Le date
Sabato 7 febbraio, ore 17 Teatro Dal Verme di Milano
Martedì 10 febbraio, ore 21 Teatro Giuditta Pasta di Saronno
Mercoledì 11 febbraio, ore 21 Teatro Cagnoni di Vigevano
Giovedì 12 febbraio, ore 21 Teatro Dal Verme di Milano
Direttore:
Balàzs Kocsàr
Pianoforte:
Jeffery Swann
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Fryderyk Franciszek Chopin (1810 — 1849)
Concerto in fa minore n. 2 op. 2
Maestoso
Larghetto
Allegro vivace
Antonin Dvorák (1841 —1904)
Leggende op. 59
Allegretto
Molto moderato
Allegro giusto
Molto maestoso
Allegro giusto
Allegro con moto
Allegretto grazioso
Un poco allegretto e grazioso
Andante con moto Andante
Il Concerto
a cura di Alice Bertolini
Ha soltanto 19 anni Chopin, quando scrive il suo primo concerto per pianoforte e orchestra. A cimentarsi in questo genere arduo, tra i più amati dal pubblico dell’epoca, lo spinge il successo della tournée appena conclusa a Vienna: una tappa fondamentale per la sua nascente carriera di virtuoso-compositore. Il musicista rientra dunque a Varsavia e si mette subito al lavoro: il risultato sono i due capolavori che tutti conosciamo, l’op. 11 e l’op. 21, composti tra il 1829 e il 1830. L’op. 21 è in realtà il primo concerto ad essere completato, ma viene rubricato come secondo perché la sua pubblicazione avviene con sei anni di ritardo: è difficile da credere, ma pare che Chopin avesse smarrito il materiale orchestrale. Eppure proprio questo tra i due è il suo preferito, nonostante il pubblico gli chieda più spesso di eseguire l’altro, l’op. 11 in mi minore, in apparenza più impegnativo. Una specie di prova generale avviene il 7 febbraio 1830 a casa di Chopin, seguita a marzo da un’esecuzione nello stipatissimo Teatro Nazionale. Il pubblico decreta il trionfo e le recensioni non sono meno entusiastiche: il Corriere di Varsavia definisce Chopin il “Paganini del pianoforte” e le sue composizioni “sublimi, piene di concezioni nuove”. Curiosamente proprio le “concezioni nuove” in passato hanno fatto storcere il naso a molti critici e hanno dato il via a una tenace polemica anti-chopiniana. Per decenni, infatti, il musicista è stato accusato di aver dato troppa importanza alla parte solistica, relegando l’orchestra a un mero ruolo di accompagnamento. Più in generale si notava con disappunto come venisse ignorato il modello di scrittura imposto dai capolavori di Beethoven. Da tempo la tesi è stata rovesciata ed è ormai chiaro come il valore di quest’opera risieda proprio nella sua ispirazione profondamente libera, animata da uno slancio poetico inconfondibile. I due concerti di Chopin sono il frutto di una sensibilità romantica, sganciata da qualunque canone classico. La loro forma è generata da un avvincente gioco di affinità e contrasti tra i motivi veri e propri, plastici o lirici, e i passi virtuosistici dove la linea melodica si scioglie in infinite figurazioni. La scrittura procede lungo un percorso emotivo e drammatico che raggiungerà i massimi vertici espressivi in opere più tarde, come la Sonata op. 35 o lo Scherzo op. 54. Ma il procedimento appare in tutto il suo fascino già nell’op. 21. Il Maestoso iniziale, ad esempio, si divide nelle tre classiche sezioni (esposizione, sviluppo e ripresa) soltanto in modo molto vago. Impossibile, infatti, individuare due grandi temi contrapposti e una vera e propria sezione di sviluppo. Dopo l’esposizione del primo tema in Fa minore da parte dell’orchestra, il primo tempo procede piuttosto per episodi tematici, brevi spunti intercalati da raffinati arabeschi melodici.
Considerato ormai un pezzo da antologia, il Larghetto si apre con una sorta di serenata in La bemolle maggiore continuamente variata e decorata, che ricorda da vicino la vocalità dell’opera italiana. Un forte contrasto drammatico è creato dalla sezione centrale in La bemolle minore, dove al recitativo del pianoforte fanno da sfondo i tremoli degli archi e i pizzicati dei contrabbassi: un clima cupo e inquieto che si rasserena solo in parte con il ritorno del tema iniziale. Secondo la migliore tradizione l’ultimo movimento, Allegro Vivace, è un Rondò brillante e pieno di energia, dove il popolare ritmo ternario di mazurka sostiene un virtuosismo strumentale da capogiro. Un finale travolgente per un’opera che dalla prima all’ultima battuta sfida duramente il solista tanto sul terreno tecnico quanto su quello espressivo. Il modo in cui lo stesso Chopin eseguì la “prima” del Concerto è diventato proverbiale grazie alla recensione pubblicata l’indomani da un quotidiano: “Con il suo modo di suonare sembrava voler dire al pubblico: ‘ascoltate la musica e non me’“.
“Non è importante sapere quale sia la più bella di queste dieci Leggende: sono tutte stupende! Ognuna ha il suo carattere: alcune lasciano trasparire un’affascinante aria di danza, altre un tenero lirismo, altre ancora un’atmosfera grave, quasi mistica”. Sono parole del celebre critico e musicologo Eduard Hanslick, al quale Dvorák dedica la raccolta op. 59. Le Leggende sono scritte, prima per pianoforte a 4 mani e subito dopo nella versione orchestrale, nel 1881. Proprio in questo periodo il compositore ceco comincia a essere famoso, soprattutto grazie alla prima serie delle Danze Slave e allo Stabat Mater. In questi anni prende il via una carriera che lo porterà al trionfo in mezza Europa e addirittura negli Stati Uniti, dove nel 1892 sarebbe stato nominato direttore del Conservatorio di New York. Che cosa affascina tanto della sua musica? Probabilmente le caratteristiche che continuano ancora oggi a conquistare le platee: la ricchezza delle melodie e la freschezza dell’invenzione, per le quali Dvorák è stato paragonato a Schubert, e soprattutto la sua sensibilità alle suggestioni del folklorie slavo. Le tradizioni musicali dell’Europa orientale sono un ricco patrimonio cui attingono anche Liszt e Brahms, per non parlare di Smetana che insieme a Dvorák ha fatto parlare gli storici di una vera e propria scuola nazionale ceca. Ma, invece di rielaborare melodie tradizionali, l’autore delle Danze slave e della sinfonia “Dal nuovo mondo” crea motivi e temi di sua invenzione, che tuttavia suonano talmente genuini da sembrare autenticamente folklorici. Accade anche in queste Leggende, dove la struttura formale, rigorosamente improntata a modelli colti, è animata da uno spirito schiettamente popolare. Alcuni brani in particolare — il terzo, il settimo e il nono — sono delle vere e proprie danze, e anche nel secondo, il più complesso, il compositore sottopone a un sofisticato gioco di variazioni un motivo dal sapore inconfondibilmente slavo. La scelta del titolo pare sia ispirata alle storie medievali sulle vite dei santi e dei martiri cristiani, ma i dieci episodi scorrono con elegiaca leggerezza uno dopo l’altro senza evidenziare intenti programmatici. “Ingenuità, nostalgia e un grazioso umorismo”, così il biografo Holzknecht ne riassume l’atmosfera che, in effetti, sembra volere escludere programmaticamente qualunque eccesso di drammaticità. Un clima che si respira dalle prime battute, con il trascinante tema in re minore degli archi, fino al luminoso Si bemolle maggiore su cui la raccolta si chiude. Nel mezzo, un profluvio di ritmi, timbri e melodie che rendono difficile non condividere il giudizio entusiastico di Brahms: “Quanto è fresca, allegra e ricca l’inventiva di quest’uomo!”.
Balàsz Kocsàr
Direttore d’Orchestra
Ungherese, si diploma al Conservatorio di Budapest nel 1991. Vincitore di una borsa di studio, segue poi i corsi di perfezionamento tenuti da Karl Oesterreich presso la Hochschule fuer Musik und darstaellende Kunst di Vienna. Nel 1989 è stato uno dei vincitori del Concorso per direttori d’orchestra indetto dalla Televisione Ungherese e nel novembre 1995 ha vinto il Concorso Internazionale per Direttori d’Orchestra “Franco Ferrara”. Dal 1992 è ospite dell’Opera di Stato di Budapest di cui è diventato direttore principale nel 1997. Dal 1993 al 1999 è stato direttore musicale presso il Teatro dell’Opera di Debrecen. Dal 1999 è Primo Maestro Concertatore all’Opera di Francoforte. Dirige regolarmente in Germania, Belgio, Olanda e Svizzera. In Italia è stato ospite dell’Orchestra Sinfonica “G. Verdi” del Maggio Musicale Fiorentino, dell’Orchestra dell’Opera di Roma.
Jeffery Swann
Pianista
Nato nel 1951 a Williams, in Arizona, Jeffrey Swann ha iniziato lo studio del pianoforte all’età di quattro anni ed è stato allievo di Alexander Uninsky alla Southern Methodist University di Dallas. Ha conseguito il Bachelor, il Master ed il Doctor of Music presso la Juilliard School, sotto la guida di Beveridge Webster e Adele Marcus. Numerosi sono i riconoscimenti ottenuti da Jeffrey Swann in campo internazionale, tra i quali il Premio Dino Ciani al Teatro alla Scala di Milano, la medaglia d’oro al Concorso Reine Elisabeth di Bruxelles ed il massimo dei riconoscimenti ai Concorsi Chopin di Varsavia, Van Cliburn, Vianna da Motta e Montreal. Da allora si è esibito con successo negli Stati Uniti e in Europa. Ha un vasto repertorio che comprende più di 50 concerti e opere solistiche, che vanno da Bach a Boulez e dall’integrale delle Sonate di Beethoven alle trascrizioni del tardo Ottocento. Particolarmente interessato alla musica contemporanea, ha eseguito in prima mondiale la Seconda Sonata per pianoforte di Charles Wuorinen al Kennedy Center di Washington ed ha registrato per la Music & Arts varie composizioni contemporanee, tra le quali la Sonata nr. 3 di Boulez.