Le date

Sala Grande
giovedì 26 febbraio 2004
Ore: 21:00
sabato 28 febbraio 2004
Ore: 17:00

Giovedì 26 febbraio, ore 21
Sabato 28 febbraio, ore 17
Teatro Dal Verme — Sala Grande
Direttore:
Aldo Ceccato
Violoncello:
Jan Vogler
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Programma:
Alessandro Solbiati

Il risveglio di Florestano (2003) per orchestra da camera
Robert Schumann
Concerto per violoncello e orchestra op.129
Nicht schnell
Langsam
Sehr lebhaft

Robert Schumann
Sinfonia n.2 op.61 in Do maggiore
Sostenuto assai — Allegro ma non troppo
Scherzo: Allegro vivace — Trio I — Trio II
Adagio espressivo
Allegro molto vivace

Il Concerto:
a cura di Andrea Dicht
Anche questo concerto si apre con un brano di musica d’oggi in qualche modo collegata al vero protagonista di questa stagione della nostra orchestra, cioè Robert Schumann, considerato nelle sue composizioni sinfoniche. Autore dell’omaggio di oggi è Alessandro Solbiati, un compositore dalle qualità creatrici ormai note a tutti e di grande fecondità produttiva. Solbiati muove la sua musica per Schumann dalla figura di Florestano, un personaggio creato dalla fantasia del compositore renano e uno pseudonimo sotto il quale amava celarsi nella stesura dei suoi articoli per la Neue Zeitschrift für Musik, la rivista musicale che fondò e diresse per vari anni. Florestano era uno dei personaggi della immaginaria Davidsbund, una lega di intenditori di arte e di musica, nata nel 1833, e che gravitava intorno alla redazione della rivista, una serie di personaggi sotto i quali pulsavano le menti ed i cuori di individui ben accertati storicamente. Schumann era sì Florestano, l’impulsività, l’azione ed il temperamento umorale, ma era anche Eusebio, il contemplativo, l’animo delicato e sensibile. Solbiati sceglie dei due il primo: “Florestano, simbolo degli slanci schumanniani, dorme, ma a poco a poco la sua coscienza si risveglia e sente di dover danzare, e la danza prende lentamente forma ed evidenza, porta a sé via via gli strumenti, rivela addirittura il suo essere in tre tempi ed il suo far riferimento sempre più chiaramente ad un’unica breve sequenza melodica, finché il valzer si apre davvero, inequivocabile, il risveglio è compiuto ed allora il ritmo, esploso, si ferma e nella mente di Florestano nascono attraverso lo strumento di Schumann, il pianoforte, alcuni brevi frammenti, chissà si potrebbe farne un pezzo… e intitolarlo Papillon, …o Carnaval…”. Il brano di Solbiati è un viaggio all’interno del concetto stesso di creazione, un concetto caro a Schumann, e l’esplosione ritmica della danza sembra rappresentare simbolicamente quell’esplosione che è alla base di ogni ideazione originale, quel momento di vita e di crisi dal quale solo le grandi personalità musicali hanno saputo trarre le energie per quell’atto di profondo amore che è la creazione musicale.

Le esperienze di Schumann all’interno della categoria dello stile concertante, cioè per strumento solista e orchestra, furono molteplici, ma di certo gli esempi meglio riusciti e che ancora oggi godono di grande notorietà sono il Concerto op.54 per pianoforte, e quello per violoncello op.129 stasera in programma. Sono due concerti molto diversi, composti in periodi non troppo distanti ma dominati da una temperie psicologica ben differente. Infatti il Concerto per pianoforte fu abbozzato in forma di Fantasia nel famoso anno “sinfonico” 1841, un anno contrassegnato da una febbrile attività di ricerca e sperimentazione nella scrittura per orchestra (anche se fu completato nel 1845 nella versione oggi a noi nota), mentre il Concerto per violoncello fu composto interamente nel 1850 e fu una delle prime composizioni di Schumann successive al trasferimento a Düsseldorf. Schumann si trasferì con Clara in questa città nel mese di settembre di quello stesso anno, a seguito del conferimento dell’incarico di direttore musicale dell’orchestra professionale finanziata dall’Allgemeine Musikverein (Società musicale generale) e della Società corale amatoriale della città.

Il Concerto per violoncello è uno strano volo della fantasia, un brano difficilmente catalogabile e che pone importanti quesiti interpretativi all’esecutore. Schumann era un uomo del suo tempo, un musicista romantico a tutto tondo e pertanto in quell’estetica trovava una dimensione espressiva a lui congeniale. Di sicuro il Concerto per violoncello è romantico tanto quanto quello per pianoforte, ma l’ambiente generale di conduzione del discorso musicale è qui più intimo ed in qualche misura rapsodico. La forma differisce di molto dall’opera 54: già l’introduzione situa il brano in un sistema espressivo molto particolare. L’orchestra intona tre accordi, un’armonia che torna su se stessa quanto lo può essere una cadenza plagale, una voce superiore che negli accordi disegna un breve tratto melodico, una misura di accompagnamento a seguire ed ecco che il solista comincia ad intonare il tema principale, senza fretta, senza la minima teatralità. Questo è uno dei tratti fondamentali di questo brano, ovvero la mancanza di un sipario, l’assenza di colpi di teatro, un discorso quasi un monologo, al quale l’orchestra partecipa più come eco amplificata del solista che come personalità musicale ad esso contrapposta.

Se avevamo visto che lo stile concertante di Schumann, mosso dai modelli beethoveniani, aveva cercato la massima interazione tra solista ed orchestra, nel Concerto per violoncello questa ricerca viene messa da parte e la concentrazione di Schumann si rivolge all’espressione pura, ad una forma compositiva che contemperi la massima efficacia nell’eloquenza del violoncello ed una struttura generale che della musica sia rifrazione e non solo contenitore. E’ difficile spiegare come questo mutamento di prospettive si sia poi riversato in questa partitura, ma l’ascoltatore non avrà difficoltà ad avvertire in tutto il brano la presenza di un quid in più che differenzia questa musica da ogni altra. E’ musica sinfonica ma dell’orchestra si privilegia l’intervento di strumenti solisti più che la massa di suono, è musica virtuosistica ma la difficoltà strumentale è celata e mai appariscente, è musica fatta di grandi frasi liriche ma nel canto vi è sempre un guizzo di colore improvviso o un’incertezza di fondo che ne impedisce la totale distensione.

Il violoncello apre la lunga frase tematica iniziale in maniera tranquilla, pacatamente triste ma non disperata, sale per discendere subito ed indugiare tra le note, torna in alto per fermarsi e cercare una nuova direzione ma ecco che un arpeggio rapidissimo scuote la linea melodica per ridiscendere lentamente, e ancora una volta ci troviamo davanti ad un’altalena fatta di salite e discese che non hanno mai lo stesso carattere, fino ad arrivare alla nota più acuta della frase dalla quale si scende per far spazio all’orchestra. Già in questa prima frase è contenuto, oltre che i materiale fondamentale su cui è costruito il concerto secondo la tipica logica di Schumann, anche i confini espressivi della sua lingua strumentale: la scrittura è fortemente idiomatica per il violoncello, ma non nel senso comune. Da questo punto di vista va rilevato che gli esempi su cui poteva basarsi il compositore erano davvero pochi. In quegli anni si conosceva solo uno dei due concerti di Haydn e di certo non godeva di grande popolarità, esisteva il Triplo Concerto di Beethoven, qualche sonata per pianoforte e violoncello ed una messe di concerti oggi dimenticati e dovuti principalmente alla buona volontà e ad un buon artigianato di violoncellisti virtuosi che componevano sulla scia dei violinisti più brillanti come Kreutzer e Rode. Un buon modo per accostarsi e capire questo brano è infatti quello di leggerlo tenendo presente che esso precede il Concerto di Dvorak, il Doppio Concerto di Brahms, le Variazioni su un tema Rococò di Ciaikovskij, etc. Ed in effetti, sotto questa luce diventa un’opera di grande modernità, che ha permesso al repertorio per violoncello di scavalcare agilmente un vuoto produttivo di vari decenni, proiettando lo strumento verso il futuro senza indugiare in stilemi vuoti.

Il Concerto è in tre movimenti, collegati sempre da brevi episodi di raccordo e, nonostante la fisionomia dei tre tempi sia chiara nel loro alternarsi di carattere, allo stesso tempo un certo incedere rapsodico è ugualmente avvertibile. Non è un brano che sconvolge o affascina l’uditorio, come può esserlo il Concerto per pianoforte, ma è una musica che entra nell’anima per non uscirvi mai più, un concerto così “parlante” che l’ascoltatore che vi si ponga dinanzi con il giusto spirito non può che esserne rapito ed in una certa misura contagiato.

Abbiamo visto come il lavoro creativo di Schumann fosse organizzato con cadenza annuale: il 1841 era stato l’anno sinfonico, il 1842 l’anno della musica da camera, il ’43 l’anno degli oratori, etc. Dal 1845 gli interessi del compositore abbandonarono questa logica e, sebbene questo fosse l’anno del ritorno al pianoforte (dopo l’anno pianistico 1839), è in questo periodo che nasce nelle sue grandi linee e dimensioni la Sinfonia in do maggiore op.61. Questo brano occupa una posizione tutta speciale all’interno del gruppo di quattro sinfonie complete che ci ha lasciato: la Prima era la novità, un esperimento di conciliazione tra una fresca tradizione beethoveniana e le esigenze della nuova estetica romantica, la Terza Sinfonia e la Quarta sono lavori di un musicista maturo che ha già trovato un nuovo linguaggio sinfonico. La Seconda Sinfonia è, nell’opinione di chi scrive, quella in cui Schumann raggiunge il miglior equilibrio tra passato e presente, la più serena convivenza tra un impianto formale tradizionale e un linguaggio musicale nuovo e da costruire. In effetti i riferimenti storici di questa Sinfonia sono vari, e non si tratta solo di Beethoven; Schumann stesso ammise di aver “pensato ad una specie di Jupiter”, quantomeno per l’importanza risolutiva ed enciclopedica del Finale, l’ultimo movimento, non più visto come momento del congedo positivo quanto piuttosto sotto la luce del brano conclusivo che tutto comprende e spiega i contenuti precedenti. In questo senso anche lo Haydn delle ultime sinfonie, in particolare della n.104, può essere visto come modello per questo lavoro, sia per l’architettura complessiva della Sinfonia sia per un certo delicato equilibrio tra le sue componenti formali. Non si trattava, però, di scavalcare l’imponente e scomoda eredità di Beethoven: Schumann riprende e sviluppa quella tecnica di elaborazione dei motivi musicali che è facile rinvenire nelle ultime sinfonie del maestro di Bonn. I temi, come sempre, sono pochi ma continuamente trasformati, riletti sotto lenti deformanti alla ricerca di un’unità complessiva da non percepire tecnicamente quanto da gustare in maniera inconscia. Questo è uno dei lati affascinanti della personalità musicale di Schumann: egli fu sempre un compositore dedicato ad affascinare l’ascoltatore, senza però mai soggiacere alle aspettative spesso omologanti del gusto medio del pubblico. Egli sapeva cosa sarebbe stato gradito, ma ancor più sapeva quale novità avrebbe potuto essere gradita ed apprezzata, ed infatti, dopo un primo periodo di composizione veramente “ispirata” in senso romantico, da questa Sinfonia il metodo di lavoro di Schumann cambia: via dal pianoforte, uno strumento sentito come troppo soggettivo, il lavoro diventa meditato, a tavolino, pensato prima che posto sul pentagramma, la creazione si trasforma in note suonabili solo dopo che la struttura generale ed i canoni di elaborazione del materiale musicale sono stati chiariti in ogni dettaglio.

“Trombe e timpani girano nella mia testa da qualche giorno, ormai; non so cosa ne uscirà”. Queste parole, scritte da Schumann in una lettera destinata a Mendelssohn nel settembre 1845, testimoniano l’idea iniziale dalla quale scaturirà la sua Seconda Sinfonia, ed in effetti sono le trombe ad aprire l’introduzione al primo movimento, Sostenuto assai, accompagnate da corni e trombone su uno sfondo sinuoso ed insinuante degli archi, così come sono i timpani a chiudere la Sinfonia. E’ un’introduzione ricca, non una semplice apertura scenografica bensì un elemento costitutivo dell’intera Sinfonia nel suo presentare incisi melodici e ritmici che ritroveremo durante il viaggio in questa partitura. Il passaggio al vero primo movimento, Allegro ma non troppo, avviene in maniera diretta, attraverso un’accelerazione nei primi violini di una figurazione, quella insinuante, che risulta di per sé già affrettata rispetto all’inizio (si tratta dello stesso procedimento attraverso il quale il violoncello ci aveva condotti nell’ultimo tempo del Concerto op.129).

Il primo tempo si apre con un tema puntato e nervoso, in piano, che cresce e si espande subito all’intera orchestra (sottolineato ancora da trombe e timpani). Ad esso fa seguito un altro piccolo tema, cromatico e di carattere più melodico che ritmico, che si pone evidentemente come contraltare al primo. Con questa rapida presentazione dei due temi principali si chiude l’esposizione ed il resto del primo movimento, nelle sue tradizionali sezioni di sviluppo, ripresa e coda, è giocato sulla loro contrapposizione e su costanti tentativi di reciproco contagio mai del tutto riusciti.

Lo Scherzo, Allegro vivace, è un brano veramente sorprendente per orchestra sinfonica, nel quale sono protagonisti assoluti i primi violini. È una specie di moto perpetuo nel quale sono incastonati due brevi episodi (Trii) che si contrappongono allo Scherzo per una marcata differenziazione ritmica (il primo) e per una certa cantabilità (il secondo). In entrambi i casi, la figurazione virtuosistica dei primi violini torna a farla da padrone disturbando la quiete dei Trii, quindi evitando la semplice successione di episodi ed in questo modo cercando di ottenere una consequenzialità del discorso complessivo che sembra essere una delle costanti dell’estetica di Schumann.

Il terzo movimento, Adagio espressivo, inizia con uno dei più bei temi mai scritti da Schumann, affidato a tutti i violini su un contrappunto del coro degli archi. E’ una melodia mirabile, sospinta verso l’alto ma minata da un’ineludibile tendenza a tornare verso il basso, piena di slanci interiori ma sostanzialmente timida, quasi vergognosa della propria forza espressiva. L’intero movimento consta di una serie di riproposizioni di questo tema, fertile anche se ben poco variato. L’elemento di novità risiede nelle varie atmosfere a cui questo tema si adatta, così come nella scelta dei timbri che lo proporranno. E’ proprio in questo Adagio che si possono notare molte delle particolarità della strumentazione di Schumann: spesso si è detto che la strumentazione delle sue opere sinfoniche non è proprio elegantissima e che a volte determinate difficoltà esecutive per l’orchestra sarebbe state meglio gestibili se supportate da un’orchestrazione più attenta, ma probabilmente ciò è dovuto al fatto che la strumentazione era per Schumann l’ultimo passo nella composizione di una Sinfonia. Ampie sezioni di un movimento, se non proprio tutto il movimento, erano prima abbozzate sui due righi del pianoforte, non in senso pianistico, ovviamente, ma solo per permettere al materiale melodico e ritmico di prendere forma ed essere condotto in maniera corretta sotto tutte le trasformazioni. Successivamente, a stesura completata, interveniva la fase della strumentazione, quindi non in maniera immanente al processo compositivo (anche se, di certo, alcuni temi nascevano “pensati” per determinati timbri). Sappiamo anche che Mahler, come Sostakovich ed altri importanti compositori del Novecento, misero mano alle strumentazioni di Schumann, correggendo (se mai è possibile) talune ineleganze o imprecisioni. Essi certamente hanno agito in totale onestà intellettuale, ma va pur rilevato che l’orchestrazione di Schumann possiede sue proprie caratteristiche che è difficile non scorgere come costitutive della sua estetica. Si tratta di un modo di concepire il timbro spesso con una certa ruvidità, in un ambito sonoro che non è mai del tutto sinfonico ma mai completamente cameristico, sentendo le sezioni degli archi e quelle dei fiati come individualità che possono fondersi o rimanere isolate da un momento all’altro, in un clima generale di imprevedibilità. In questo senso il Concerto per violoncello è illuminante: è una strumentazione che sembra mancare di pienezza, in particolare nei rari momenti dedicati alla sola orchestra, e anche gli accompagnamenti oscillano tra mere figurazioni quasi pianistiche a singoli interventi fortemente caratterizzati dai timbri degli strumenti. E’ difficile immaginare queste particolarità come sviste o mancanze, piuttosto sembrano essere le estetiche a cambiare e a rendere meno accettabile un’idea compositiva ed una tecnica dell’orchestra che probabilmente sono ancora da comprendere fino in fondo per essere accettate in tutto il loro valore storico.

Chiude la Sinfonia un Finale, Allegro molto vivace, piuttosto esteso (quasi 600 battute), ma dalla vitalità incontenibile e dal sapore veramente conclusivo. Aperto da una rapida scala ascendente degli archi, non un colore ma elemento strutturale essa stessa, questo movimento si configura come un brano dalla forte carica ritmica e metrica costantemente minacciato melodicamente da piccoli incisi ricavati dal tema formidabile dell’Adagio precedente. Schumann non era interessato alle citazioni o a forme musicali che mirassero ad una sinfonia ciclica come sarebbe stata ideata successivamente da Franck o Liszt; nel suo pensiero musicale il tema è una materia che non conosce identità esclusiva ma entra a far parte costitutivamente della forma. Ogni elemento caratterizzante, sia esso melodico o ritmico, diventa la materia da plasmare per dar vita ai singoli movimenti, il tema non appartiene più all’ambito che lo vede nascere ma si trasforma in materia comune che conferisce unità al tutto, un processo che in Beethoven era solo embrionale ma che era destinato a porsi come scoglio e pietra d’angolo per ogni composizione sinfonica futura.

La prima esecuzione di questa Sinfonia avvenne nel novembre 1846 a Lipsia con l’Orchestra del Gewandhaus diretta da Mendelssohn, amico ed estimatore di Schumann. Fu proprio questa esecuzione a scatenare l’unica crisi nella fiducia pluriennale che regnava tra queste due figure musicali così importanti: apriva la il concerto l’Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini, alla quale avrebbe dovuto far seguito la Sinfonia di Schumann. Il successo del brano di Rossini fu tale che Mendelssohn decise di bissarlo e Schumann montò su tutte le furie perché questa decisione del direttore aveva inutilmente stancato il pubblico, non ponendolo così nella condizione migliore per ascoltare la propria nuova opera. Per fortuna, nonostante il fatto che l’episodio fu amplificato e distorto dalla stampa di Lipsia, i rapporti tra i due tornarono rapidamente a migliori sorti ed il sodalizio poté continuare fertile e sereno come in passato.

Jan Vogler, violoncello
Considerato oggi uno dei maggiori esponenti della scuola di violoncello tedesca, inizia lo studio dello strumento all’età di sei anni sotto la guida del padre Peter Vogler. Successivamente si perfeziona con Josef Schwab a Berlino, con Heinrich Schiff e Siegfried Palm.
A vent’anni è primo violoncello presso la Staatskapelle di Dresda. Inizia la carriera solistica sostituendo Heinrich Schiff nell’esecuzione del Concerto per violoncello e orchestra di Schumann. Nel 1997 lascia definitivamente la Staatskapelle e si trasferisce a New York. Da allora partecipa a quattro edizioni del  Malboro Music Festival  e si esibisce con alcune delle maggiori orchestre tedesche. Fra le sue recenti collaborazioni si ricordano quelle con le Orchestre delle Radio di Berlino e Hannover, con la Kammerphilharmonie di Brema, con la Muenchner Kammerorchester, BBC Ulster Orchestra Belfast. Si è esibito sotto la direzione di Hans Vonk, Giuseppe Sinopoli, Tierry Fischer, Christoph Poppen, tra gli altri. E’ stato ospite di sale prestigiose come la Alice Tully Hall e la Carnegie Hall. Vanta una vastissima discografia. Ha inciso,  tra l’altro, tutte le opere per violoncello e pianoforte di Beethoven, Schumann e Brahms con Bruno Canino e le Sonate per violoncello di Weill, Shostakovich e de Falla. Registra per la Berlin Classics.
E’ direttore artistico del Festival di Moritzburg e dei Meisterkonzerte di Dresda. Suona un violoncello di Giuseppe Guarneri del 1712.