Le date
PROGRAMMA DI SALA
a cura di Edgar Vallora
MENDELSSOHN Concerto per violino e orchestra Op.64
Felix: quando a volte un nome sembra determinare il filo del destino di un essere. Pur senza entrare in aleatorie frecce esoteriche, sono molti i critici (nonché amici e colleghi) che hanno sottolineato tale coincidenza (soprattutto in un mondo di musicologi abituati a geni tormentati-inquieti-disperati!). Uno su tutti: l’amico-collega Robert Schumann, convinto che “il caso avesse dotato Felix sin dalla nascita di un nome appropriato, in tutto e per tutto”. “Di fatto egli appare come un beniamino dell’esistenza, un uomo al quale siano state concesse tutte le condizioni necessarie per la piena realizzazione del proprio talento sì da poter attuare, nella vita come nell’opera, quell’ideale di compimento e perfezione che è la cifra della sua produzione, e che allo stesso tempo rende controverso ogni tentativo di definizione e di collocazione nel panorama musicale ottocentesco” (Cristina Corrieri).
INQUADRAMENTO BIOGRAFICO DEL CONCERTO
E’ cosa nota che Mendelssohn fosse decisamente ostile alla città, all’ambiente e alla cultura berlinese; e che (pur conservando, onde evitare rovinose rotture con Federico Guglielmo, la qualifica di “direttore musicale generale” a Berlino) in realtà si rifugiasse, appena possibile, a Lipsia, sua città d’elezione: città nella quale, nel 1843, riuscì perfino a realizzare un (vagheggiato da anni) progetto di “creare dal nulla” un’Accademia musicale (situata, tra l’altro, nel cortile del Gewandhaus) e richiamando i più brillanti musicisti del momento (da Robert e Clara Schumann a Ferdinand David, da Hiller a Moscheles ecc.). Poi seguì una nuova, grigia parentesi a Berlino (1844); poi un inevitabile ritorno a Lipsia. Insomma: un continuo elastico Berlino-Lipsia.
Dopo un viaggio estivo in Inghilterra (che era ben l’ottavo!), convalescente da una malattia, vive un periodo di vacanza a Soden, paesino accanto a Fancoforte; ed è proprio in questi luoghi che porta a termine il Concerto in programma questa sera. Siamo nel 1844.
Alla fine dell’estate, le difficoltà che continuano ad avvelenare il proprio incarico berlinese e la nebbiosa situazione di stasi di quell’ambiente “provinciale” (tuttodire, al giorno d’oggi!) spingono Mendelssohn, ormai sull’orlo dell’esasperazione, a ridurre drasticamente il proprio impegno professionale, restando a servizio della corte di Berlino esclusivamente in veste di compositore.
TRATTEGGIO DEL CONCERTO
Venendo al Concerto Op.64, va innanzitutto onorata una figura-cardine di questo capolavoro, una “seconda anima”. Sicuramente conosceremmo comunque un capolavoro; ma ben differente se l’autore non avesse lavorato “gomito a gomito” (parole da lui scritte) con il violinista Ferdinand David (concittadino, nato anch’esso ad Amburgo, e pressoché coetaneo). Dotato di talento (dicono “sovrannaturale”), di estro (decisamente geniale), sarà proprio David il solista che ne curerà, al termine, la prima esecuzione (Lipsia, 13 marzo 1845). Grandi i meriti di David; ma grandissimi quelli di Mendelssohn, nel senso di aver ben accolto questa massiccia “tutela”. Si può immaginare quale prodigio di duttilità occorra, in un compositore, nel momento in cui il condizionamento diventava “bifronte”: limiti tecnici imposti dallo strumento, condizionamenti da parte di un consulente-interprete, per quanto di eccelso valore.
Il virtuoso David, tra l’altro, aveva tutte le carte in regola per “interferire” (ancora parole del Nostro) nel suo lavoro, avendo alle spalle una conoscenza profonda e diretta dei misteri del violino: numerose le partiture di David con violino solista, tra cui cinque Concerti per violino.
Il Concerto prese forma in un arco assai ampio: i primi abbozzi risalgono addirittura al 1838.
Una gestazione particolarmente lunga non perché particolarmente sofferta; ma dovuta all’implacabile lavoro di cesello cui Mendelssohn sottoponeva ogni sua creatura. Oltretutto non si dimentichi – come già accennato – l’inesausta vita professionale del compositore, a 360°, divisa tra mille occupazioni-preoccupazioni: pedagogiche, organizzative, direttive, e, nel caso della composizione, tecniche e interpretative.
Ma il risultato lo abbiamo davanti agli occhi: stabilmente in repertorio a partire dalla prima edizione a stampa (Lipsia 1845), il Concerto Op.64 è il prediletto assoluto dai solisti di tutte le epoche e paesi.
LA STRUTTURA
Il Concerto si divide in tre classici movimenti ma collegati – a livello di sequenza strutturale – da inusuali “raccordi”: tra il primo e secondo tempo è una lunga nota solitaria, tenuta come in sospensione aerea da uno dei fagotti; tra il secondo e terzo movimento è un frammento-interludio (una decina di battute) sfoggiate dal violino su accompagnamento dell’orchestra. Varietà, fantasia, genialità anche in questi particolari, per nulla secondari.
Due i temi del movimento d’apertura, di deciso contrasto psicologico; appassionata vitalità a tratti, contemplativo lirismo, che rallenta e pacifica, in altri passaggi; fremente articolazione melodica, levigata staticità in altri punti. (Da notare come il solista entri in media res, nelle prime battute del Concerto, senza introduzione orchestrale: una sommessa trama d’accompagnamento e immediatamente, come cadesse dal cielo, il tema-solista libra il tema nell’aria (vi è arriva a dire: “a captivating melodic sweetness: as romantic and expressive as any music could be”!). (Altro particolare insolito, la Cadenza: collocata in una posizione decisamente inusuale, racchiusa come una perla fra sviluppo e ripresa).
L’accelerazione del primo movimento si accentua e galoppa (Più presto; Sempre più presto), finché la nota-raccordo del fagotto, astratta, non raffrena l’impeto del tutto e vi innesta il secondo movimento, cuore espressivo del Concerto.
Anche in questo movimento due i mood che si alternano: un’idea sognante nell’opalescente tonalità di Do maggiore, affidata al solista; e una sorta di “motteggio a fanfara” che getta qualche lama di sottile tormento. Ma alle aggressioni (aggressioni mendelssohiane, ben inteso…) dell’orchestra, la tenerissima romanza vince ogni volta; vince la luce dell’inizio in un clima di continua, restaurata serenità. E la sottile, altissima poesia della voce del solista conquista l’ultima parola dalla pagina.
Preceduto da un minuscolo interludio-raccordo (Allegretto ma non troppo) – sorta di ammortizzatore tra i movimenti – il terzo tempo si configura col profilo del Rondò, riecheggiante la levità del classico concerto ottocentesco. Ancora una volta, ovvio, i temi sono due: fattore unificante fra loro, un comune sciogliersi entro parentesi lirico-virtuosistiche nei quali il solista incanta l’ascoltatore. Gusto, humor, estro, poesia: tutto. “Una delle pagine più perfette che Mendelssohn ci abbia lasciato”.
I temi-melodie si riaffacciano nella Coda, decisamente vigorosa. Il solista-mattatore impone un gioco di eccelso virtuosismo – note doppie, tremoli, arpeggi, accordi, fughe nel sovracuto – ma sempre in un’insuperabile aura di serenità. Il violino vola in alto, dove nessuno può raggiungerlo, e lì resta. Per contrapporsi al suono “pienissimo” dell’orchestra il solista aumenta vieppiù le sue piroette di virtuosismo; sceglie perfino un contro-tempo, scambia ruoli con l’orchestra. Proprio nelle ultime battute sembra che il violino ceda il comando alla massa; poi – fulmineo guizzo finale – chiude il Concerto affermandosi star indomata.
“Oh uomo felice! Breve ed effimera la vita che ti attende, ma Amore, Felicità e Arte te l’hanno vestita di luce e illuminata di calore! Va’ e tramonta quando sarà l’ora; rimarrai come le cose belle a primavera!” (Adele Schopenauer, diario 1821).
BEETHOVEN – Sinfonia n.7 Op.97
GENESI DELLA SINFONIA
Quattro anni separano la “Settima” dalla “Sesta”: anni di capolavori in vari campi (basti pensare al Concerto per pianoforte “Imperatore”, alla Sonata degli “Adii”, al Trio dell’”Arciduca”) ma caratterizzati da un insolito “vuoto” sinfonico: quattro anni votati alla ricerca verso l’affrancamento da problemi di contenuti e verso la conquista di un linguaggio musicale assoluto. L’attenuarsi di certi contrasti dialettici (visceralmente beethoveniani) sino ad allora imperanti coincidono con il parallelo nascere di valori Altri, quali la polifonia e l’elaborazione strutturale, elementi che saranno dispiegati negli anni a venire.
La “Settima” fu abbozzata prima del 1811 ma la definitiva conclusione della partitura avvenne nel maggio del 1812. Sul piano della vita personale questo periodo contempla (accanto alla nascita dell’amitiée amoureuse con Bettina Brentano) la rottura sentimentale con la contessa Therese von Brunsvik, evento che tatuerà irrimediabilmente la già fragile-morbosa sensibilità del compositore. Mai come in questo caso, tuttavia, l’espressione musicale non risulta contaminata dai tormenti della vita privata.
IL CARATTERE DELLA SINFONIA
La “Settima” si presenta libera da sottotitoli, sfide, programmi o finalità (che, guarda caso, si “appiccicheranno” in occasione del debutto); e non offre il benché minimo riferimento personale. L’unica etichetta che l’ha contrassegnata riguarda quella (per altro volgare) di “apoteosi della danza”, definizione coniata nientemeno che da Wagner (il quale in una delle sere del suo ultimo inverno a Venezia, a Palazzo Vendramin, ebbe il coraggio di ballare la Sinfonia, presentata da Listz in una sua riduzione per pianoforte!).
I commentatori del nostro tempo hanno sottolineato, al contrario, il carattere essenzialmente “ritmico-astratto” di quest’opera, ritmo cha appare sotto aspetti, luci e intenzioni differenti dal passato e che resta il marchio inconfondibile della “Settima”. Il ritmo fa sentire la sua presenza in ogni angolo della Sinfonia, asservito alle differenti tipologie dei movimenti: a volte perfino sovraesposto nei riguardi delle parti più deboli e sognanti. Il ritmo, dunque, come ossatura costitutiva, spina dorsale, emblema della “Settima”.
LA STRUTTURA
Beethoven apre la Sinfonia con una Introduzione di rilevo – “larga e pomposa”, secondo Berlioz -, forse la più lunga della sua produzione sinfonica: un ultimo ricorso allo “stratagemma preparatorio” utilizzato nelle prime Sinfonie, abbandonato poi nelle ultime.
Si presti attenzione al subitaneo avvento del ritmo nel Vivace che vi si innesta: un ritmo ternario (simile alla giga) che nel suo esplodere astratto allontana l’apparizione del tema sino alla quinta battuta; e così pure nello sviluppo, il ritmo si palesa in una serie di motivi variati, per cui rimane ancora l’elemento di primo piano. A questo punto, onde continuare a mantenere in primo piano l’elemento ritmico (seppur sotto sfumature dissimili), Beethoven strategicamente sostituisce il tipico Andante con un Allegretto (scelta che caratterizzerà anche l’”Ottava”). Sfuggente ma insuperabile il fascino di questa pagina, incantata, misteriosa, irrequieta nella sua continua oscillazione tra maggiore e minore: fascino creato, non tanto dai temi, quanto dal loro incrociarsi, dal gioco armonico, dalla flessione continua del ritmo. Il contrasto ricercato da Beethoven è ottenuto con l’introduzione di una idealizzata Marcia funebre, dal profilo semplice ma marcatissimo cui fa da contraltare una tenera melodia consolatrice dei fiati.
Immaginabile che il ritmo – vero mattatore di questa Sinfonia – trovi negli ultimi due movimenti un risalto ancora più vistoso. Prima nel Presto, dal carattere di Scherzo, il più brillante ed esteso delle nove Sinfonie, animato da vis autentica, vitale giocosità, da un’allegria che a tratti si fa spavalderia. In ultimo, nell’Allegro finale, pagina in cui si susseguono, con rapido succedersi, l’esposizione di un tema imperioso, un passaggio contrappuntistico, un tema leggero ma puntualmente ritmato; e infine una Coda trattata come una fanfara sicura di sé.
L’Op.92 è considerata un ponte indispensabile verso le due ultime Sinfonie: l’unità della struttura e l’economia dei mezzi utilizzati la rendono una delle più interessanti, organiche e complete, anticipando nuove strade. A parte il successo tributato dal pubblico, quest’opera conquistò l’autore stesso (solitamente incontentabile), il quale in una lettera confessò “di ritenere la Sinfonia in La una delle mie opere migliori”.
La “Settima” fu offerta al conte Moritz von Fries, già dedicatario di importanti Sonate per violino. Venne presentata al pubblico nel dicembre 1813 all’Università di Vienna, in un concerto di beneficenza patriottica.
DUE COMMENTI
Berlioz: “Capolavoro di abilità tecnica, di gusto, fantasia, di scienza e di invenzione”. Della Corte-Pannain: “La Settima è la più luminosa e smagliante tra le Sinfonie di Beethoven: come la Quarta la più serena, la Sesta la più sensuale e lirica”. Carli Ballola: “La Settima (…) è il coronamento di una gioiosa “libertà” creativa, acquistata attraverso il superamento della fase cruciale dell’individualismo eroico e del sublime assillo dell’urgenza contenutistica”.
PICCOLE CURIOSITA’
Le prime due esecuzioni della “Settima” avvennero sotto la direzione dell’autore l’8 e il 12 dicembre 1813 nell’Aula magna dell’Università di Vienna, in occasione di due serate di beneficenza a favore dei soldati austriaci e bavaresi rimasti invalidi nella battaglia di Hanau. I concerti furono organizzati da Nepomuk Malzel, quell’eccentrico personaggio viennese, nominato “meccanico di corte”, inventore di mille diavolerie (cornetti acustici, boites-à-musique, automates, il celebre “panharmonicon” ecc.). Non ultimo, inventore del metronomo…
Pare che i migliori strumentisti di Vienna fecero a gara per partecipare a questo evento: ogni musicista del tempo – così scrissero i giornali del tempo – voleva manifestare i sentimenti di gratitudine per i risultati ottenuti dalla nazione tedesca contro Napoleone. L’orchestra, la celebrazione, l’esecuzione riuscirono a scatenare un vero fanatismo (esaltata perfino la recensione sul giornale musicale (di solito acidulo), l’””Allgemeine Musikalische Zeitung”. Ma il trionfo reale fu merito, pensiamo, anche della piccola nuova Sinfonia…
Il Cast
Direttore: Antonello Manacorda
Violino: Midori
Orchestra: I Pomeriggi Musicali