Le date
Guida all’ascolto:
a cura di Sergio Casesi
“Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore”. Con queste parole Dante si rivolge a Virgilio descrivendo il legame che spesso si crea fra alcuni grandi del passato e gli artisti viventi. Parole che svelano l’atteggiamento profondamente commosso di un allievo verso il grande maestro, da cui si è appresa non solo la tecnica necessaria ad esprimersi, ma anche la concezione estetica ed etica del lavoro artistico. Una specie di adozione a distanza di secoli è questa elezione di un padre da cui prendere spunto per trovarsi, un padre in cui trovare certezze e forza per proseguire il proprio cammino. Il caso di Hindemith e di Bach è chiaro da questo punto di vista e il primo non rinunciò mai, sulla partitura come nelle pubblicazioni didattiche, a dichiarare le sue nobili ascendenze. Ma nel corso del novecento non è questo certo l’unico episodio. Nel saggio What Dante Means To Me, T.S. Eliot ad esempio dichiarò il debito che sentiva verso il Sommo Poeta e verso la sua intera produzione. Con le parole del poeta americano possiamo davvero comprendere il processo di affiliazione vissuto da tanti artisti specialmente del primo novecento.
In un periodo storico straziato da due guerre mondiali, da rivoluzioni sanguinarie e dai nuovi disumani ordini mondiali – il modello consumistico e quello comunista – gli artisti dovettero fronteggiare la crisi che il linguaggio subì per gli stravolgimenti della società su cui si appoggiava, la crisi di un linguaggio che non rispondeva più alla realtà sensibile. Per descriverla quindi erano inutilizzabili le forme ereditate dall’ottocento e anche la vecchia filosofia era ormai inservibile di fronte alla schiacciante supremazia della tecnica e della sua violenza. Artisti come Eliot o come Hindemith cercarono così la loro nuova lingua nella bocca dei loro amati padri lontani, riportandoli interamente nella contemporaneità. Percependo come simultanee opere create a distanza di secoli, gli artisti si pongono di fronte all’atemporalità delle creazioni del passato. In questo modo le nuove opere saranno decisivamente permeate dal senso di sospensione del tempo che ne deriva.
Non si tratta di una smentita del senso storico, anzi, nel ritrovare in ogni creazione artistica ciò che sopravvive al tempo, si ribadisce il corso della storia e si pone l’opera d’arte al di là di esso. Sappiamo che c’è un doppio scambio fra opera d’arte e società: l’opera è dovuta all’epoca in cui nasce, ma finisce con l’influenzare inevitabilmente non solo il suo tempo ma anche quello a venire. Ci sono opere che, grazie a questo intreccio, si rendono indispensabili all’identità degli uomini che da sempre hanno convissuto con esse. L’opera d’arte raggiunge l’oggetto di natura e si pone come parte integrante del mondo. L’esempio più grande e più semplice è proprio quello dantesco: la società del trecento è parte indispensabile della Commedia come essa lo è per
la lingua e la cultura italiana tutta; una fonda l’altra, per così dire, in una trama inestricabile. L’opera di Bach, dalla sua riscoperta ad oggi, rappresenta per la musica ciò che la Commedia rappresenta per la lingua italiana: un’immane enciclopedia in cui perdersi, un incredibile giardino di meraviglie in cui far finta di smarrirsi. E’ in sostanza il concetto di Classico modernamente inteso che viene ad essere scoperto. Il Classico quindi è qualcosa di costruente, che appare perfetto non perché privo di asperità o imperfezioni, ma perché proprio queste hanno perso il loro valore negativo divenendo nel tempo le fondamenta di una cultura multiforme, di una lingua e di un pensiero. L’opera che diviene un Classico abbandona così la prima relazione con il suo tempo per proiettarsi definitivamente, immobile e pur mutevole, nel divenire.
In Hindemith la presenza del pensiero bachiano si scontra però con i nuclei di un nuovo mondo in cui l’angoscia è il dato primario. Abbiamo così la deflagrazione del linguaggio bachiano le cui macerie Hindemith riutilizza per ricostruire un sistema che non può essere che volontariamente introflesso. Bach, la grande chiesa barocca della musica, appare viva agli occhi di Hindemith e pronta ad essere bombardata dallo spirito modernista della sua epoca. Possiamo distinguere nella musica di Hindemith gli stessi capitelli, gli stessi marmi e gli affreschi della chiesa bachiana, ma non possiamo non notare come questa nuova basilica ricostruita sia in realtà sconvolta, dolorante, angosciata e smarrita. Hindemith non edificherà la sua lingua con un sistema volto alla comunità come fece Bach, in modo introiettivo e del tutto in linea con le altre esperienze compositive della prima metà del secolo. Hindemith erigerà un linguaggio che solo può disperare la solitudine sperduta dell’uomo di fronte al proprio sfacelo. Così, cercando di sfuggire ad un romanticismo dove la soggettività era l’unica lente possibile, Hindemith cercò un’oggettivazione della materia musicale ispirandosi ai capolavori di Bach che sempre hanno sotteso uno scopo implicito, un’occasione precisa per la propria elaborazione, musica d’uso, nel senso più alto del termine.
Eppure la diametrale posizione degli esiti si avverte proprio negli aspetti specifici della fruizione di queste musiche. Bach rese la massima unità fra individuo e comunità, la sua musica celebra l’uomo inserito in una società inamovibile voluta da Dio; Hindemith descrive la totale alienazione dell’individuo di fronte alla società di cui è preda. Se si ascolta Bach consapevoli del fatto che l’orizzonte ideale espresso vuole essere comune a tutti, l’ascolto di Hindemith non può non tener conto dell’isolamento senza scampo dell’uomo moderno. Nelle Kammermusiken se ne rivela la desolazione, ad esempio, la condizione estraniata e alienata in cui versa.
Bach, come Dante, descrive una società composta da individui responsabili della propria vita e del proprio mondo davanti all’occhio di Dio, mentre Hindemith, come Eliot, descrive l’individuo travolto dalla caotica, deludente e disumana folla di uomini perduti. La polifonia con cui i due compositori hanno voluto esprimersi dimostra due modi antitetici di percepire la pluralità dell’essere: Bach nell’esaltante luce divina scopre l’affratellamento in Dio, mentre Hindemith non può che denunciare la solitaria angoscia che deriva dall’impostazione industriale della vita moderna che, moltiplicata la capacità autodistruttiva dell’uomo, non lo ha reso libero ma solo.
Così si rivela deforme lo specchio in cui scorgere il padre adottivo. Individuato il concetto di Classico, si è impossibilitati ad esprimerlo nuovamente se non mutandolo, trasformandolo in qualcosa di consonante con i tempi che si è costretti a vivere, più o meno come ciò che accadde all’Innocenzo X di Velasquez nella trasformazione di Francis Bacon.
Il Primo Concerto Brandeburghese esibisce un organico strumentale davvero particolare che induce a pensare a quanto peso debba aver avuto nella composizione una volontà teorica e illustrativa dei grandissimi mezzi del compositore, che inviava queste partiture con lo scopo, fallito, di farsi assumere. La prima parte della composizione, fino all’Adagio incentrato sul canto dell’oboe e del violino piccolo, è ben definita nella forma del Concerto, mentre la seconda si dispiega in una suite di danze alla francese. Gli quilli di caccia, il contrappunto serrato e favoloso, gli spunti melodici e la sapienza della costruzione fanno di questo Concerto un capolavoro della storia della musica, uno dei più alti esempi di pura musica strumentale.
La prima Kammermusik opera 24 si apre con un movimento turbinoso e violento, tempesta cinematografica e improvvisa che subito viene seguita da un più educato secondo tempo ritmico e ordinato, inciso in una cornice quadrata e sicura che ne spezza le linee di fuga.
Il terzo prosciugato movimento, Quartetto, vede il clarinetto e il fagotto con flauto e Glockenspiel impegnati a estrarre un canto trasfigurato e desolante da un densissimo silenzio fondo. Silenzio che non trova posto nel Finale 1921, furente ritmo di macchine, assordante lunghissimo urlo futurista, con cui Hindemith chiuderà il brano.
La Kammermusik n.2 op.36 è un serratissimo Concerto per Pianoforte che si apre con un tempo veloce d’acciaio e di piombo. Al solista viene affidata la trave di sostegno dell’intero movimento in cui l’orchestra trova posto solo come ornamento e sfondo coloristico. Il secondo movimento, annunciato da accordi dell’orchestra dalla luce sottomarina, viene raccontato in una polifonia in cui il solista potrà vagare come un sonnambulo senza pace. Al Kleines Potpourri che costituisce il terzo movimento è destinato l’angolo di circo leggero e poetico che sfugge alla logica dell’intera composizione, severa, profondamente moderna e rigorosa. Un piccolo sorriso prima del Finale che in un acerrimo Fugato trionferà senza esitazioni verso il fortissimo conclusivo.
Il Quarto dei Concerts avec plusieurs instruments (questo il titolo originale dei brandeburghesi) prevede un violino solo e due flauti come elemento concertante. Il carattere specifico degli strumenti solisti, nonché la scrittura votata alla loro esaltazione, danno all’intera composizione un aspetto gioioso e fresco, vivace e sereno. Memorabili le scale velocissime del violino nel primo movimento e il puro gioco polifonico che conclude il Concerto. L’andante, come uno spiro di vento in un giorno infelice, si leva soffiando nel cielo la polverosa vanità delle cose. Un quesito irrisolvibile è questo secondo movimento, musica scossa da un vento proveniente da un luogo soprannaturale, di cui non si può dare spiegazione.
Il Cast
Direttore: Antonello Manacorda
Pianoforte: Andrea Padova
Orchestra: I Pomeriggi Musicali