Le date
Mozart: Sinfonia K319
Mozart: Concerti per pianoforte e orchestra K488 e K271
Note di sala
a cura di: Oreste Bossini
Il viaggio a Parigi intrapreso tra il 1777 e il 1778 segna una cesura netta nella vita di Mozart. Per comprendere il significato di questo spartiacque potrebbe essere utile il confronto tra il Concerto in mi bemolle maggiore KV 271 e la Sinfonia in si bemolle maggiore KV 319, due lavori scritti rispettivamente nei mesi precedenti e nei mesi seguenti a quella controversa esperienza.
In una lettera al padre Leopold da Parigi (5 aprile 1778), Mozart raccontava di nuovi progetti d’opera: «Il Noverre (da lui sono a pranzo quando ne ho voglia) ha preso la cosa su di sé, e ne ha dato l’iddè [l’idea]. Credo che ne verrà fuori un Alessandro e Roxane. Mad.me Jenomè è qui anch’essa». Jean-Georges Noverre era un maestro di ballo famoso e una personalità influente nel mondo del teatro a Parigi e a Vienna. Il nome di Mad.me Jenomè (in realtà Jenamy) non è collegato per caso a quello di Noverre, essendo quello della figlia di quest’ultimo. Nelle lettere Mozart e il padre si riferiscono varie volte a una “Jenomè” o “Madame genomai”, ma fino a pochi anni fa gli studiosi supponevano che fosse una musicista sconosciuta, alla quale due importanti musicologi del primo Novecento avevano attribuito il nome di fantasia Jeunehomme. Di recente invece, grazie alla scoperta di nuovi documenti, si è potuto stabilire con certezza che si trattava della figlia di Noverre, Victoire Jenamy, una delle più brillanti pianiste dell’epoca, che nel gennaio del 1777 aveva commissionato a Mozart un concerto per pianoforte. Questo spiega l’eccezionale qualità della scrittura del Concerto, che si stacca dagli analoghi lavori del periodo giovanile. Mozart, impaziente di cercare fortuna lontano dalla corte dell’Arcivescovo di Salisburgo, colse l’occasione per dimostrare alla celebre pianista il valore della sua musica, pensando già forse ai benefici che avrebbe potuto trarre dalla sua stima nell’ambiente artistico parigino. L’orchestra è di modeste proporzioni, con solo due oboi e due corni. Se le forze a disposizione erano scarse, le intenzioni viceversa sembravano grandi. L’Allegro si apre con un imperioso unisono dell’orchestra, alla quale il pianoforte risponde in maniera altrettanto fiera. Visto l’insuccesso di un atteggiamento arrogante, l’orchestra prova a imboccare una strada diversa, proponendo con maggior cortesia un nuovo tema al solista, che questa volta lascia passare il tutti. La scenetta conferisce un rilievo teatrale al pianoforte, che entra in azione in modo spettacolare senza aspettare la fine della cadenza dell’orchestra. Mozart arricchisce le forme del concerto, ma senza stravolgere le regole. Il solista elabora disciplinatamente il soggetto principale per raggiungere la tonalità di dominante (si bemolle maggiore), dove il secondo tema viene esposto con una tavolozza di colori più brillanti. Il Concerto si sviluppa come una partita a scacchi, nella quale pianoforte e orchestra si confrontano con arguzia rubandosi il materiale a vicenda. Le idee musicali si legano con fantasia l’una dopo l’altra e l’orchestra non è relegata in un ruolo subalterno, come avveniva nel vecchio concerto di stile galante. Anche la cadenza del pianoforte, di solito lasciata all’esibizione un po’ gratuita del solista, si integra nella struttura, variando in maniera ulteriore il materiale del movimento. Nell’Andantino centrale invece Mozart puntava a esprimere emozioni più profonde e dolorose. Il desiderio di conquistare l’illustre committente spiega infine l’ardita concezione del Rondeau (significativamente scritto alla francese) finale. L’episodio più sorprendente consiste nell’improvvisa comparsa di un Minuetto formato da un tema e quattro variazioni dopo il secondo ritornello. La dolce parentesi era senza dubbio un galante omaggio di stile francese a Madame Jenamy, offerto con un pizzico d’ironia e di melanconia da questo precoce Cherubino del pianoforte.
Il 16 gennaio 1779 Mozart arrivò a Salisburgo dopo il lungo viaggio a Parigi. Era stato lontano da casa circa 16 mesi e tornava in servizio dall’Arcivescovo frustrato e deluso. Parigi si era rivelata una città profondamente diversa da quella che aveva conosciuto da bambino. Sul piano professionale Mozart non aveva ricavato quasi nulla dal viaggio, mentre sul piano umano aveva subito colpi durissimi come la perdita della madre. Ma soprattutto aveva imparato una dura lezione di vita, ovvero che non era sufficiente essere il miglior musicista d’Europa per avere successo. La musica scritta nel 1779, non molto abbondante, riflette lo stato d’animo cupo e ferito di quei mesi vissuti a Salisburgo da sconfitto. In estate Mozart compose la Sinfonia in si bemolle maggiore KV 319, per un’orchestra ridotta, con solo una coppia di oboi, di fagotti e di corni. In origine il lavoro comprendeva tre movimenti. Il minuetto con trio fu aggiunto in maniera un po’ sbrigativa in un secondo momento, probabilmente nel 1785, per rendere il lavoro più simile al genere di sinfonia abituale a Vienna. La musica della Sinfonia è altrettanto spartana della strumentazione, come se l’autore fosse spinto a scrivere dalla necessità di adempiere a un dovere. Lo stile ricorda quello delle musiche da intrattenimento come il divertimento o la cassazione, con un’elaborazione limitata della forma. Anche la qualità dell’invenzione non è particolarmente brillante, tanto che Mozart sentì la necessità di aggiungere nuovo materiale nello sviluppo del primo movimento. Questo tema di quattro note tuttavia presenta la caratteristica interessante di essere imparentato con il soggetto del finale della sua ultima Sinfonia, la “Jupiter”. Lo stile contrappuntistico del resto è una delle caratteristiche anche di questo lavoro introverso e ombroso, che sembra animato da uno spirito irrequieto e impotente. Per rendersene conto basta prestare orecchio all’Andante moderato. La scrittura degli archi non abbandona che raramente la sonorità densa e scura di una tessitura sepre compatta, dove campeggia al centro del movimento un episodio a canone che gravita verso il basso man mano che si aggiungono le voci. Mozart è sempre un genio, ma si sta leccando le ferite.
A Mozart occorsero diversi anni per ritrovare l’audacia che il desiderio di compiacere Madame Jenamy gli aveva ispirato nel Concerto KV 271. Nei primi tempi della nuova vita di Vienna Mozart prese le misure del gusto del pubblico, ma comprese ben presto che per sollevarsi dalla mediocrità era necessario percorrere la propria strada. E all’inizio il pubblico lo seguì. Il Concerto in la maggiore KV 488 appartiene a un gruppo di lavori scritti nel volgere di appena tre anni, dal 1784 e il 1786. I 12 Concerti per pianoforte di questo periodo formano uno dei cicli più stupefacenti della storia musicale. Il Concerto KV 488, terminato il 2 marzo 1786, gravita nell’orbita stilistica delle Nozze di Figaro e contende al Concerto in re minore KV 466 la palma del lavoro più eseguito. La tonalità di la maggiore era una delle preferite di Mozart. Quasi tutti i lavori in la maggiore della maturità sono opere di prim’ordine, a cominciare dal Concerto per clarinetto KV 622. La coppia di clarinetti, al posto di quella di oboi, conferisce appunto al Concerto una tinta sonora particolare. Il timbro morbido e sensuale di questi strumenti esprime infatti il carattere riflessivo del movimento iniziale. La linea rotonda del tema principale s’impasta in maniera struggente al quartetto degli archi, ma la musica lascia trapelare subito un dolore intimo con un brusco salto discendente degli strumenti a fiato. L’entrata del pianoforte, che riprende il materiale dell’esposizione, ha un carattere colloquiale, come nella musica da camera. Il materiale è contrassegnato da uno stile cromatico, accentuato dal solista con l’esposizione del secondo tema in ottave spezzate. Come avviene spesso in Mozart, lo sviluppo offre l’occasione per presentare una nuova idea musicale, che sboccia all’improvviso dopo un gesto secco dell’orchestra. È la metamorfosi dell’idea principale in un contrappunto denso degli archi. Ripreso dal pianoforte, l’episodio genera un dialogo tra solista e orchestra che culmina con una ripetuta salita cromatica verso la dominante. L’Adagio invece non mescola gioia e melanconia, come avviene di solito in Mozart. Per una volta il regno del dolore prende il sopravvento, nella forma di una siciliana in fa diesis minore, unico movimento scritto da Mozart in questa rara tonalità. Nelle oscurità di questo Adagio, un raggio di luna rischiara per un breve momento la scena, con un episodio in la maggiore che anticipa i turbamenti di Donna Elvira in Don Giovanni. Di carattere completamente contrastante invece il torrenziale Allegro assai finale. Il tema del rondo-sonata è suggerito direttamente dal solista, che lascia il posto all’orchestra fino al primo couplet. Il problema del concerto consisteva per Mozart nel trovare uno stile interessante per i conoscitori, ma accessibile anche ai dilettanti. Il finale del Concerto offre un esempio eccezionale di questo stile mediano. Il continuo flusso d’idee sembra il frutto di un’espressione immediata, mentre invece tutto è organizzato secondo una strategia calibrata in maniera perfetta per regolare i rapporti tra il pianoforte e l’orchestra, senza rinunciare alla ricchezza di colori e alla rapidità di gesti di una totale libertà inventiva.
Il Cast
Direttore: Nicola Paszkowski
Pianoforte: Andrea Lucchesini
Orchestra: I Pomeriggi Musicali