Le date
Mercoledì 16 febbraio, Saronno, Teatro Giuditta Pasta
Giovedì 17 febbraio, Milano, Teatro Dal Verme
Sabato 19 febbraio, Milano, Teatro Dal Verme
Direttore:
Otmar Maga
Clarinetto:
Angelo Teora
Fagotto:
Luca Ceretta
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Programma:
Richard Strauss (1864 – 1949)
Metamorphosen, Studie für 23 Solostreicher
Adagio non troppoAgitato
Adagio, tempo primo
Duett-Concertino, AV 147, per clarinetto, fagotto, archi e arpa
Allegro moderato
AndanteRondo: Presto
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sinfonia n. 2 op.36 in Re maggiore
Adagio molto – Allegro con brio
Larghetto
Scherzo: Allegro
Allegro molto
Il concerto:
a cura di Andrea Dicht
E’ purtroppo una consuetudine dover deplorare, in ogni scritto di musica, la scomparsa sempre prematura di un compositore. Ne sono esempi le biografie di Mozart, Schubert e molti altri, e alle considerazioni sul loro arco creativo si accompagna sempre un’aura speciale che circonda le ultime opere, in genere distillati di saggezza o composizioni definitive e proiettate verso il futuro, un epoca destinata a rimanere informata dei loro prodotti.
Strauss fu un compositore assai longevo, visse 85 anni, e se si considera che alcune sue composizioni create intorno ai diciotto anni di età sono tuttora in repertorio in tutto il mondo e che egli è stato attivo sino alla morte, la sua vita è stata quasi del tutto produttiva e la sua morte da piangere come ogni scomparsa ben più inattesa.
Vivere così tanti anni, a cavallo di due secoli che hanno conosciuto un’accelerazione della percezione del tempo mai vista fino a quel periodo, vuol dire essere condannati inevitabilmente all’etichetta di “inattuale”, anacronistico, rudere.
Se consideriamo la storia della musica del tardo romanticismo e della prima metà del Novecento solo sotto il profilo dell’evoluzione, un giudizio come quello appena espresso è del tutto lecito ma, per fortuna, le storie della musica sono tante, di certo una per ogni grande personalità.
Le ultime opere di Strauss, e quelle che ascolteremo stasera sono i suoi due ultimi lavori strumentali, sono un mondo a sé stante eppure sottoposto ad un arco evolutivo, anche se suo proprio e non condiviso con nessun altro compositore.
Partito da premesse estetiche del tutto riconducibili al sinfonismo di Mahler o del primo Schönberg quanto a gigantismo orchestrale e intrico delle parti, Strauss ha progressivamente “pulito” il proprio linguaggio perseguendo ideali più rococò che neoclassici, e il Duett-concertino di questa sera ne è un significativo esempio.
Strauss, però, a dispetto di una certa critica che lo indicava come un artista in fuga dalla realtà del suo tempo (come se questa fosse una colpa, poi…) in Metamorphosen mostrò al suo pubblico quanto invece fosse del tutto inserito nella sua epoca e come, nonostante fosse stato dal 1933 al ‘35 presidente della Reichsmusikkammer, condannasse la guerra e tutte le conseguenze che arrecò al mondo.
Metamorphosen non è una sinfonia, non è musica da camera ma neanche eminentemente sinfonica, è destinata ad un insieme nutrito di archi ma le parti dei singoli musicisti sono personali e reali.
Definire questo brano è difficile perché esclude ogni categoria, pur partecipando dell’essenza sia della musica sinfonica che di quella cameristica.
E’ uno “studio”, un esperimento e quindi una ricerca di qualcosa di nuovo, e la definizione che ne dette lo stesso compositore è forse l’unica davvero pregnante; è per 23 archi solisti, ovvero 10 violini, 5 viole, 5 violoncelli e 3 contrabbassi, non ci sono fiati né percussioni e, anche nei momenti più sinfonici, non se ne sente alcun bisogno.
E’ davvero un’opera singolare, composta espressamente in seguito alla notizia che la Germania di Strauss, una nazione espressa “anche” e principalmente (per un compositore anziano e molto noto) dai suoi teatri, cadeva sotto i bombardamenti aerei e una civiltà si spegneva per sempre.
Nel 1941 veniva distrutta la Staatsoper di Berlino, due anni dopo anche il Nationaltheater di Monaco, la città di Strauss, il 12 marzo 1945 cadeva la Staatsoper di Vienna: il giorno successivo, 13 marzo, comincia la composizione di Metamorphosen, un’opera intrisa di cordoglio e dell’ineluttabilità di una fine alla quale era difficile credere.
Strauss lavora senza soste nonostante l’età, il 30 aprile gli americani occupano Garmisch, la cittadina nella quale egli viveva nell’augusto isolamento di una splendida villa acquistata con i proventi dei diritti delle sue opere.
Un mese di lavoro e il 12 aprile la partitura è pronta.
Il 1° maggio Hitler è trovato morto nel suo bunker.
Tutto questo è compreso nelle note, prive di qualunque intento descrittivo ma allo stesso tempo assai eloquenti, ma non si tratta di un’opera solo negativa poiché frequenti e inattesi sono i momenti di luce.
Seguire la partitura puntualmente è pressoché impossibile, tanti sono gli elementi che vi sono intersecati, sovrapposti, giustapposti in una struttura generale che offre pochi appigli, e la stessa suddivisione in tre sezioni di andamento diverso in realtà cela un’architettura di fondo complessa e perfettamente coesa.
Gli incisi tematici fondamentali sui quali è costruito il lavoro sono due, presentati in apertura e subito elaborati fino a diventare irriconoscibili.
Dei due, uno percorre tutto il brano ed è desunto dal tema della Marcia Funebre dell’Eroica di Beethoven, tema di riferimento che viene citato testualmente in chiusura del brano.
Val la pena rilevare, comunque, che l’autore, seppur debolmente, cercò di negare ogni intento apertamente semantico nella scelta del tema beethoveniano e nella sua elaborazione, anche se nella sua citazione esso appare in partitura accompagnato dall’epigrafe “In memoriam”.
Peraltro Strauss, interrogato sul significato del titolo di questa composizione, tenne a precisare che le metamorfosi non sono quelle a cui vengono sottoposti i temi, bensì egli voleva far riferimento a questa parola che spesso ricorre nella poesia di Goethe, del quale aveva riletto l’opera omnia poetica durante i giorni del conflitto mondiale.
La prima esecuzione di Metamorphosen si tenne a Zurigo il 25 gennaio 1946, ad opera del Collegium Musicum della stessa città, diretto da Paul Sacher.
A questo ensemble e al suo direttore la partitura è dedicata.
Il ‘46 fu l’anno dell’esilio svizzero di Strauss, una permanenza che pesò molto sull’animo stanco di un compositore che vedeva lo scorrere dei suoi ultimi anni in una condizione immeritatamente disagiata, ed inoltre assisteva ad un oscuramente della propria notorietà a causa degli incarichi e dell’occhio di riguardo di cui aveva goduto durante la dittatura hitleriana.
I mesi svizzeri servivano anche a questo, alla denazificazione della sua immagine, come anche il Festival Strauss del 1947, che venne organizzato a Londra sotto gli auspici del direttore Sir Thomas Beecham e nel quale le sue opere più significative vennero eseguite.
Strauss stesso diresse l’orchestra nonostante l’età avanzata.
Con il Duett-concertino, sua ultima composizione strumentale (a 83 anni!), assistiamo alla nascita di un lavoro che, a differenza del precedente, sembra del tutto estraneo ad ogni vicenda emotiva o politica, e si rifà invece apertamente a quell’atmosfera fantastica e onirica alla quale si era ispirato in molti suoi lavori degli anni passati, vedi le opere “Capriccio” o il famoso “Cavaliere della Rosa”.
Dedicato a Hugo Burghauser, ex fagottista dei Wiener Philharmoniker emigrato negli Stati Uniti durante gli anni bellici, il duetto venne eseguito per la prima volta a Lugano, con l’Orchestra della Radio della Svizzera Italiana, sotto la guida di Otmar Nussio, e proprio a questo direttore dobbiamo le notizie più importanti riguardo questa pagina così geniale e sorprendente.
Nussio spinse Strauss verso la composizione di una “favola”, ovvero di un brano tagliato su una concezione drammatica, con un paio di personaggi ed una tenue trama di riferimento e questa concezione, per un compositore che al teatro aveva dedicato ogni sua energia, la proposta suonava allettante.
Ogni riferimento alla favola, però, è da riferirsi alle parole di Nussio poiché la partitura non reca alcuna indicazione a questo riguardo.
Sappiamo solo che Strauss scrisse all’inizio della riduzione per pianoforte (e solisti) “Principio: Motto”, in luogo della consueta indicazione di tempo, ad indicare che l’inizio della musica va inteso come la presentazione degli attori di una commedia che si avvarrà solo di suoni, il cui svolgimento è lasciato alla fantasia di chi ascolta.
Nussio incontrò Strauss a Pontresina, dove il compositore risiedeva, e queste sono le definizioni che l’autore gli confidò durante la prima analisi della partitura.
Egli ci racconta che le prime nove battute del brano, l’apertura iniziale, significano “C’era una volta…”, come in ogni fiaba, e ad esse segue la presentazione dei due personaggi, cioé i solisti.
Il tema del clarinetto rappresenta “La Principessa”, aerea, appartenente ad un mondo di sogno ma anche a tempi ormai passati, quando l’ordine naturale delle cose era garantito, un’epoca di certezze quasi fanciullesche se paragonate ai giorni che l’anziano Richard viveva in Svizzera.
Il fagotto, che aveva taciuto sino a quel momento, entra con un tema definito come “Il Mendicante”, di tenore molto diverso dal precedente, è goffo, affatto leggero e del tutto incompatibile per sua natura con ogni nobiltà principesca.
I due si incontrano e la trama si sposta nel “Palazzo” (tema degli archi “Un poco Maestoso”), dove comincia un episodio, “Adorazione”, corrispondente all’Adagio che conclude la prima parte del lavoro.
Tutto il finale, un Rondò di fattura assolutamente eccezionale, è da considerarsi come una specie di happy end conclusivo, nel quale non è difficile immaginare un mendicante che si trasforma in principe o quant’altro.
Ciò che emana da queste note è fascinazione, è desiderio di sognare, di immergersi in una dimensione irreale e probabilmente è da questo tipo di composizioni che la critica partì quando parlò di una fuga dalla realtà, inaccettabile in quel momento storico così come in ogni altro.
Di certo la distanza che separa Metamorphosen dal Duett-concertino è enorme, ma Strauss era un individuo talmente radicato nella realtà sociale del suo tempo da obbligarci a cercare una diversa lettura.
E’ più probabile che questo vecchio saggio ci abbia voluto indicare tanto una via d’uscita, il sogno, quanto una speranza in un mondo, quello fiabesco, irrealizzabile ma al quale ispirarsi per l’edificazione di una nuova società e di una civiltà che sostituisca quella appena sepolta dalle bombe.
“In quanto alla data di consegna nulla posso promettere, non essendo io capace, come Schubert e Mozart, di comporre in pochi giorni delle Sinfonie sublimi”.
Così Strauss aveva scritto a Nussio il 17 luglio 1947.
Richard Strauss fu una personalità musicale a tutto tondo perché parallelamente all’attività di compositore non abbandonò mai la direzione d’orchestra, arte nella quale eccelleva e che gli permise di rimanere sempre in stretto contatto con la musica “vissuta” e pratica.
Nell’opera si distingueva nella musica di Wagner e di Mozart, ma l’autore centrale della sua attività di direttore sinfonico era proprio Beethoven. Non è quindi affatto azzardato affiancare le due opere di Strauss oggi in programma con la Seconda Sinfonia di Beethoven, un brano, tra le altre cose, di grande virtuosismo orchestrale e di particolare impegno direttoriale.
La Prima Sinfonia di Beethoven, op.21 rappresentava una specie di omaggio ad uno stile, quello classico, nel quale le sinfonie di Mozart e ancor più di Haydn si configuravano come i migliori e più maturi frutti. Beethoven raccoglie coraggiosamente un’eredità così pesante, e con la Sinfonia n.1 dimostra di saper padroneggiare quel linguaggio, svelando addirittura alcune possibilità di superamento ed espansione di un modello già allora assai sfruttato e sviscerato nelle sue potenzialità formali e di contenuto. La Seconda Sinfonia appare allora come un “commiato” e parzialmente come una presa di distanza dalla tradizione.
Seppure in sostanziale ossequio a strutture ormai accettate e metabolizzate dal pubblico di inizio secolo XIX, un’incontenibile vis ritmica è alla base di una costruzione di ampie dimensioni, ancora però troppo interessata ad un’armonia degli elementi che compiaccia e non deluda l’uditorio.
E’ l’omaggio finale, e sin dalle prime misure: imbevuto della lezione haydniana Beethoven apre il brano con uno splendido Adagio molto annunciato da un forte accordo ad orchestra piena, una specie di rintocco che richiama l’attenzione del pubblico.
Si delinea una breve melodia di oboi e fagotti, cantabile e positiva, e subito una breve figurazione puntata dei flauti riconduce di nuovo ad un rintocco ammonitore. Stavolta sono gli archi a riproporre la melodia precedente ma la variano, come a voler stabilire subito le coordinate del discorso che seguirà: questo è ciò che avete sentito sinora, adesso lo ripeto con le mie parole.
Comincia così questa introduzione, tutta incentrata sulla ricerca di qualcosa di ignoto, a partire dalla tonalità, fortemente negata dopo una sola dozzina di battute. L’atmosfera è misteriosa e da ogni inciso melodico sembra che stia per avere inizio un nuovo periodo musicale, ma non è così: Beethoven ha bendato gli occhi dell’ascoltatore, lo fa girare su se stesso per ingannarne l’orientamento e su una scala discendente dei violini in crescendo strappa via la benda e nasce l’Allegro con brio.
Il tema principale è nella regione grave degli archi, violoncello e viola, secondo le regole dell’ouverture dell’opera napoletana; è un tema singolare, cantabile ma ritmicamente inquieto, una miccia che brucia lentamente, tra piccole scintille, preludendo una deflagrazione che puntualmente arriva a piena orchestra.
Ancora teatro, dunque, gioco e ironia a tal punto che il secondo tema, quello che “dovrebbe” essere più calmo e moderato, è invece una piccola marcia di clarinetti, fagotti e corni, dal sapore infantile e senza dubbio assai derisorio.
Questo sarà l’umore complessivo di tutto il primo movimento, con un ampio sviluppo tutto giocato su riprese e micro-variazioni dei temi principali, tutto nella norma ma basato su una lettura estrema della norma stessa.
Il Larghetto, secondo movimento, è forse la pagina più ispirata della sinfonia. Prediletta da Berlioz e Schubert, essa si basa su un tema iniziale particolarmente semplice ed equilibrato, molto espressivo ma grazioso e gradevole. Gli episodi che succedono questa esposizione saranno tutte rielaborazione di questo tema, che verrà presentato sotto luci cangianti, diventerà enigmatico, malinconico, nostalgico o scherzoso. Merita una particolare attenzione la coda conclusiva, una rêverie di quanto prima affermato sotto il bagliore dell’incanto fiabesco, qualche misura del miglior Beethoven.
Lo Scherzo è molto conciso e si fonda sul contrasto dinamico: le alternanze di piano e forte, di orchestra completa e singole sezioni, di unisoni ed accordi larghi sono il materiale di un discorso musicale fluido ma capriccioso. Il Trio che vi è incastonato all’interno è breve e dal sapore inconfondibilmente pastorale.
Il Rondò conclusivo, un Allegro molto dall’andamento assai rapido, è invece un brano piuttosto esteso e, seppur in forma libera, è strutturalmente molto coeso e ben organizzato in episodi dal carattere contrastante. Esso si apre con un inciso netto ed imperioso, di certo non “orecchiabile” e assai poco disponibile a compromessi “sociali”. Nel breve volgere di poche battute il discorso è già nel pieno dello svolgimento; la vitalità ritmica che avevamo annunciato in apertura della sinfonia trova qui un terreno fertile al suo dispiegamento. E’ energia pura quella che Beethoven muove all’interno dell’orchestra, virtuosismo è quello che richiede a fiati ed archi, insieme a leggerezza e versatilità. Anche l’orchestrazione muta: gli archi vengono utilizzati come strumenti a fiato e viceversa, strumenti dalla tessitura grave suonano nelle regioni acute, e spesso sembra di udire colpi di timpano anche quando esso tace. Siamo alla rivoluzione ma si tratta di una messa in scena: il taglio netto col passato avviene con la prossima Sinfonia, l’Eroica, un luogo dove non si scherza più e dove non c’è bisogno di affermare la rottura. Essa c’è e volente o nolente il pubblico dell’epoca dovette accettarlo.
Othmar Maga – Direttore d’orchestra
Nato a Brno, in Moravia, Othmar Maga ha studiato violino e direzione d’orchestra a Stoccarda e musicologia a Tubinga, perfezionandosi poi in direzione d’orchestra con Paul van Kempen, Ferdinand Leitner e Sergiu Celibidache. “Generalmusikdirektor” dell’Orchestra Sinfonica della Ruhr fino al 1981, direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica di Odensee, ha assunto la direzione stabile dell’orchestra I Pomeriggi Musicali dal 1987 al 1990. E’ inoltre stato direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica dello KBS (Radio e Televisione Coreana) tra il 1992 e il 1996 e direttore ospite delle più importanti orchestre del mondo, dai Berliner Philharmoniker alla BBC, dall’Orchestra di Santa Cecilia all’Orchestra Nazionale di Francia.
Angelo Teora – Clarinettista
Diplomato con il massimo dei voti al Conservatorio G. Verdi di Milano, ha in seguito ottenuto il diploma di merito e d’onore presso l’Accademia Chigiana e si è perfezionato ad Assisi con il M° Leister. Dal 1980 è primo clarinetto dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano. Ha registrato per la Radio Svizzera Italiana, per la Radio Parigi, per la Radio Inglese e per la RAI. Sempre per la RAI ha eseguito un programma di musiche per clarinetto solo dedicate a lui da compositori italiani. Ha collaborato con l’Orchestra Filarmonica della Scala, con le Orchestre dei Teatri di Genova, Cagliari e Trieste. Come solista si è esibito con i Maestri Pradella, Gatti, Viotti, Severini e ha eseguito il Concerto per clarinetto e orchestra di Mozart sotto la direzione del Maestro Aldo Ceccato. E’ docente di clarinetto presso il Civico Istituto Musicale G. Donizetti di Bergamo e ha tenuto numerosi corsi di perfezionamento a Lanciano e Castelsardo.
Luca Ceretta – Fagotto
Nato a Milano, si è diplomato nel 1990 presso il Conservatorio di Genova. e nel 1992 presso la Scuola di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo, sotto la guida dei Maestri Vernizzi e Costantini. Ha partecipato ad uno stage tenuto dal M° Damiano e per la musica da camera si è avvalso della guida dei Maestri Bourgue e Indermuhle. Dal 1993 si è poi perfezionato con il MaestroValentino Zucchiatti. In qualità di solista ha vinto concorsi nazionali ed internazionali. Ha inciso, sempre come solista, i Concerti di Vivaldi: La Notte, La Tempesta di Mare, il Concerto in Si bemolle maggiore con l’Orchestra Filarmonica Italiana per la Fabbri Editore. Ha ricoperto il ruolo di Primo Fagotto presso l’Orchestra Filarmonica Veneta di Treviso, presso il Teatro Regio di Torino, presso l’Orchestra Carlo Felice di Genova e presso il Teatro alla Scala di Milano. Dal giugno 1996 è primo Fagotto dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano.