Le date
Sabato 2 aprile, ore 17 Teatro dal Verme
Martedì 5 aprile, ore 21 Aloisianum, Gallarate
Mercoledì 6 aprile, ore 21 Teatro Manzoni, Sesto S. Giovanni
Giovedì 7 aprile, ore 21 Teatro Dal Verme
Direttore:
Gabor ÖtvÖs
Oboe:
Paolo Mandelli
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Béla Bartók (1881 – 1945)
Divertimento per orchestra d’archi
Allegro non troppo
Molto adagio
Allegro assai
Richard Strauss (1864 – 1949)
Concerto per oboe e orchestra
Wolfgang Amadeus Mozart (1756 –1791)
Sinfonia in Do maggiore K. 4
Adagio – Allegro spiritoso25 “Linz”
Poco adagio
Minuetto – Trio – Minuetto
Finale: Presto
Il Concerto
a cura di Paolo Castagnone
Il Divertimento per orchestra d’archi fu scritto da Béla Bartók nel 1939 su richiesta di uno tra i massimi sostenitori delle avanguardie storiche, il direttore dell’Orchestra di Basilea Paul Sacher. Quest’ultimo gli aveva commissionato tre anni prima quella Musica per archi, percussione e celesta che, per la sua spericolata ricerca strumentale e linguistica, viene considerata uno dei capolavori più rappresentativi della musica del Novecento. La nuova partitura, però, si distacca notevolmente da quel clima di radicale espressività per dare vita a una pagina ben più gioiosa e spensierata, anticipatrice dell’apparente distacco emotivo che caratterizzerà le pagine scritte negli Stati Uniti.
Il titolo Divertimento può essere già considerato una dichiarazione d’intenti, ma lo è ancor più l’analisi delle strutture compositive, che rende esplicita la volontà di abbandonarsi al piacere del puro gioco musicale, liberamente ispirato ai contrasti sonori tipici dei Concerti grossi in stile Barocco. Il dialogo fra il concertino (un gruppo di strumenti solisti) e il ripieno è utilizzato per alleggerire il tessuto orchestrale, mentre la consueta maestria quartettistica viene impiegata per creare un tessuto polifonico di calibrata inventiva. Ne deriva un clima complessivamente sereno e brillante, sebbene qua e là compaiano sporadiche tracce d’inquietudine: nel primo movimento, per esempio, il tema principale si distende gioioso e amabile, ma tutta la pagina è lacerata da agglomerati di suoni che spezzano la trama intessuta dagli archi.
I numerosi riferimenti alla tradizione – la forma sonata, nell’Allegro non troppo, il rondò nell’Allegro assai – diventano tutt’uno con i richiami al folklore così spesso presenti nelle opere del musicista ungherese. Alcuni studiosi ravvisano nel ritmo iniziale un chiaro riferimento a una danza popolare rumena, la “hora”, ma anche la pulsante scansione metrica del tempo conclusivo sembra volersi richiamare alla verve di un ballo contadino. Inconfondibilmente bartokiano nell’alternanza di zone di cupa meditazione e di elegiaca poesia è invece l’Adagio, che mette in luce tutta la sensibilità timbrica del compositore.
Il sentimento prevalentemente ottimistico del brano può forse essere spiegato col fatto che Bartók portò a termine la sua partitura durante un’operosa vacanza estiva trascorsa nella casa di campagna dei Sacher, adagiata tra le verdi montagne della Svizzera. Il paesaggio agreste favorì certamente la genesi di una musica distesa e brillante, mentre il crescente disagio esistenziale del musicista ungherese di fronte agli orrori della seconda guerra mondiale venne riversato nel Sesto quartetto per archi, composto pochi giorni prima del proprio volontario esilio in America.
Apparentemente Richard Strauss fu spinto a scrivere il Concerto per oboe e orchestra da camera dall’incontro, avvenuto presso la propria villa di Garmisch nel 1945, col grande oboista John de Lancie, allora in servizio presso le forze armate statunitensi di stanza in Europa. Tra l’altro in quel momento i diritti d’autore dell’ormai ottantenne compositore erano stati “congelati” in attesa di chiarire i suoi scabrosi rapporti col Nazismo (era stato fino al ’35 presidente della Camera Musicale del Reich e spesso fu in contatto con le alte gerarchie del regime): scrivere alcuni nuovi lavori era l’unica possibilità per poter aggirare il problema e ricevere dei compensi professionali. Per meglio comprendere la natura profonda di una delle sue ultime opere, questi elementi occasionali debbono però essere integrati da alcune valutazioni artistiche e storiografiche.
Alla luce di come si è sviluppata la vita musicale nella seconda metà del Novecento, il musicista tedesco sembra infatti essere un uomo largamente sopravvissuto al proprio tempo che vuole ricondurre il proprio linguaggio nell’alveo di una tradizione totalmente estranea alle avanguardie, con una lucidità dichiarata senza mezzi termini: «Problemi: parola d’ordine cara a chi non riesce mai ad arrivare in fondo e sinonimo di incapacità a concludere».
Nel Concerto per oboe questa consapevole inattualità, ch’è nutrita di ammirazione per le forme classiche e soprattutto per il supremo modello mozartiano, è fusa con elementi ancora più arcaici, direttamente attinti all’arte barocca. La nuova e più radicale scelta formale conduce il compositore a un fraseggio terso, a una severa sobrietà musicale; con essa vengono spazzati via anche gli ultimi retaggi tardo-romantici: lo sviluppo tematico, la densità polifonica, l’esibito virtuosismo compositivo. Assai significativa, in tal senso, la scelta di una formazione cameristica, che porta a compimento un’idea già espressa perentoriamente nel 1929 in piena rispondenza al neoclassicismo proposto da Stravinskij e Hindemith: «È mia convinzione che la sola scelta determinante ai fini dell’efficacia drammatica è quella di un organico orchestrale ridotto. L’orchestra dell’avvenire è quella da camera».
In questo quadro va collocata anche la preferenza accordata all’oboe come strumento solista, poiché il suo timbro nitido e dolce richiama immediatamente alla memoria le melodie bucoliche e arcadiche che spesso la tradizione gli ha assegnato. Anche la funzione solistica svolta dal protagonista è espressa nel senso più classico del termine, affidandogli l’esposizione di tutti i temi principali. Sempre secondo la concezione settecentesca, la partitura adombra la tipica partizione in tre movimenti, che però, in questo caso, si susseguono senza alcuna soluzione di continuità. Nella prima sezione – Allegro moderato – si sovrappongono i riferimenti alla forma-sonata del Classicismo con i richiami alla scrittura a “blocchi” tipica del Barocco, sebbene la magniloquente alternanza fra il “Tutti” e il solista che caratterizzava i concerti di Vivaldi o di Händel venga qui trasformata in una plastica riduzione e amplificazione delle sonorità orchestrali. Impressionante è poi l’equilibrio delle proporzioni nell’esposizione tematica e nella ripresa delle idee in un Andante che avrebbe potuto fare invidia a un compositore dell’epoca dei lumi. Tuttavia è il Vivace conclusivo a creare un clima pastorale giammai ascoltato nell’arte straussiana, quasi volesse ricordarci che il suo creatore, non amando esprimere i propri sentimenti in prima persona, preferì nascondere l’amarezza per la fine della civiltà di cui si sentiva l’ultimo rappresentante dietro una maschera da commedia dell’arte.
Leopold Mozart osteggia fino all’ultimo il fidanzamento tra il figlio e Konstanze Weber: agli occhi di un uomo imbevuto di una mentalità “Acien Règime” non può certo essere positivo imparentarsi con una stirpe di musici ambulanti! Tuttavia Wolfgang è sinceramente innamorato della ragazza e nelle proprie lettere si giustifica affermando ch’è necessario «salvare questa povera figliola, la quale non ha uno spirito vivace, ma il buon senso utile per compiere i suoi doveri di moglie e di madre». Dopo le nozze, celebrate nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna il 4 agosto 1782 con la vistosa assenza dei familiari, il musicista si ripromette di portare quanto prima la moglie a Salisburgo per presentarla al padre. Il viaggio deve essere rimandato perché la sposa rimane ben presto incinta e soltanto l’anno successivo gli sposi possono mettersi in viaggio. Il soggiorno salisburghese è pieno di amarezze, in quanto Mozart – in mancanza di documenti scritti che dimostrino le sue dimissioni dalla cappella musicale della città – è ancora ufficialmente alle dipendenze dell’odiatissimo arcivescovo Colloredo. A rinfrancare lo spirito avvilito del compositore, sulla via del ritorno a Vienna giunge una lieta sorpresa. A Linz li attende il Conte Johann Joseph Anton Thun, un vecchio amico della famiglia Mozart e un acceso sostenitore del compositore sin dalla sua infanzia: grandi festeggiamenti e incarico di organizzare un “Accademia” così, su due piedi. Amadeus, che in valigia non ha nulla di adatto alla circostanza, compone in circa quattro giorni una Sinfonia imponente, con trombe e timpani, nella luminosa tonalità di do maggiore.
Molto è stato detto sulla sua sconcertante rapidità di compositore, ma qui l’impresa è tanto più impressionante se si pensa alla vastità dell’impianto dell’opera. La K 425 è la prima sinfonia mozartiana ove l’Adagio introduttivo viene impiegato in maniera tanto solenne e consapevole: è un’anticipazione della “Praga”, della Sinfonia K 543, dell’Ouverture del “Don Giovanni”. Con questi esempi, però, l’introduzione della “Linz” non condivide l’estrema tensione drammatica che, col suo incedere lento e solenne, sembra invece riattingere alla teatralità delle ouverture alla francese. “Barocchi” sono anche i netti contrasti dinamici che caratterizzano una pagina culminante in un fortissimo di tutta l’orchestra. Dopo una pausa con corona ecco apparire, purissimo, in piano, il tema principale dell’Allegro, declamato dai violini primi col sostegno degli archi: è un motivo semplicissimo, curiosamente asimmetrico nella sua esposizione in una frase di dieci battute in cui predominano le note tenute. Con una tecnica già felicemente attuata nella “Haffner”, Mozart fa germinare una frase dall’altra, imprimendo al discorso un eloquio serrato e unitario, come farà più tardi Beethoven. Tutto il primo movimento è percorso da accenti vigorosi sebbene non eroici, cui danno un netto rilievo i fiati, che per tutto il corso dell’opera hanno continuamente occasione di brillare, sovrastando le altre compagini orchestrali. Nel secondo movimento, Poco adagio, notiamo subito un altro elemento originale, poiché suonano anche le trombe e i timpani, in contrasto con uno dei principi basilari della tradizione musicale settecentesca che vorrebbe questi strumenti silenziosi durante i tempi lenti. Probabilmente all’anziano conte Thun piaceva la musica militare e Mozart volle omaggiarlo con le squillanti sonorità da lui amate. La pagina è costruita su un ritmo di Siciliana impreziosito da lievi cromatismi, che conferiscono a un brano fondamentalmente contemplativo una malinconia di struggente bellezza. La trasparente scrittura del Minuetto è certamente riconducibile agli analoghi movimenti haydniani, mentre l’oboe e il fagotto intonano un Trio la cui melodia in stile concertante è probabilmente ispirata ai canti paesani dei contadini austriaci, se non addirittura desunta da uno di essi. Nel Finale, un Presto in forma-sonata, si nota un’ulteriore rielaborazione in chiave personale di uno degli stilemi preferiti da Haydn, la gioiosa fusione fra la scrittura contrappuntistica e una pulsazione ritmica scatenata, che conduce la Sinfonia al suo epilogo trionfale.