una pagina incantevole, con due temi melodici che si alternano più volte, sempre variati. Il finale, animatissimo, vorticoso, si apre in piano con i soli violini, poi scoppia in un tutti clamoroso. Si tratta di un coup-de-théatre escogitato da Mozart: “Gli ascoltatori (come mi aspettavo) fecero ssst al momento del piano, poi seguì immediatamente il forte; sentire il forte ed applaudire fu tutt’uno”. Oggi queste cose accadono solo più al circo. Peccato che la musica colta, votatasi all’ascolto rituale, le abbia accantonate.
Babelé
per voce recitante e orchestra testo di Pier Luigi Berdondini
Semi di sabbia acini bianchi – ruggine – miraggi fra le mura del cielo – abbagli parvenze chimere – una fiaba sottovoce – appena appesa – una tiepida sciarpa – per avvolgere il seno – e fare del viaggio – promessa di non dirci – altro che un suono – così che la parola assente – nella città di voci arcobaleno – sospesa fra la luna e il giorno – sussista – oltre l’aurora
Ar-shad jivan – surya candra isvara – nam-lugal nam-dingir – asman – nin-a-ni lugal-ki-en-gi-ki-uri-ke – kthaveth – samekh – alamkarà
Decìbel decibèl – fiori di lino fili di betulla – nei clacson fotografati – sui cuscini della melodia – ho liberato libertà da libertà – c’è brezza di grecale sulle torri – monotonia celeste – a volte – dei rumori occorre sporcarsi – seduce il sorriso del silenzio – come sorso di vita – fra macerie di parole che legano le cose – e come un fiore – profuma la solitudine – conforto – non già speranza
Ho aperto il seme della sete – e disegnato il deserto sul palmo della mano – spogliando sensi tuniche parole – ho camminato i miraggi di sorgente in sorgente – fino al sospiro delle tue labbra – ma tu – non sai di tutto questo – e solo di incerto ci amiamo
Trascorrere così fuori disegno – come gracile punta di matita – dispersa tra colori stridenti – declinando nei tratti – le macchie consumate – un temperato giaciglio – sulla tela abbaiano i rumori – a quei rumori trovo pace – nonostante – ella viene nel bacio – al primo affanno – di volare ancorati alla terra
Il-sa-num-ak-ka-di-tum – ka-dingir-ra – kitab – kataba – hamsu – puatì – sakrumàs
Tagliamo le tracce con ritmi leggeri – portandoci al sole quel poco che basta – in dote la melodia dell’iride – ti donerò i miei passi – ci lasceremo un viaggio – appeso al sillabario – nei suoni del dove che dissolve
Il tuo nulla è diverso dal mio – tutto si fa utile nel nulla – e ce ne stiamo bene – perchè non ci rubano – non ci illudono – non ci consolano – ci perdiamo per mano – e camminiamo sulle ipocrisie – nel tuo nulla – il mio nulla è tuo – siamo di noi spogli – il nulla sottrae la solitudine – le case grasse e pungenti – si adagiano sulle parole – che fanno gli umani assenti – noi ci doniamo il nostro nulla – prima di tornare alle spine
Candidi pori pomice – assorbono forte il mare – l’arca dei sospiri apre la pietra – gli alveoli stringono il pane – le onde cesellano cristalli di sale – ossigeni fiammanti baciano il sangue – un soffio graffia – le cere dei volti – adagio – fortemente esplorando
Newa – taru – lukkè – harki – haran – mehur – ka-ni-is-su-wa-ar-ma-mu
Ho visto crescere il silenzio – dilatare il suono fino al divenire incerto di note arcobaleno – il colore del treno – attraversa l’oceano – e fa molte fermate – l’oceano è un vasto sali scendi – di puntini infiniti – di fiocchi di neve – velati – le onde frangono alte le parole
La mia donna siede sulla pietra – con le dita legge – sul colore degli intagli – l’usura del futuro – la voce disegna ciò che muta – il cammino muta sulla pietra
Ankalài – ankalos – ankàlè – etairoi – kanadoi – aithos – eys – ie – dele – mezenai – zalmos – zelmis – zeira
L’anima del silenzio – tra germogli elettronici di asfalti – passeggia nelle rughe del catrame – fra le maschere cammina – in piccoli passi di rugiada – un chicco la goccia fa un sentiero – sottovoce – fino a farsi cucciolo di nuvola – aliante trasparente al prossimo mattino
Solo il cammino sorge – solo l’incerto muove – muore ogni sicura cosa – chi osa il fine è incerto – certo è ogni fine
Uelcitanus – aberas – ampiles – aclus – xoffer – esvita
Il segno non si conclude – agisce efficacemente con docile vaghezza – il sale sul sale si perde – distrattamente – un frammento sussiste – gioca al caleidoscopio – diverso – ogni giorno ogni scopo – tu io nessuni al nostro nulla veri
Il Cast
Direttore e pianoforte: Howard Shelle
Voce recitante: Paolo Bessegato
Orchestra: I Pomeriggi Musicali