Le date
Sabato 30 aprile, ore 17
Milano, Teatro Dal Verme
Direttore:
Bruno Santori
Narratore:
Andrea Pellizzari
Testi:
Filippo Fiocchi
Orchestra:
Orchestra di Fiati I Pomeriggi Musicali
Programma:
Go tell on the Mauntain (Rock and Roll)
John Williams
Star Wars (Princess Leia’s Theme)
Leonard Bernstein
West side Story
John Williams
ET (Main Title)
John Williams
Star Wars (Main title)
Bryan Adams
I do it for you (main theme of Robin Hood: Prince of Thieves)
John Williams
Harry Potter (Nimbus 2000)
Harry Mancini
The Pink Panther
Il Concerto
a cura di Marcello Sirotti
Ciak, si suona! Potrebbe essere il sottotitolo di questo concerto dedicato alla musica per il cinema. Musica per le orecchie ma anche per gli occhi, un doppio filo che lega suono a immagine. Della musica da film, superato il preconcetto che la relegava al ruolo di sorellastra di forme più “colte”, oramai si redigono enciclopedie specifiche e si studiano stili e tendenze. Un vero e proprio filone che, nel volgere di poco più di un secolo, si è fatto strada fra espressioni artistiche ben più collaudate e, quel che più conta, è riuscito a far breccia nella sensibilità comune, senza troppa accademia né timori reverenziali. Il cinema rappresenta, piaccia o no, la più importante espressione drammaturgica del nostro tempo. Nelle sale di oggi si compiono in fondo, i medesimi riti di svago e confronto che furono ieri di anfiteatri, corti e teatri a palchetti. Il prodigio tecnologico ha semplicemente compiuto il miracolo di moltiplicare a piacere scena e attori, destinandoli democraticamente ai mille Cinema Paradiso sparsi per i cinque continenti. Alla musica il compito di sollecitare le emozioni di un così vasto uditorio.
Di tali premesse parrebbe ovvia conseguenza l’ascolto immediato di uno squillo di apertura, breve e incisivo, come quelli che, accompagnando leoni ruggenti o montagne mitologiche, significavano in pratica che la proiezione aveva inizio. Invece il compito di aprire la carrellata dei brani in programma spetta a Go tell it on the mountain, gospel della tradizione popolare americana, l’unico che nulla ha a che fare con il mondo dorato di Hollywood. Si apre il sipario e si rende omaggio ad un’America musicale dalle tante anime, che affonda le sue radici nel blues, nel jazz, nel country.
Prestata al cinema, ma nata nel contesto del musical è la celeberrima West Side Story di Leonard Bernstein, concepita già dal 1949, andata in scena nel ’57 e filmata nel ’61. Alle spalle il vecchio desiderio di Broadway di fondere organicamente dramma, musica e danza. Bernstein seppe soddisfare la richiesta con una scelta rivoluzionaria e a doppio taglio: da un lato, e fin qui niente di così strano, una composizione che richiamasse il contesto operistico di stampo europeo; dall’altro la trasposizione in scena di un contesto di vita (e morte) attuale, colpo d’ariete alla tacita legge di Broadway secondo la quale “intrattenimento” doveva significare necessariamente evasione dalla realtà. Infranti i tabù, superato l’inevitabile shock iniziale, il successo decretato a West Side fu delirante, anche da parte delle platee più refrattarie. Il musical e il suo affezionato pubblico erano pronti per un cambio di rotta. Dalle vicende di Jets e Latinos, Capuleti e Montecchi della porta accanto, Bernstein prende lo spunto per disegnare un grande affresco metropolitano. Speranze e disillusioni dei giovani protagonisti si intrecciano sulle note di arie, concertati e danze che prendono il nome di Somewhere, America, Mambo. La fattura è la sintesi perfetta delle due anime di Bernstein, compositore ed interprete: da un lato la tradizione europea, classica e colta, dall’altro la prorompente vitalità della musica americana. L’orchestrazione è raffinatissima ed esuberante, in scena non superstar ma ragazzi, t-shirt e cappellino rovesciato, che si destreggiano in modo credibile fra canto, danza e recitazione. Un’opera che non è un opera, un musical che non è un musical. Soggetto perfetto anche per il cinema, pronto ad appropriarsi del messaggio versatile ed universale (e dell’enorme potenziale commerciale) di West Side Story. Alla pellicola, protagonisti Natalie Wood, Richard Beymer e Rita Moreno, un cospicuo numero di Oscar ed un successo che il tempo non ha scalfito.
Dal cinema e per il cinema nasce invece il “fenomeno John Williams”. Nato nel 1932, autore di un interminabile elenco di colonne sonore di fama mondiale, Williams rappresenta il paradigma del moderno compositore di musica da film. Il suo percorso artistico è esemplare: solidi studi tradizionali, esperienze a tutto sesto (svolge attività concertistica come pianista, lavora nel teatro di varietà) ed un contratto alla Fox come arrangiatore e orchestratore di grandi “guru” quali Alfred Newman e Franz Waxman. Infine l’approdo, negli anni sessanta, a partiture originali che gli hanno permesso di far conoscere il proprio personalissimo stile, nato dal grande cinema classico degli anni ’40 e trasformatosi nel tempo in un duttile “atonalismo romantico”, secondo la definizione dello stesso Williams, vero punto di forza della sua scrittura. L’incontro con registi del calibro di Altman, Lucas e soprattutto Spielberg fa il resto: la musica di Williams diventa lo sfondo della maggior parte dei film ad alto coefficiente spettacolare e ne fa il compositore più richiesto della produzione hollywoodiana.
La saga di Star Wars riapre il capitolo del cinema di fantascienza che sembrava aver raggiunto un apice invalicabile nel mitico 2001 Odissea nello spazio. Siamo alle soglie degli anni ’80, sta iniziando l’era del computer e dei videogiochi; il cinema, che sente il bisogno di accelerare i suoi ritmi, crea gli effetti speciali. Quando si trattò di decidere il commento musicale per Star Wars, George Lucas (regista del primo film e produttore-supervisore dell’intera serie) ebbe un’idea rivelatasi sensazionale: dopo anni di film di fantascienza che utilizzavano musiche “moderne”, volle ritornare alle origini, utilizzando la grande orchestra sinfonica tardo-ottocentesca. Sulle prime pensò a brani preesistenti di celebri compositori ma la cosa non pareva funzionare. Si rivolse quindi a John Williams, la cui fama di musicista più famoso di Hollywood era certificata da nove nomination agli Oscar e due vittorie. La prima edizione della colonna sonora di Star Wars risale al 1977. Le sedute di registrazione ebbero luogo agli Anvil Studios di Londra nel marzo dell’anno precedente; sul podio della London Symphony Orchestra, schierata al completo e integrata da un folto numero di percussionisti, lo stesso Williams. Tutto il materiale venne poi trasferito negli Stati Uniti dove fu mixato e abbinato alla pellicola. Il doppio LP che se ne trasse (l’era dei CD era ancora lontana) in soli sei mesi raggiunse cifre vertiginose di vendita ed il successo fu così globale da esigere una versione “disco-music” che spopolò nelle sale da ballo; all’autore, Star Wars valse il terzo Oscar della carriera.
A un primo, superficiale ascolto, verrebbe spontaneo definire Williams un compositore di impronta wagneriana. Non ci sono dubbi: wagneriano è l’uso del leitmotiv ma l’accostamento si potrebbe fermare qui. Nelle colonne sonore di Williams i motivi conduttori legati ai personaggi, alle cose, alle situazioni si limitano unicamente ad un ruolo narrativo e forniscono allo spettatore una sorta di istintivo codice di riconoscibilità riguardo a ciò che avviene sullo schermo. E qui Wagner non c’entra più, poiché il sistema dei temi conduttori è infatti il metodo compositivo più frequentemente adottato dai compositori del cinema popolare americano; il metodo, per intenderci, che maggiormente si adatta ad una narrazione puntuale, sintetica e rapida. Non per niente i temi creati da Williams per la trilogia sono pochi, ben definiti e soprattutto costruiti con singolare economia di mezzi inventivi. Esemplare è il tema della principessa Leia, uno dei personaggi chiave della saga, unica stella femminile a brillare nel variegato firmamento di Star Wars. A dipingere l’aspetto psicologico di Leia provvedono dapprima i “fiatini”, flauto e oboe, con una tenue introduzione cromatica che sottolinea il tratto delicato della principessa; ad enunciare il vero e proprio tema, la forza di carattere, viene chiamato invece il corno, strumento evocativo e deciso. L’abbinamento, almeno dal punto di vista concettuale, è elementare, ma nelle mani di Williams il motivo prende subito la forma voluta: il richiamo non deve essere solo funzionale all’azione ma anche bello tout-court. Allo stesso modo, e forse anche di più, il pirotecnico Tema principale di Star Wars vive di contrasto fra luci ed ombre. Frammenti ritmici dei fiati scagliati come saette, effetti laser e ossature armoniche ardite sostengono il flusso irrefrenabile della melodia, nella partitura originale affidata agli archi. E non può certo mancare, fra tanto via vai musicale, l’aspetto celebrativo e muscolare, pronto ad instillare nello spettatore-ascoltatore la sensazione appagante di forza vittoriosa.
Frutto della collaborazione fra Williams e Spielberg è E.T., del 1982. E.T. è l’extraterrestre buono capitato per caso sulla terra e il film si propone di sottolinearne l’aspetto “umano”, facendone una creatura familiare e tenera. Al di là delle fattezze fisiche, il ”mostriciattolo” creato da Carlo Rambaldi ha sentimenti e valori da corrispondere e rispettare e Spielberg, andando oltre il “dogma Disney”, che ben di rado si discostava dell’equivalenza “bellezza uguale bontà”, si rivolge a stuoli di teen-agers nell’intento di far loro accettare, per vie traverse, i concetti di tolleranza e solidarietà. Williams è chiamato ad un compito diverso, oltre a quello consueto di spettacolarizzare le scene di azione. Il compositore da film deve comunque fare i conti con l’ineliminabile premessa tecnica che la musica sia un complemento sincronizzato implacabilmente al fotogramma. Le stesse parole del compositore fanno luce sul lavoro matematico che sta a monte della confezione finale. Williams parla di una delle scene più famose del film, la sequenza che include la fuga dei ragazzi in bicicletta nel tentativo di riportare ET alla nave spaziale: “un accento per ciascuna variazione di velocità delle biciclette; un accento molto drammatico per la polizia; un ascesa speciale per le biciclette che volano; musica sentimentale per la scena d’addio tra E.T. e Elliott e, finalmente, quando la nave spaziale decolla, un gran finale a tutta orchestra non appena appare l’ arcobaleno nel cielo. Mi spaventa pensare a quante situazioni musicali specifiche ho dovuto utilizzare per quei 15 minuti di pellicola”. Fatiche da cui nasce un vero e proprio “poema sinfonico”, tanto E.T. è denso di accompagnamento musicale. Ripagate peraltro, come di rito, dall’ennesimo Oscar.
Per il Williams di Harry Potter dobbiamo fare un salto nel tempo di una ventina d’anni. Siamo nel 2001; la mano del compositore non è cambiata molto e, più che altro, non ha mai perso l’abitudine di sfornare partiture di immenso successo. La sua penna versatile è chiamata ora a descrivere non galassie interplanetarie, grattacieli che bruciano o squali che azzannano, ma il mondo a due facce di Harry Potter, l’eroe occhialuto che ha coronato le aspirazioni letterarie (e finanziarie) della sua creatrice J. K. Rowling. Al commento musicale è affidato il compito di traghettare noi “babbani” (come i maghi amano definire chi non è dotato di poteri magici) in una spola continua fra magia e normalità, fra le cose di Hogwarts della fantasia e quelle di Londra della realtà. Fra gli oggetti che ogni mago non può non possedere c’è, ovviamente, anche la scopa da cavalcare. Quella di Harry è la mitica “Nimbus 2000”, la scopa da corsa compagna di tante vittorie al quidditch, sorta di hockey dei cieli in cui i maghi si cimentano. Il Tema di Nimbus 2000 è dinamico e brillante. L’articolazione appuntita e telegrafica su cui è costruito trasmette l’eccitazione del momento e ci richiama col pensiero a L’apprendista stregone di Dukas e a quel capolavoro che fu Fantasia di Disney. Il tema transita per tutta la durata del brano fra i vari strumenti e la trama sonora, seguendo un percorso a parabola, si addensa sempre un po’ di più fino ad incontrare un vertice da cui inizia una sorta di discesa finale. Fra le terzine di oboe e flauto, Nimbus comincia rapidamente a dissolversi. Un ultimo colpetto di piatto a chiudere il vertiginoso diminuendo delle tre misure finali, e la scopa è volata.
Altro cammeo è I do it for you, di Bryan Adams. A veicolare il grande successo internazionale della canzone il suo inserimento nella colonna sonora di Robin Hood principe dei ladri, film storico di cassetta girato nel 1991 . L’operazione di abbinare un brano pop ad un film, indipendentemente da una sincronia drammaturgica, è sicuramente dettata da una strategia commerciale di reciproca pubblicità, nondimeno il fenomeno è interessante anche per altri motivi. Uno di questi è certamente l’estraneità dei due contesti: la sonorità di Bryan Adams è di indiscutibile attualità, se non quotidianità, e nulla ha a che spartire con le vicende della Nottingham medievale se non l’amore fra Robin e Marianna. Eppure il meccanismo funziona ed è credibile; e si potrebbero citare altri esempi illustri, quali My heart will go on di Titanic, I will always love you di Bodyguard o, in tempi meno recenti, Moon River di Colazione da Tiffany, uscita dalla raffinatissima penna di Henry Mancini.
Ed è proprio al musicista italo-americano, ed a quella Pantera Rosa che non finisce mai di stupirci, che è riservato il gran finale della serata. Il percorso di Mancini (1924-1994) è, ancora una volta, quello tipico del compositore americano: talento precoce, studi severi, dura gavetta (nel suo caso come pianista e arrangiatore al seguito del mitico complesso di Glenn Miller) e infine Los Angeles e gli Studios. Mancini giunge all’Universal nel 1951, vi lavora oscuramente per circa sei anni, e la lascia nel ’58, preferendo proporsi come freelance. A segnare la svolta decisiva della carriera l’incontro con Blake Edwards, regista acuto ed elegante, erede per gli anni a venire della gloriosa tradizione della commedia all’americana . Dal lungo sodalizio che ne segue nasceranno successi, oltre a Colazione da Tiffany, quali I giorni del vino e delle rose (Oscar nel ’62), Operazione Crèpes Suzette e Victor/Victoria. La Pantera Rosa, dal nome del diamante che una principessa mondana e viaggiatrice sfoggia nei luoghi del jet-set di mezza Europa, interpretato da Peter Sellers, David Niven e Claudia Cardinale, è del 1963. Per le esilaranti avventure del maldestro ispettore Clouseau, Mancini sfodera il suo formidabile mestiere e maneggia con naturalezza classico e jazz. Il frammento iniziale, quello che tecnicamente è una successione di “quinte” (e in conservatorio sarebbe cassato con la matita rossa) rende immediatamente inconfondibile il pezzo e introduce il tema vero e proprio, quel seguito di balzelli che ci sono familiari da decenni. Il materiale è tutto qua, in fondo poca cosa. Ma è la mano di Mancini a trovare l’equilibrio, la varietà timbrica, le proporzioni giuste senza mai scivolare nel ripetitivo o nel cattivo gusto. Un piccolo capolavoro, nel suo genere. Ed è giusto riconoscimento la fama di cui gode e che non conosce età: il tema della Pantera Rosa, sopravvissuto al film e ai cartoon che seguirono, è divenuto leggendario e si può a ragione considerare la sigla di tutta un’epoca.