Autori vari - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 21 novembre 2002
Ore: 17:00
sabato 23 novembre 2002
Ore: 21:00

Sala Grande del Teatro Dal Verme di Milano

Direttore:
Paolo Arrivabeni
Pianoforte:
Mario Delli Ponti
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Gioachino Rossini [1792 – 1868]
La Cenerentola ossia la bontà in trionfo, Ouverture

Ildebrando Pizzetti [1880 – 1968]
Canti della stagione alta, concerto per pianoforte e orchestra
Mosso e fervente, ma largamente spaziato
Adagio
Allegro – Andante

Felix Mendelssohn-Bartholdy [1809 – 1847]
Sinfonia n. 1 in Do minore op. 11
Allegro molto
Adagio
Minuetto o Scherzo
Allegro con fuoco

Il Concerto
a cura di Paolo Castagnone
“Non più mesta accanto al fuoco starò sola a gorgheggiar”: fu un lampo, un sogno, un giuoco, il mio lungo palpitar” [Cenerentola]
Il successo del Barbiere è appena sorto all’orizzonte che già Rossini corre a Napoli per la rappresentazione dell’opera buffa La Gazzetta, che non entusiasma il pubblico ma contiene qualche buona cosa, tra cui quella che diventerà la pagina iniziale de La Cenerentola, rappresentata con successo a Roma nel 1817.

Il trasferimento di sinfonie da un’opera all’altra (a volte passando addirittura dal genere buffo a quello serio) è, in quegli anni, un fatto usuale, attribuibile alla proverbiale fretta che gli impresari imponevano ai giovani artisti e alla funzione di semplice “richiamo d’attenzione” di tali brani. Ciononostante, Rossini crea spesso un magico legame fra l’ouverture e l’opera. Ne fa buon esempio il brano introduttivo de La Gazzetta, il quale – con la sua grazia quasi elegiaca e i suoi improvvisi cambiamenti d’atmosfera – si adatta perfettamente alla patetica storia della servetta di Perrault. A buon diritto questa partitura è così passata alla storia come la Sinfonia de La Cenerentola e nessuno, ascoltandola, potrebbe pensare che sia stata creata con altro intendimento.

Dal punto di vista strutturale essa rispetta il consueto schema bipartito lento – veloce. Il brano iniziale, Maestoso, denota una concezione quasi episodica, cosicché – dopo il consueto attacco a forti contrasti – comincia un motivo di patetico languore, affidato al clarinetto. Segue una piccola fanfara, sviluppata da legni e corni, e poi, nel forte, da tutta l’orchestra. La struttura del movimento rapido ricorda invece la classica forma-sonata ; tuttavia, rispetto al sinfonismo viennese di Haydn e Mozart, si assiste alla spiazzante scomparsa proprio di quella parte che ne costituiva il fondamentale nucleo drammatico, ovvero il cosiddetto sviluppo. Il sonatismo rossiniano – costituito esclusivamente dall’esposizione e dalla ripresa – mette dunque pienamente in luce la sua profonda estraneità alla dialettica musicale che negli stessi anni veniva portata alle estreme conseguenze dal linguaggio beethoveniano.

Dopo la pomposa serietà del Maestoso, esplode così l’Allegro vivace. E’ uno sberleffo di Rossini che, dopo un preambolo solenne e impettito, stupisce il pubblico con un tema straordinariamente leggero e svolazzante. Poi una pausa improvvisa consente ai violini, quasi imploranti, di riproporre il motivo in minore; ma è ancora uno scherzo e tutta l’orchestra divampa in una gaia declamazione. La seconda idea musicale è introdotta dal flauto in dialogo con gli archi, a cui presto si aggiunge il “sarcasmo” del fagotto, creando un’atmosfera davvero giocosa. E’ giunto il momento del famoso crescendo rossiniano: le ripetizioni si gonfiano in sonorità sempre maggiori, fino all’ironico ribollire del Finale, che tanto bene prepara il pirotecnico andirivieni con cui le sorellastre frastorneranno la povera Cenerentola: “Quante voci, che cos’è? A ponente e a levante, a scirocco e a tramontana, non ho calma un solo istante, tutto, tutto tocca a me”!

“La musica deve rivelare la misteriosa profondità delle anime, oltre i limiti che la parola non può e non potrà mai varcare ” [Ildebrando Pizzetti]

Si narra nella sua “autobiografia drammatica” come sin da fanciullo egli vagheggiasse l’opera in musica e, in effetti, la sensibilità di Pizzetti è sostanzialmente quella di un uomo di teatro. Come molti esponenti della cosiddetta “generazione dell’Ottanta” egli reagì all’estetica del Verismo entusiasmandosi alla grande drammaturgia classica, mentre – sul fronte musicale – fu il gregoriano a influenzarlo profondamente. L’unitarietà del canto cristiano, che non ha cali di tensione o momenti di accensione non giustificati dall’idea generale, viene progressivamente assorbita dal suo linguaggio, il quale, sublimando l’andamento drammatico, aspira ad assurgere a valore assoluto.

Non fa così meraviglia che, inizialmente, il musicista parmense fosse alla costante ricerca di un proprio stile operistico e trascurasse quasi del tutto la musica strumentale, definita “astratta, né evocativa né rappresentativa, chiusa intorno a se stessa”. Nell’estetica pizzettiana “musica pura” è infatti espressione priva di senso, contro la quale anzi egli si rivoltò con tutte le punte dell’ironia : “pura, senza niente dentro”. Costruire un edificio sonoro – anche se con l’abilità più rara – non lo interessa se, dietro a quella facciata, non si muovono e non vivono creature umane. Con ciò l’autore di Fedra e de La figlia di Jorio afferma il suo deciso antropomorfismo, la costante attenzione all’uomo fatto centro dell’universo.

Significativa, in questo senso, è anche la peculiare traduzione nel proprio mondo poetico dei modi greci, dai quali egli desume il concetto di ethos, cioè quel particolare valore emotivo che gli antichi teorici attribuivano alle scale musicali. In realtà attraverso tale recupero, apparentemente classicista, si esprime una concezione tipicamente ottocentesca del teatro come luogo privilegiato di espressione. Di conseguenza la sua arte mette in luce un’oscillazione fra due opposti poli, rappresentati dall’austerità arcaica e ieratica della declamazione e, per converso, da un’effusione melodica di derivazione romantica.

Di tutto ciò è illuminante esempio il concerto per pianoforte e orchestra intitolato Canti della stagione alta, una delle composizioni di Pizzetti in cui più largamente si distende il sentimento lirico. E’ una pagina assai personale, sebbene la consueta forma in tre movimenti e il notevole equilibrio nel rapporto fra solista e compagine strumentale rivelino non pochi riferimenti alla tradizione del concerto pianistico.

Il titolo fa riferimento a una serenità bucolica e pastorale, in cui si riverberano suggestioni e ricordi dell’infanzia trascorsa nella campagna parmense e reminiscenze della vocalità padana. Tutto ciò si traduce in una luminosa e felice espressività delle idee tematiche, senza tradire gli inconfondibili tratti dello stile pizzettiano. Particolarmente suggestivo è in questo senso l’Adagio, che nella fervida perorazione del solista ben esemplifica quel profilo melodico quasi salmodiante, al quale la modalità conferisce ampia ed eletta nobiltà.

“Semplicemente, ho espresso me stesso, poiché bisogna mettere il cuore nel proprio lavoro” [Felix Mendelssohn]

Dotato di un talento raro e precocissimo, il piccolo Felix visse in un ambiente che favorì la sua formazione culturale. I Mendelssohn erano infatti una delle famiglie più in vista di Berlino e la loro residenza veniva frequentata da tutte le grandi personalità del tempo. Nel giardino che circonda la casa, tutte le domeniche si faceva musica: “Una domenica dai Mendelssohn mi sembra il capitolo di un racconto di fate”, scrive il poeta Karl Klingemann. E proprio per allietare questi incontri domenicali il giovanissimo Mendelssohn compose ben tredici sinfonie per archi. L’ultima di queste partiture orchestrali – composta, a quindici anni, nel 1824 ed eseguita dalla propria orchestra privata il 14 novembre dello stesso anno per festeggiare il compleanno dell’amatissima sorella Fanny – venne riveduta per essere infine stampata come Sinfonia n.1 e consegnata nelle capaci mani della London Philarmonic Orchestra. Ciò può sembrare assolutamente paradossale se si tiene presente che il musicista amburghese – eterno insoddisfatto – non si decise mai a consentire la pubblicazione né della Sinfonia italiana op. 90 né del celeberrimo Concerto per violino.

In senso stretto la Sinfonia in do minore op.11 non è dunque che una prosecuzione dei dodici lavori sinfonici per archi e, difatti, l’autografo porta ancora il numero XIII. Nella versione londinese Mendelssohn sostituì il Minuetto con uno Scherzo tratto dall’Ottetto op.20, che venne adornato di una nuova raffinatissima veste orchestrale. Le accoglienze furono entusiastiche e una lettera dell’autore comunica l’esito del concerto : “Il successo fu superiore a ogni mia aspettativa : oltre all’Adagio, lo Scherzo fu bissato fra grandi applausi”.

Ovviamente la precocità del lavoro mette in luce non pochi debiti con modelli precedenti, a cominciare dal tema principale dell’Allegro molto che ricorda il tardo Mozart, mentre la seconda idea motivica si conclude con una chiara reminiscenza del Franco cacciatore di Weber. La Coda, per altro troppo vasta nell’economia formale del primo movimento, può invece evocare l’Eroica. Dopo il grazioso Adagio in Mi bemolle maggiore, sorprende un poco l’irregolarità di struttura del Minuetto, più facilmente attribuibile al “giovane robusto e impetuoso” descritto bonariamente da Fanny, che al sapiente costruttore di forme degli anni successivi. Al contrario, il sostitutivo Scherzo tratto dall’Ottetto op.20 si colloca a un livello assai superiore nell’evoluzione stilistica dell’artista. L’Allegro conclusivo si richiama ancora al Mozart dei concerti pianistici e al sinfonismo di Haydn, mentre il Finale presenta analogie con l’ouverture dell’Egmont di Beethoven, chiudendo all’insegna dell’ottimismo la sinfonia.

Tali tratti di immaturità compositiva portano a domandarci perché Mendelssohn incoraggiò numerose esecuzioni della partitura e, nonostante il suo “terribile rispetto dei caratteri a stampa”, ne permettesse la pubblicazione come sua prima prova sinfonica. La risposta sta probabilmente nel fatto che in questo lavoro già compaiono stilemi della maturità : l’intimo legame dei materiali tematici, la frequente sostituzione dell’elaborazione tematica con un contrappunto rigoroso, la trasformazione dei temi secondari in intermezzi lirici, la sontuosa e mirabile orchestrazione. Del resto non si può nemmeno dimenticare che Beethoven viveva ancora quando la Sinfonia in Do minore fu portata a termine e che per Mendelssohn, come per Schubert, le sinfonie del genio di Bonn costituirono un confine invalicabile, che li costringeva a tracciare altre rotte in cerca di nuove terre.

Paolo Arrivabeni
Direttore d’orchestra
Ha compiuto gli studi musicali presso il Conservatorio A. Boito di Parma, diplomandosi in Composizione con Camillo Togni e in Direzione d’Orchestra con Daniele Gatti, del quale è stato assistente per diversi anni. Ha quindi partecipato al Seminario biennale di perfezionamento in Direzione d’Orchestra tenuto da Gatti presso l’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma. Dirige Il Delirio Amoroso di Händel, l’oratorio Juditha Thriumphans di Vivaldi, alcune recite di Don Giovanni di Mozart e La Cenerentola di Rossini per i teatri del Circuito Lirico lombardo, oltre che Dom Sébastien di Donizetti, La Bohème e Tosca di Puccini e Così fan tutte di Mozart al Teatro Comunale di Bologna.

Ha diretto le seguenti formazioni: Orchestra Sinfonica Haydn di Trento e Bolzano, Orchestra da Camera Stradivari di Milano, Orchestra Sinfonica di Bari, Orchestra dell’Accademia Filarmonica Trentina, Orchestra Filarmonica Marchigiana, Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano, Orchestra del Teatro Regio di Torino, Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano, Orchestra dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma, Orchestra del Teatro Comunale di Bologna.

Al Teatro Nacional de São Carlos di Lisbona, ha inaugurato la Stagione Lirica 2000 con Lucia di Lammermoor e di recente è tornato per Il barbiere di Siviglia. Tra i suoi ultimi impegni si ricordano inoltre Otello, Ivanoe e Robert Bruce al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, La Cenerentola e Tosca a Bilbao, La notte di un nevrastenico al Teatro Verdi di Trieste, Norma e La traviata al Teatro Verdi di Salerno, Le pauvre Matelot al Teatro Rossini di Lugo e Le farse rossiniane al Rossini Opera Festival.

E’ titolare della Cattedra di Direzione d’Orchestra presso il Conservatorio di Cagliari.

Mario Delli Ponti
Pianista
Milanese, fin dai primi inizi della carriera avvenuti in Italia e negli Stati Uniti, è stato subito considerato musicista di rilevante livello internazionale. Nel 1956 fu invitato da Arturo Toscanini a suonare nella propria residenza di Riverdale presso New York. Vinse quindi a Londra la “Bach Medal”, importante competizione internazionale. In Italia ha suonato al Teatro alla Scala e alla Società del Quartetto di Milano, all’Accademia di Santa Cecilia di Roma e presso i maggiori Festival e istituzioni musicali. Ospite frequente dei pubblici dei più grandi centri musicali del mondo, ha portato la propria testimonianza anche fuori da itinerari consueti (in Alaska, nel Canada del Nord, nei Kibbutz in Israele e in varie comunità lontane dagli abituali circuiti del concertismo).

Ha inciso dischi con RCA, Angelicum e Cd per Foné; LoveLied e Bongiovanni. Nel 1995, nel corso della sua quinta tournée in Giappone, è stato chiamato ad eseguire con la Royal Chamber Orchestra di Tokyo un concerto di Gala, alla presenza della famiglia imperiale. Nell’Aprile 2000 è Stato negli Stati Uniti per un ennesimo giro artistico concluso a New York dove ha pure tenuto un ciclo di “Master Classe” alla Carnegie Hall, e quindi si è recato in Giappone per una nuova lunga tournée.