Le date
Note di Sala:
a cura di Sergio Casesi
Il Concerto per violino è una delle ultime composizioni del grande maestro tedesco. Composto a Dusseldorf nel 1853 in sole due settimane è forse la testimonianza più grande del periodo finale della vita di Schumann. Dedicato al grande violinista ungherese Joseph Joachim rimase inedito per molti anni, considerato sia dal dedicatario che da Clara, l’amatissima moglie, nonché da Brahms una pagina non degna della pubblicazione, musica scritta nel delirio e quindi “folle”, fu rinchiuso nell’oblio lacerante dell’incomprensione e dell’indifferenza. Sappiamo addirittura che Clara fu sul punto di distruggere il manoscritto bruciandolo ma che all’ultimo momento un ripensamento, forse nostalgico, la fermò dal proposito. Il Concerto per violino così dovette aspettare gli anni trenta del ‘900 per essere suonato una prima volta e quindi, molto lentamente, entrare a far parte del grande repertorio, conquistato definitivamente soltanto negli anni ’80 del secolo appena trascorso.
Indicativo è come il primo giudizio sia pesato su questa straordinaria partitura, la definizione di folle ha stabilito per questa musica un destino purtroppo simile a quello di chi è tacciato di follia dalla società, che, proprio in virtù del potere che ha nell’allontanare chi oppone ad essa un’altra logica e un altro discorso, crede come vera solo la propria ragione, impedendo così un rapporto fra le diversità che sempre dalla stessa umanità sono informate, che fanno parte sempre e solo dell’essere umano e del suo fare. Così accadde anche a Schumann, che fu internato a Endenich, presso Bonn, in un manicomio che ora si onora di una targa in marmo a ricordo dell’evento.
Proprio nel rapporto fra ragione e “non-ragione” abbiamo la cifra di questa composizione.
Foucault scrive: “Nel mondo sereno della malattia mentale l’uomo moderno non comunica più con il pazzo: da una parte c’è l’uomo di ragione che affida la follia al medico, autorizzando un rapporto soltanto attraverso l’universalità astratta della malattia; dall’altra parte c’è l’uomo di follia che comunica con l’altro solo attraverso l’intermediazione di una ragione altrettanto astratta, che è ordine, costrizione fisica e morale, pressione anonima del gruppo, esigenza di conformità. Non esiste linguaggio comune, o meglio non esiste più; la costituzione della follia come malattia mentale , alla fine del XVIII secolo, redige il verbale di un dialogo interrotto, dà come acquisita la separazione, e sprofonda nell’oblio tutte queste parole imperfette, un po’ balbuzienti, nelle quali avveniva lo scambio fra follia e ragione. Il linguaggio della psichiatria, che è monologo della ragione sulla follia, si è potuto stabilire solo su un tale silenzio”. Ma proprio il testo del Concerto per violino ci appare oggi come un grido nel buio, come una messaggio che vuole incrinare il silenzio di quell’isolamento, un grido che spezzi il malvagio incanto dell’emarginazione che il potere può perpetrare, accontentando e nutrendo un etica borghese alla ricerca di rassicuranti quanto semplicistiche soluzioni ai grandi misteri dell’uomo, umiliandolo nella sola veste produttiva che per lui ha deciso, ignorando dell’uomo tutti gli aspetti più sottili, inafferrabili e sublimi, e quindi meno concreti.
Ma Schumann non era altro dal mondo solo perché folle, in quanto artista, e artista di genio sterminato, possedeva quella sensibilità necessaria per travalicare gli stretti passaggi della piccola logica della sua epoca. Tutta l’opera del maestro di Zwickau è un monumento alla capacità dell’uomo di volare oltre gli schemi rigidi di una società confinata nell’etica della propria produttività commerciale a cui tutto deve essere sottoposto. Schumann rappresenta uno dei punti più alti nella storia della musica e della cultura d’Europa proprio per la facoltà propria del suo discorso di trascendere l’oggetto e porsi in un mondo altro, un mondo di poesia come conoscenza, capace di arricchire l’esistenza. Quanta follia c’è sempre in qualsiasi discorso poetico? Nella frizione fra ragione e non-ragione, tra vero e falso, non possiamo ricondurre la maggior parte dei capolavori di tutti i tempi? Cosa è vero e cosa è falso nel “Sogno di una notte di mezza estate”, cosa in “Amleto? La metafora non è forse folle per sua natura? E non ricorre spesso la parola follia per descrivere i comportamenti più audaci? “Folle” è il volo di Ulisse nella Commedia, il suo lungo viaggio nella conoscenza, e non è forse “folle” l’amore più intenso, il coraggio più ardito, la corsa più appassionata? Non è simile alla follia lo sgomento mistico? Non fu giudicato forse pazzo dal padre S.Francesco?
Forse per Schumann, il cammino verso una lontananza dagli altri uomini era già scritto, e non necessariamente per la scabrosa stranezza del compositore ma molto più per il ripiegamento del mondo ragionevole che, vedendo solo e sempre la materia nel suo dispiegarsi positivo, nel suo essere empirico, ad ogni cosa dà un valore economico e che pone esso al di sopra di tutto, rifiutando tutto ciò che può turbare la operosa serenità del lavoro. Il mondo “ragionevole”, impegnato com’è a difendere se stesso dalla diversità, non vede però quanto di folle ci sia nel suo comportamento, come nel caso delle guerre o delle prevaricazioni sociali o della distruzione dell’ambiente. Poca cosa è la pazzia di Schumann e di tutti gli internati della storia al cospetto di certe follie del mondo ragionevole.
Eppure il Concerto per violino appare oggi più che mai un ponte da attraversare, un ponte che cerca di mettere in contatto due mondi che non comunicano ormai da molto tempo, ma per riuscire nell’impresa occorre un nostro atto di volontà, occorre dimenticare il concetto di follia che ormai ci è proprio per lasciar cadere il filtro che accompagna ogni nostro giudizio verso la diversità, occorre ascoltare il Concerto con una nuova antica sensibilità. È necessario infatti riprendere il senso che la parola follia aveva fra gli uomini dall’antichità o nel rinascimento, quando ancora si accettava la possibilità che esistesse un mistero nell’uomo, che non tutto fosse prima o poi destinato alla decifrazione assoluta e scientifica così riuscendo a domare l’ansia verso lo sconosciuto, e abbandonarsi al viaggio silenzioso dentro di sé, dentro il proprio mistero, dentro l’inspiegabile che in ognuno è parte del proprio essere. Occorre svelare a se stessi la propria parte inverosimile affinché si trovi consonanza con la musica di quest’ultimo Schumann, che solo così potrà trovare un’autentica collocazione nel nostro animo.
Sappiamo che Schumann amò studiare da autodidatta, sui testi di Bach e soprattutto sul Clavicembalo ben Temperato. Questo studio diede a Schumann sempre una visione polifonica del materiale musicale, anche quando non si trattava strettamente di polifonia, ed è questo uno sguardo molto molto moderno. Ma il contrappunto in questo concerto, la polifonia implicita delle melodie che il violino sosterrà con infinita passione, ma anche i salti lirici, le improvvise rarefazioni o gli slanci impetuosi che comunque sottostanno ad una costruzione compatta intorno ad alcuni elementi ricorrenti, dimostrano un uso diverso della tecnica, un uso “illogico” del materiale rispetto alle regole dell’accademia, ad esempio, ma anche rispetto ai lavori dei contemporanei.
L’uso differente è però significante di un contenuto differente, la grammatica e la sintassi del discorso schumaniano portano alle nostre anime descrizioni di paesaggi visibili solo con l’abbandono alla forza della poesia. Al di là dello sguardo materiale è possibile vivere e sentire la metafora nella carne e non solo concepirla come oggetto speculativo, nel regno della poesia troviamo l’essenza del Concerto per violino: un eroismo disperato che non riesce a nascondere a se stesso il grande sentimento della disperata nostalgia del tutto. Un territorio desertico e lacerato, percorso da venti scottanti e da una luce solare illividita in uno sguardo accecato dal fallimento è il paesaggio descritto nel primo movimento del Concerto, un paesaggio che però non è immobile ma che sfila anzi sotto le suole in un cammino che si fa corsa a perdifiato verso i cieli del terzo movimento, verso i cieli tersi della serena speranza. Durante gli ultimi due anni di vita, Schumann fu costretto in manicomio da medici poco attenti e da una moglie forse stanca e addolorata che non riusciva più a sostenere ed aiutare un marito in difficoltà. Sappiamo che le visite di Clara a Robert furono pochissime e che l’ultima avvenne solo una decina di giorni prima della morte del compositore, ascoltando il Langsam posto al centro della composizione vengono alla mente le parole di Rilke che sembrano dire ciò che nella solitaria cella poteva pensare il compositore: “Come potrei trattenerla in me, la mia anima, che la tua non sfiori; come levarla, oltre te, ad altre cose? Ah, potessi nasconderla in un angolo perduto nella tenebra, un estraneo rifugio silenzioso che non seguiti a vibrare se vibri il tuo profondo. Ma tutto quello che ci tocca, te e me, insieme ci prende come un arco che da due corde un suono solo rende. Su qual strumento siamo tesi, e quale violinista ci tiene nella mano?”
Sinfonia “Renana”
Anche la terza sinfonia, “Renana”, fu scritta durante gli anni di Dusserdolrf, l’ispirazione è quella dell’ultimo periodo, la stessa che accomuna altri grandi capolavori come la quarta sinfonia e il Concerto per Violoncello.
La poesia di fondo che programma l’intera composizione è lo spirito stesso del Reno, quello scorrere inesorabile dal significato simbolico e la presenza quasi soprannaturale che il fiume stesso acquista nella mente del compositore. Proprio nelle acque del Reno Schumann cercherà invano di spegnere la propria vita gettandosi da un ponte.
Il primo movimento si apre con una glorioso tutti orchestrale che da subito ogni cosa immerge in un’atmosfera mitica, eroica e sovrumana. Si narra di una forza creatrice capace di spiegarsi attraverso i colori pieni di un’orchestra travolta da ondate di luce, scossa dai getti improvvisi delle sincopi e da melodie che sembrano ritmicamente galleggiare sul tempo, trasportate verso un mare lontano ed irraggiungibile, sterminato, dove troveranno pace in un ordine più alto e smisurato.
Il secondo movimento, Scherzo, è un esercizio di equilibrio sulle acque del fiume, si naviga in un tre quarti ondulante e vagamente incerto, come se si provasse a scendere il fiume con una piccola barca, piccola e inadeguata rispetto all’immensa forza del Reno.
Il terzo intimo movimento, con i clarinetti fagotti e viole che ne annunciano il tema, sembra descrivere l’ambivalenza che lo scorrere delle acque porta con sé. Scriverà Montale “..Ore perplesse, brividi d’una vita che fugge come acqua tra le dita; inafferrati eventi, luci-ombre, sommovimenti…”
Il quarto e il quinto movimento, insieme, sono quindi il viaggio da sé al mondo riconquistato.
Si chiude il cerchio della sinfonia che ha portato il compositore dall’estasi iniziale al riverbero di questa nelle profondità di sé e da qui alla contemplazione introspettiva e alla scoperta del mistero, per accettarlo e quindi permettere la riconciliazione con quello spirito della natura da cui siamo tratti. Così viene indagato da Schumann l’archetipo del fiume, così viene scoperto e interiorizzato fino a poterlo filare nelle trame orchestrali più complesse e meravigliose, descrivendo in musica il fluire delle cose sulle rive del tempo, e del suo tempo privato che stava per terminare. Ci tornano alla mente le parole di Ungaretti scolpite nelle acque dei suoi fiumi: “Questa è la mia nostalgia / Che in ognuno / Mi traspare/ Ora ch’è notte / Che la mia vita mi pare / Una corolla / Di tenebre”
Il Cast
Direttore: Corrado Rovaris
Violino: Pekka Kuusisto
Orchestra: I Pomeriggi Musicali