A.V. - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 20 novembre 2008
Ore: 20:30
sabato 22 novembre 2008
Ore: 17:00

GUIDA ALL’ASCOLTO
di Paolo Castagnone

«Ho immaginato che il concerto degli Istrumenti abbia a regolarsi a proporzione della passione»
[C. W. Gluck, prefazione all’Alceste]
Sul piano culturale il 1761 fu un anno magico per Vienna, poiché lì si incrociarono miracolosamente i destini di alcune individualità eccezionali per temperamento e consapevolezza artistica. In quello scorcio di secolo vi erano infatti attivi il coreografo fiorentino Gasparo Angiolini – colui che seppe «trasportare in pantomimo una Commedia, un Dramma e una Tragedia intera» – e il grande cantante Gaetano Guadagni, un interprete che sapeva fondersi con i sentimenti del personaggio. Da poco tempo erano giunti anche il poeta, libertino e avventuriero, Ranieri de’ Calzabigi e il musicista – tedesco di nascita, ma cosmopolita di formazione – Christoph Willibald Gluck. Tutti e quattro erano guidati dall’intelligente sensibilità del conte Giacomo Durazzo, figura di spicco dell’Illuminismo di metà Settecento e da un decennio “Direttore generale degli spettacoli” presso la corte imperiale.

Il risultato di questo fortunato incontro poté essere valutato la sera del 5 ottobre 1762, quando i viennesi assistettero alla prima esecuzione di Orfeo ed Euridice: libretto di Calzabigi, musiche di Gluck, Angiolini per le coreografie e Guadagni come protagonista assoluto. Il pubblico si divise nettamente in due fazioni e si può comprendere lo smarrimento di molti a contatto con un’essenzialità e una purezza di concetti che l’opera seria non aveva più conosciuto dai tempi di Monteverdi. Stupirono senza dubbio la sparizione del recitativo secco a favore di quello accompagnato, il ruolo imprescindibile del coro elevato a personaggio. E tutto perseguito con estrema lucidità dal compositore, il quale in seguito affermò: «Io credetti che il mio più grande sforzo si dovesse volgere alla ricerca di una splendida semplicità e non c’è alcuna regola stabilita che ritenni non si dovesse sacrificare di buon grado in favore dell’efficacia».

La «splendida semplicità» che Gluck professava di cercare è immediatamente manifestata dal grandioso respiro sinfonico dell’Ouverture, ricca di accenti patetici e introduzione a questa favola pastorale che è al contempo una riflessione sul dramma della morte e unacelebrazione del trionfo della vita grazie all’amore. Tuttavia un momento davvero topico
dell’opera è la prima scena del secondo Atto, ambientata negli oscuri antri dell’oltretomba; qui il musicista tedesco dispiega le nuove e potenti risorse dell’orchestra moderna e, dopo aver calcolato le relazioni tonali e gli allora sconvolgenti accordi improvvisi di settima di dominante e diminuita, dà vita a une delle esperienze teatrali più terrificanti e cariche di pathos mai vista sui palcoscenici dell’epoca. Il ballo delle Furie inizia con enfatici unisoni di mi bemolle, la tonalità in cui Orfeo inizierà la sua supplica, ma presto modula attraverso un labirinto di cromatismi e dissonanze a un tragico e lacerante do minore.

A questo momento coreutico, simbolo della terribilità dell’Ade, fa da contraltare il chiarore estatico della Danza delle ombre felici, che nel suo clima contemplativo e sospeso vuole rappresentare l’assenza di dolore delle anime beate. In una visione tipicamente illuministica si annuncia fin d’ora un’ideale parabola espressiva che, dalle tenebre delle morte, giungerà all’abbagliante luminosità dell’amore eterno. L’idea che diede vita a questa pagina di neoclassica purezza è liberamente ispirata al sesto libro dell’Eneide di Virgilio ed è mirabilmente commentata dai versi del libretto: «Che puro ciel, che chiaro sol, che nuova serena luce è questa mai? Questo è il soggiorno de’ fortunati Eroi».

«Sono un uomo di canto sotto tutte le forme»
[F. Poulenc]
Il 6 febbraio del 1959 debuttò uno dei lavori più complessi e raffinati di Francis Poulenc: “La voix humaine”.
Creare una partitura per la più rivoluzionaria opera teatrale dell’intimo amico Jean Cocteau fu la grande sfida, forse la più difficile, che il compositore francese intraprese nella sua continua ricerca di un sottile equilibrio tra recitazione e canto. Duecento anni dopo le riflessioni di Gluck e Calzabigi, un musicista si interroga nuovamente sul senso del “recitar cantando”, ovvero su quale deve essere la perfetta integrazione fra parola, scena e musica.

L’artista transalpino, già autore delle musiche per i “Dialogues des carmélites” di Bernanos, era conscio della sfida: in una serie di interviste ebbe modo di spiegare di aver atteso a lungo prima di sentirsi pronto per il compito e di essere debitore anche dello sprone di Hervé Dugardin, l’allora direttore della editrice Ricordi a Parigi. Nonostante le titubanze, l’esito venne immediatamente riconosciuto come estremamente positivo; Cocteau stesso ebbe a dire che il suo dramma, nato nel 1930 come lavoro in prosa, stava trovando la definitiva fisionomia a opera di Poulenc, il quale optò per una declamazione intonata che raramente si scioglie in autentico canto.

“La voix humaine” è incentrato sul tema dell’amore e della solitudine, incarnato da una figura femminile che consuma in uno spazio essenziale, di assoluta intimità, il distacco dal mondo e dagli affetti terreni. La donna, sola in scena, dialoga al telefono con un uomo: gli interventi musicali evitano di riempire i vuoti lasciati dall’assenza delle parole di chi è dall’altro capo del filo, riuscendo in tal modo a rendere percepibile la presenza dell’invisibile interlocutore. Lo scopo della partitura è di integrare i gesti, gli slanci e le inflessioni della protagonista che, dialogando con l’elemento musicale, possono produrre corrispondenze nuove e sospendere ancor più il dramma in un’atmosfera di indugio e di mistero.

Poiché la versione proposta è in forma semi-scenica, è forse opportuno rammentare l’ambientazione e il divenire dell’azione. Siamo nella camera da letto di una donna: squilla il telefono e inizia un monologo che, salvo alcune interruzioni, si protrarrà per tutta la durata dell’opera. L’atmosfera si fa presto tesa, facendoci intuire il tentativo di smascherare le reciproche bugie: le incomprensioni sono acuite dai disturbi sulla linea, dando ancor più il senso di una distanza incolmabile. Dopo un’interruzione lei confessa di non essere uscita la sera prima, ma di aver atteso spasmodicamente la sua telefonata; poi, nel tentativo di immergersi in un sonno senza sogni, aveva ingerito una dose massiccia di sonniferi.

Spaventata, aveva chiesto soccorso a un’amica, che era sopraggiunta con un medico alle quattro del mattino. La conversazione assume sempre più un tono disperato: la donna, dopo aver cercato di coinvolgere emotivamente l’amato nel proprio dolore, capisce che è impossibile ristabilire un vero dialogo con lui. Il legame si è spezzato e con esso la telefonata, che si chiude con un affranto “je t’aime”, la cui risposta è affidata all’orchestra con un accordo perentorio e definitivo.

Una sintesi perfetta della pièce venne tracciata da Denise Duval, prima interprete de “La voce umana”: «Si amerà sempre, si soffrirà sempre, si piangerà sempre: è ciò che dà alla Voix humaine una forma di eternità. Il dolore è dappertutto».

Il Cast

Direttore: Antonello Manacorda
Soprano: Tiziana Fabbricini
Orchestra: I Pomeriggi Musicali