Le date
Johannes Brahms (1833 – 1897) – Variazioni su un tema di Haydn op. 56a
Franz Liszt (1811 – 1886) – Concerto n. 2 in la maggiore S. 125 per pianoforte e orchestra
Witold Lutoslawski (1913 – 1994) – Musique funèbre per archi “à la memoire de Béla Bartok”
Béla Bartók (1881 – 1945) – Concerto n. 3 Sz 119 per pianoforte e orchestra
Guida all’ascolto:
a cura di Filippo Juvara
JOHANNES BRAHMS
Variazioni su un tema di Haydn op. 56a
La variazione ha nell’opera di Brahms un rilievo specialissimo e la tecnica della variazione è una parte essenziale dello stile dell’autore. Nel dibattito estetico-compositivo fra variazione formale (o figurale) e variazione di carattere, Brahms prese partito per la prima, ponendosi così nella linea conservatrice del proprio maestro E. Marxsen contro la tendenza, rappresentata da R. Schumann, della variazione di carattere. I modelli per Brahms – li cita in una lettera a Joachim – sono Beethoven e gli “antichi”: Bach, soprattutto, di cui aveva approfondito lo studio delle “Goldberg”.
“ln un tema per variazioni” – scrive a A. Schubring nel febbraio 1869 – “solo il basso, a dire il vero, significa qualcosa per me. Esso è sacro, è il solido fondamento sul quale costruisco le mie storie. Quello che faccio con la melodia sono giochetti, al più giochetti ingegnosi (…). Variando la melodia non porrei essere che grazioso o ingegnoso; sopra il basso dato io trovo qualcosa di realmente nuovo, trovo nuove melodie per il basso: creo”.
Appartengono a questa concezione le “Variazioni su un tema di Haydn” op, 56a, un’opera per la quale l’autore provava “un certo debole e che gli dava maggiore contentezza e soddisfazione di molte altre” (così a Clara Schumann il 15 marzo 1891).
E’ l’unica serie di variazioni che Brahms scrive per orchestra (“si tratta propriamente di variazioni per orchestra”, scrive l’autore a Simrock il 4 settembre 1873, anche se Brahms al tempo stesso considerava la versione per due pianoforti – op. 56 b – una versione in qualche modo parallela, non un arrangiamento).
Le “variazioni” sono composte nell’estate 1873, che Brahms trascorre a Tutzing, vicino a Monaco, sulle rive del lago di Stenberg (alla stessa estate risalgono i due Quartetti per archi op. 51). “Il tema delle mie variazioni Haydn è l’intero Andante di un divertimento per strumenti a fiato. Eccetto gli archi, è strumentato proprio come ha fatto Haydn ed è anche intitolato allo stesso modo (Corale di S. Antonio)” scrive a H. Deiters nel settembre 1880.
E’ un tema noto a Brahms dalla trascrizione che ne aveva fatto l’amico musicologo C. F. Pohl (il biografo haydniano aveva trascritto sei divertimenti per fiati, opere spurie secondo la più recente musicologia) e troviamo il “Chorale St. Antoni” annotato da Brahms assieme all’andante della sinfonia in si bemolle maggiore n. 16 in un foglio dell’autunno 1870 (non è però sicuro il fatto che Brahms abbia annotato il Corale nella stessa epoca dell’andante della sinfonia).
Nella scelta del tema, a Brahms furono estranee connotazioni quasi-religiose: “il tema” – scrive l’8 marzo 1882 a J. Spengel – è come l’ho avuto, incluse le quinte parallele ed esclusi i pizzicati.
Non so nient’altro sul Corale, né sul suo testo”. Hanslick, nella sua recensione, scrisse del tema “che si trattava probabilmente di un canto di pellegrini (Wallfahrtslied) di espressione pia, popolare…” e Kalbeck, dopo la morte di Brahms, interpretò la scelta di Brahms come una illustrazione musicale delle tentazioni di S. Antonio come nel dipinto (1855) di Anselm Feuerbach (il pittore distrusse il quadro, ma Brahms ne possedeva una fotografia) e come nel mistero di G. Flaubert (1871). Alfred von Ehrmann (1933) postulò invece che il corale provenisse dalla provincia di Burgenland e che la sua melodia fosse già antica quando Haydn viveva ad Eisenstadt, allora capitale del Burgenland.
La prima esecuzione delle “Variazioni” ebbe luogo a Vienna nella sala grande della Gesellschaft der Musikfreunde il 2 novembre 1873 in un concerto dell’Orchestra dell’Hof-Oper diretto da Otto Dessoff. Brahms diresse solo le sue “variazioni” inserite in un programma che comprendeva la sinfonia in re magg. “Haffner” di Mozart, l’ouverture per “Alfonso ed Estrella” di Schubert e la sinfonia n. 7 di Beethoven.
FRANZ LISZT
Concerto n. 2 in la maggiore S. 125
La cronologia dei tre principali lavori per pianoforte e orchestra di Liszt, che qui verranno commentati, è molto significativa:
Concerto n. 2 1856
Totentaz 1859
Concerto n. 2 1861
Sono queste le date in cui le tre opere vengono terminate; ma le date degli inizi riservano una sorpresa:
Concerto n. 1830
Totentanz 1834
Concerto n. 2 1839
Ancor più sorprendente si fa il panorama se si considerano le successive fasi delle diverse stesure:
Concerto n. 1 1830, 1849, 1853, 1856
Totentanz 1834-35, 1838, 1849, 1853, 1859
Concerto n. 2 1839, 1849, 1853, 1857, 1861
Insomma, negli anni 30 Liszt cominciò a pensare a tre grandi lavori, per i quali prese degli appunti e che non compì; nel 1849, dopo il ritiro dall’attività concertistica, arrivò a stenderne una versione completa; li riprese in mano nel 1853, dopo aver composto i primi poemi sinfonici; negli anni successivi li portò definitivamente a termine, uno alla volta e lentamente.
Si parla spesso della facilità e della faciloneria di Liszt: ventisei anni per condurre in porto il pirotecnico Concerto n. I, venticinque per tirare a lucido il tempestoso Totentanz, ventidue per dare l’ultima mano al fantasioso Concerto n. 2 sono invece, ci pare, la dimostrazione di un tormento creativo che ricorda molto più Flaubert che non Dumas.
Il tormento di Liszt nasce a parer nostro, come abbiamo detto nella parte generale, dalla sua coscienza della storia. Liszt, che fu accusato di smania di protagonismo e che fu commiserato perché non si era accontentato di essere il più grande pianista dei suoi tempi, ambiva in realtà a risolvere gli enigmi con cui la storia tentava la civiltà musicale dell’Occidente. Ma, essendo uomo di spettacolo, li risolse con opere che tenevano conto della dimensione di spettacolo in cui la musica viveva. La sua facilità consiste nella semplicità con cui la soluzione dell’enigma viene esposta al pubblico, la sua faciloneria consiste nel tono colloquiale e un po’ retorico che maschera la genialità della soluzione. Chi ripercorre la storia del concerto per pianoforte e orchestra trova però in Liszt il punto fermo di un’epoca e l’anello insopprimibile di una catena che parte da Mozart e che solo oggi tende a chiudersi su se stessa.
Dopo la prima esecuzione di Weimar (7 gennaio 1857, pianista Hans Bronsart, direttore Franz Liszt), il Concerto n. 2 fu riproposto raramente fino alla grande guerra. A riprenderlo furono soprattutto alcuni allievi di Liszt (Friedheim, Rosenthal, Sauer ed altri meno noti), ed inoltre Francio Panté e Ferruccio Busoni; nello stesso periodo il Concerto n. 1, eseguito da Liszt e subito ripreso da Alfredo Jaëll, diventava invece popolarissimo ed entrava nel repertorio di tutti i grandi concertisti. Tra le due guerre e fin verso il 1970 la popolarità di Liszt andò scemando. Il Concerto n. 1 restò tuttavia in repertorio, il Concerto n. 2 apparve raramente nelle stagioni sinfoniche; ma è tuttavia significativo il fatto che pianisti come Kempff, Arrau, Lipatti, Katchen, Brendel, eseguissero entrambi i concerti.
(Da Piero Rattalino: Il Concerto per pianoforte e orchestra, Ricordi/Giunti, Milano 1988)
WITOLD LUTOSLAWSKI
Musique funèbre per archi “à la memoire de Béla Bartók”
La prima affermazione di Lutoslawski come compositore originale avviene con le Variazioni sinfoniche (1938) nelle quali egli impiega un linguaggio chiaramente influenzato da Bartók, caratterizzato da una sapiente e raffinata ricerca timbrica e da un solido senso architettonico.
Dopo la guerra, Lutoslawski riappare con una musica che, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, non si discosta da quella degli esordi, accentuando anzi un certo folclorismo e rispettando proporzioni formali classiche, come era richiesto dai canoni estetici di regime.
L’interesse verso un affinamento privilegiato della componente coloristica si afferma chiaramente nel Concerto per orchestra (1954), nei sinfonici Preludia taneczne (Preludi di danza, 1955); è tuttavia con Muzyka zalobna (Musica funebre, in memoria di Béla Bartók, 1958) per orchestra d’archi, che si apre una nuova fase creativa nella carriera compositiva di Lutoslawski.
E’ l’autore stesso a parlarcene: “è il solo pezzo dove ho usato metodicamente una serie di dodici suoni nei due brani estremi. La composizione si svolge in quattro movimenti: Prologue, Métamorphose, Aporée e Epilogue. Ho utilizzato questa serie nel primo e nell’ultimo pezzo, basandomi sul principio del canone. Prima canoni a due parti, poi a quattro, a sei ed infine a otto nella chiusa di Prologue. Un circolo di suoni che si ripete ma l’inizio dei canoni non coincide affatto con l’inizio della serie e ciò fa si che ciascun tema di canone sia diverso dal punto di vista dell’andamento dei suoni, mentre è isoritmico. Ecco uno dei procedimenti impiegati.
Ma ciò che conta in queste parti è il risultato verticale dell’impiego di questa serie. Essa di compone soltanto di tritoni e di seconde minori.
Utilizzata nella forma di canone da certi risultati armonici che, non contenendo né seste né terze producono una certa atmosfera di vuoto sonoro che ben corrisponde al titolo del mezzo.
Le armonie e il carattere funebre della composizione si trovano solo nel Prologue e nell’Epilogue mentre l’espressione di Métamorphoses è del tutto diversa e ci conduce all’Apogée che si definisce di per se stessa per ricadere poi nel funebre.”
Una curva ben chiara all’autore ancora prima dell’inizio dell’atto compositivo: che si basa sempre da un lato sulla nozione concreta della forma musicale e dall’altro su idee chiave. Come dall’alto e dal basso: si deve camminare per le strade di una città ma anche vederla dall’alto di un aereo avvicinandosi gradualmente per vedere i dettagli.
Le idee chiave non sono temi nel senso tradizionale ma assieme di suoni legati fra di loro che accumulano una certa quantità di energia in un tempo assai limitato.
Musique funèbre ebbe la sua prima esecuzione a Katowice il 26 marzo 1958 con l’Orchestra Sinfonica della Radio Polacca diretta da Jan Krenz.
(Da Jean-Paul Couchoud: “La musique polonaise et Witold Lutoslawski, Stock/Musique, Paris, 1981)
BELA BARTOK
Concerto n. 3 Sz 119 per pianoforte e orchestra
Nel periodo che va dal ’40 al ’42, nei primi anni americani di Bartók, non venne alla luce alcuna opera originale e significativa, per cui può sembrare che si sia verificata un’interruzione naturale nel suo sviluppo stilistico; in realtà la trasformazione era iniziata in precedenza: l’impressionante originalità della sua musica e le sue caratteristiche generali avevano subito un’alterazione dopo che aveva composto Musica per archi, percussioni e celesta e la Sonata per due pianoforti e percussioni. Fu un cambiamento non brusco, ma irreversibile, e da questo momento in poi la sua musica divenne meno rigorosa, meno rigidamente organizzata, più fluida, più coloristica, ma sicuramente più interiorizzata e contrassegnata in maggior misura da contrasti estremi. A un periodo di costruttivismo fece seguito un periodo di, per così dire, umanesimo idealista. Bartók continuò i suoi tentativi di emulare le forme e i generi classici, ma l’impressione globale che se ne ricava, è di romanticismo.
Furono circostanze personali, sia politiche sia private, a contribuire in maniera decisiva ai cambiamenti che si verificarono nello stile. Innumerevoli lettere dimostrano che la rapida ascesa del nazismo fece sprofondare Bartók in uno stato di terrore, di protesta, di disapprovazione, per cui l’urgenza frenetica di completare il lavoro si alternava con un’imprevedibile paralisi creativa. Inoltre le gravi condizioni di salute della madre, nell’estate del 1939, e il suo decesso, nel dicembre dello stesso anno, lo segnarono profondamente: la coincidenza di disgrazie familiari e generali lo portarono ad abbandonare l’Ungheria e lo trascinarono verso quel profondo pessimismo espresso con tanta potenza dal Sesto Quartetto.
Per quanto l’idea di Bartók di una “fratellanza di nazioni”, venisse espressa in questi termini dal punto di vista formale, un’importante caratteristica del suo ultimo stile risiede nel fatto che un tema di apertura venga più spesso affidato a una grandiosa melodia strumentale di carattere espressamente ungherese. Il miglior esempio si trova nel movimento di apertura del Concerto per violino, che in un manoscritto anteriore viene indicato come “tempo di verbunkos”; altri esempi di verbunkos sono il primo movimento di Contrasti e il primo movimento del Terzo Concerto per pianoforte. Temi dichiaratamente ungheresi sono preponderanti nei lenti monologhi centrali, per esempio nel Divertimento (secondo movimento, fugato in ritmo puntato con il climax che ha inizio a battuta 64) e nel Concerto per orchestra (Elegia, i due lamenti da battuta 34 e da battuta 62).
Altri movimenti dimostrano che i procedimenti formali di Bartók potevano ancora suggerire in casi estremi un programma a essi sotteso, per esempio il quarto movimento del Concerto per orchestra (vedi Ujfalussy, 1965, per varie interpretazioni) e il secondo del Terzo Concerto per pianoforte, dove il riferimento è ancora più identificabile,in una citazione dal Heiliger Dankgesang (“preghiera di ringraziamento”) dell’op. 132 di Beethoven (questo spiega l’indicazione di Bartók Adagio religioso, che Serly utilizza pure nella sua edizione del Concerto per viola). In quest’ultimo periodo Bartók fece un uso maggiore di forme ortodosse (per esempio nelle ben proporzionate strutture sonatistiche del Sesto Quartetto e del Terzo Concerto per pianoforte) e di generi e di tipi di scrittura tratti dalla musica barocca (per esempio nella concezione bachiana della Sonata per violino e nelle parvenze da concerto grosso del Divertimento e del Concerto per violino).
Durante il periodo di quasi totale inattività creativa degli anni ’40-’42 Bartók rinunciò a una serie di interessanti richieste da parte del suo nuovo editore, Ralph Hawkes, adducendo a motivazione il proprio stato di paralisi creativa. Le opere che scrisse successivamente sono in qualche modo eccezionali. Non fosse altro che per il suo genere, il Concerto per orchestra rappresenta una caso a sé; fra l’altro fu messo insieme, in maniera affatto insolita, con elementi composti prima della data che figura sulla partitura e concepiti per un balletto. La Sonata per violino contiene la quintessenza della melodia bartókiana e mira a una estrema concentrazione espressiva, per cui non può essere considerata tipica. Il Terzo Concerto per pianoforte, composto per la moglie e calato in una forma chiaramente mozartiana, rappresenta un unicum nella produzione di Bartók. Tuttavia vi sono avvisaglie di una ripresa creativa negli ambiziosi progetti che Bartók aveva al momento della sua morte. Secondo la sua stessa testimonianza il Concerto per viola era “già abbozzato” e l’orchestrazione avrebbe dovuto essere per lui “un dettaglio puramente marginale”; erano in preparazione abbozzi per un settimo quartetto, voleva scrivere un nuovo lavoro corale e orchestrare le danze popolari rumene. Si può così comprendere l’affermazione fatta a un dottore dell’ospedale: “mi dispiace solo di dovermene andare con le valigie piene”.
(Vera Lambert e Laszlo Somfai: “Bartok” da The new Grove Modern Masters”, Ricordi/BMG, Milano 1995)
I primi abbozzi del Concerto n. 3 risalgono probabilmente ai mesi primaverili del 1945, ma la gran parte del lavoro fu attuato a Saranac Lake nei mesi di luglio e agosto. Per un sensibile peggioramento delle sue condizioni di salute Bartók rientrò a New York il 30 agosto e, pur giacendo a letto, lavorò con alacrità: entro le tre settimane di vita che gli restavano riuscì a concludere quasi tutta la partitura; la sua ansia di giungere in fondo è mostrata dall’apposizione sul manoscritto della parola «fine» prima ancora che il lavoro fosse effettivamente completato. Tibor Serly, che visitò Bartók il giorno prima che fosse ricoverato, poté notare che erano in bianco solo una quindicina di battute: il 26 settembre Bartók si spegneva al West Side Hospital. Essendo Serly il personaggio più vicino a Bartók negli ultimi giorni di vita e il più informato su quanto andava facendo, Péter Bartók e Ditta Pásztory non esitarono ad affidargli il manoscritto del concerto (congiuntamente agli abbozzi di quello per viola); Serly controllò attentamente i documenti e completò la linea pianistica e l’orchestrazione, l’una grazie ad indizi manoscritti che, come egli stesso ha dichiarato, «davano indicazione di come l’autore avrebbe completato la parte per piano», e l’altra in base a una lista di strumenti elencata sugli ultimi fogli. Oltre a ciò il manoscritto portava solo poche indicazioni di tempo e di espressione e nessuna indicazione di metronomo; esse furono aggiunte da una commissione formata da Serly, Ormandy, Erwin Stein e il pianista Lajos Kentner. Dopo la morte del marito, Ditta non era nella disposizione adatta per affrontare la prima interpretazione: il destino volle che non eseguisse mai in pubblico il concerto a lei destinato. Fu György Sándor ad affrontare la prima 1’8 febbraio 1946 a Filadelfia sotto la direzione di Ormandy: l’edizione di Boosey & Hawkes uscì poco dopo.
La volontà di procurare a Ditta qualcosa di confacente alla sua tecnica esecutiva rende ragione dello stile del concerto che, a differenza dei primi due, sembra proprio creato per un’espressività femminile; si tratta infatti di un’opera adatta «a far brillare l’interprete per velocità, tocco cristallino, frequente unisono delle due mani, poesia, qualità mozartiane», a mettere in luce dunque lo stile di Ditta, pianista meno incline alla percussività tipica del marito.
(da Antonio Castronovo: Bartók, Gioiosa Editrice, Bari 1995)
Il Cast
Direttore: Etienne Siebens
Pianoforte: Denes Varjon
Orchestra: Orchestra di Padova e del Veneto