Le date
Gianfrancesco Malipiero: Vivaldiana
Franz Schubert: Rondò D438
Franz Schubert: Polonaise D580
Franz Schubert: Ouverture nello stile italiano D591
Felix Mendelssohn-Bartholdy: Concerto per violino e orchestra d’archi in re minore
Note di Sala
a cura di Mariateresa Dellaborra
Allievo di Marco Enrico Bossi presso il Liceo Musicale di Bologna, Gian Francesco Malipiero si avvicinò allo stile sinfonico del tardoromanticismo tedesco e dei maestri italiani del XVII e XVIII secolo. La frequentazione dell’Hochschule a Berlino prima e di Casella, Ravel e D’annunzio a Parigi poi, accentuarono l’eterogeneità dei suoi interessi, compreso quello legato allo studio della musica antica che lo condusse, tra il 1926 e il 1942, a pubblicare l’edizione completa delle opere di Claudio Monteverdi e a intraprendere la valorizzazione dell’opera di Antonio Vivaldi, soprintendendone dal 1947 l’edizione degli opera omnia. Nel 1952, proprio al culmine di questa intensa attività di revisione critica, abbandonata momentaneamente la produzione originale per orchestra, il compositore si dedicò ad alcuni lavori sinfonici di diverso significato e rilievo. Uno di questi è Vivaldiana che, se da un lato suggella i lunghi e approfonditi studi su più di un centinaio di concerti vivaldiani, dall’altro si innesta nella concezione stilistica dell’autore come conclusione di un periodo di diatonismo e arcaismo. Il ripensamento dello stile antico fu tuttavia valutato eccessivo dai primi ascoltatori di quest’opera al punto che qualcuno scrisse che avrebbe preferito ascoltare «un po’ meno Vivaldi e un po’ di più Malipiero dal momento che si era affrontato il rischio di un Vivaldi nato all’inizio del XX secolo». Ma l’atteggiamento del musicista di origine veneziana è molto chiaro e le sue intenzioni altrettanto palesi, come si può evincere da questa sua affermazione: «non cedere alla tentazione di trasformare Vivaldi in Beethoven alterando le armonie, i valori ritmici. Un musicista che interpreta Vivaldi deve essergli legato spiritualmente per comprendere la sua musica […]». In Viavaldiana resta dunque riconoscibile l’estrema libertà formale dell’autore, che favorisce l’espressione più fantasiosa del canto, senza cadere nel descrittivismo della musica a programma. La scrittura di impostazione tradizionale si arricchisce di cromatismi e di soluzioni armoniche audaci denotando come il compositore sia capace di reinventare e aggiornare il proprio stile.
Nel 1816 Franz Schubert vive presso la casa del professor Watteroth e conduce una vita comunitaria insieme ad altri studenti. È il momento in cui si sta dedicando alla cantata Prométhéus e a una serie di composizioni per piccolo organico probabilmente destinate alle serate di musica da camera con i compagni. È in questo contesto che, nel mese di giugno, vede la luce il Rondo in la per violino e orchestra d’archi. Concepito per un quintetto d’archi con violino solista – ma con la evidente possibilità di raddoppiare a piacere l’organico – il brano si impone per la sua freschezza e gioiosità. Lo stile non è innovativo, ma ricalca il solco della tradizione: inflessioni mozartiane nell’Adagio introduttivo, una «volontà d’attacco» più beethoveniana nell’Allegro giusto dallo charme melodico tipicamente schubertiano, ma il tutto saporosamente condito con indiscutibili padronanza e facilità di scrittura. Il solista si staglia sugli altri archi, il cui ruolo è semplicemente quello di fornire una base armonica, oppure di sottolineare la linea melodica, persino di rispondere ad eco al solo, o ancora di creare dei Tutti vigorosi.
Il 1817 è anno dedicato principalmente alla composizione di pagine per orchestra: in maggio l’ouverture D. 556 e in novembre le due D. 590 e D. 591 immediatamente rimaneggiate per altri organici (D. 592 e D. 597). Il ritorno a una scrittura sinfonica che Schubert non praticava da tempo, sembra ben collegato al suo rientro nella casa paterna dopo aver lungamente soggiornato da Schobert e aver partecipato attivamente alle sedute dell’orchestra di dilettanti diretta da Otto Hatwig. Il titolo di «ouverture nello stile italiano» assegnato alle due opere D. 590 e D. 591 non appare nei manoscritti ma si trova in una delle prime recensioni critiche apparsa dopo l’edizione di una delle ouverture (probabilmente la D. 590) durante un concerto nel maggio 1818: «L’ouverture de M. Schubert piacque molto. Essa imita il gusto italiano e quello del suo nuovo capo incontrastato, M Rossini» Questa denominazione, assimilata da Ferdinand, fratello di Franz, e conservata ancora oggi, descrive in modo piuttosto puntuale le caratteristiche delle due pagine che rispecchiano, seppure in maniera differente, alcuni tratti di italianità. Prima del 1817 a Vienna di Rossini il pubblico aveva ascoltato senza dubbio l’Inganno felice, Tancredi e Italiana in Algeri. E Schubert sicuramente era rimasto colpito dal Tancredi poiché ne farà una critica comparativa con Otello dichiarando la sua ammirazione non tanto per il gusto italiano in genere, ma soprattutto per l’orchestrazione di Rossini. La musica del pesarese inoltre aveva davvero sollevato estremo interesse presso il pubblico viennese e nessun compositore che volesse essere al passo coi tempi, poteva esimersi dal cimentarsi con lo stile italiano. Entrambe le ouverture di Schubert presentano la stessa struttura e identico organico, ma lo spirito che le permea è differente. La do maggiore D. 591 si compone di due tempi: si apre con un Adagio e si conclude con un Allegro. La sua scrittura è più serrata e concisa di quella delle ouverture precedenti. L’Adagio iniziale è tranquillo, sereno, quasi pastorale, e conduce a un piacevolissimo Allegro molto conciso, che non offre citazioni esplicite della musica rossiniana, ma sembra tentare, se non proprio una parodia, almeno un’imitazione dello stesso, una immedesimazione profonda attraverso l’individuazione dei caratteri. Lo si intuisce dall’iniziale tema pieno di buonumore e di vitalità, dalla serie di passaggi rapidi, dai grandi crescendo, dal trattamento solistico dei legni, dall’inflessione particolare di alcuni temi lirici e dal ricorso a una serie di procedimenti ritmici e armonici. Schubert si impadronisce dei mezzi rossiniani ma nel contempo continua a parlare la propria lingua, a mostrare lo stesso sorriso, a palesare improvvisamente la medesima malinconia. Questo accade nell’esposizione del secondo tema in la maggiore dell’Allegro, inconfondibilmente schubertiano.
La prima esecuzione delle tre ouverture avvenne nella società privata di concerti di Otto Hatwig, ma per le due “italiane” fu prevista anche un’esecuzione pubblica nel 1818. Di queste infatti Schubert fece dapprima una trascrizione per pianoforte a quattro mani e in un secondo momento per due pianoforti a quattro mani. In questa ultima versione la D. 591 venne eseguita in una serata memorabile a beneficio dell’attore Müller nella quale Schubert comparve eccezionalmente in pubblico come pianista.
Il concerto in re minore per violino e orchestra di Felix Mendelssohn Bartholdy risale agli anni di apprendistato e si colloca nel 1822, anno in cui il ragazzo prodigio era di ritorno a Berlino dopo un lungo viaggio in Svizzera per concerti. Nella sua casa della Leipziger Strasse n. 3 insieme alla sorella Fanny iniziò ad organizzare delle serate musicali alle quali accorreva il mondo della cultura e dell’arte cittadina. Probabilmente per una di queste circostanze fu approntato il concerto dedicato all’amico nonché maestro di violino Eduard Rietze. La composizione scomparve per lungo tempo dalle scene musicali e solo alla fine della seconda guerra mondiale, quando il manoscritto fu comprato dalla famiglia da Yehudi Menuhin, ritornò in auge. Lo stesso violinista ne curò anche la prima esecuzione. La composizione rivela chiaramente i modelli stilistici di riferimento che, almeno per quanto riguarda il primo movimento, sono francesi e italiani. I tratti peculiari di Viotti, di Rode (tra l’altro maestro di Rietze) e di Kreutzer affiorano negli andamenti del solista, ma anche nella concezione più generale della pagina. Il primo tema riprende una figura molto cara all’ambiente tedesco (è conosciuto come «Mannheimer Rakete») e consta di una figura ascendente di tre suoni, a intervalli disgiunti, già usata da Mozart e nelle prime sonate pianistiche beethoveniane. La natura di questa idea motivica è prettamente sinfonica e accentuano tale carattere anche il ritmo alquanto marziale nonché il prevalere di imponenti interventi del Tutti. La parte del solista ha una scrittura concertante che non rasenta necessariamente vette virtuosistiche impervie. Di tutt’altro carattere è il secondo movimento, una sorta di romanza melodica, piacevole, mai melensa. In essa, e in particolare nell’ornamentazione, si presagiscono, caso unico in questo concerto, somiglianze con alcuni passaggi del ben più celebre grande concerto in mi minore op. 64 di vent’anni più tardo. Il Rondò finale si ispira alla scuola francese che amava per l’ultimo movimento un pezzo elegante, magari esotico. Secondo le prescrizioni dell’epoca esso doveva contenere «i temi arditi che la fantasia sa creare, i sentimenti del cuore, le cose geniali che la mente inventa» (Lobe). Mendelssohn dimostra di conoscere molto bene questa prassi e la segue con estrema originalità. Il carattere del tema, il ritmo, i passaggi tecnici si adeguano alla tradizione, ma non mancano anche soluzioni originali e un poco trasgressive soprattutto nell’esposizione tematica. Il solista vi è impegnato ampiamente, senza tuttavia affrontare situazioni trascendentali, e con estrema soddisfazione. Non può inoltre esimersi dall’eseguire le cadenze del secondo e del terzo movimento scritte estesamente da Mendelssohn stesso. La composizione, nella sua totalità, pur essendo molto diversa dalle pagine della maturità e non presentando con esse nessuna connessione, fatta eccezione per alcuni stilemi del movimento centrale, si impone come una ulteriore e straordinaria prova di talento del precoce autore che padroneggia in modo magistrale l’orchestrazione e, pur forte di una rigorosa scuola contrappuntistica, rivela una vena di spontanea originalità e di libertà creativa.
Il Cast
Direttore e violino: Domenico Nordio
Orchestra: I Pomeriggi Musicali