Autori vari - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 20 gennaio 2005
Ore: 21:00
sabato 22 gennaio 2005
Ore: 17:00

Giovedì 20 gennaio, ore 21 Teatro Dal Verme
Venerdì 14 gennaio, ore 17 Teatro Cagnoni, Vigevano
Sabato 22 gennaio, ore 17 Teatro Dal Verme

Direttore
Gabor Hollerung
Pianoforte
Benedetto Lupo
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Programma:
Fabio Vacchi (Bologna, 1949)
Dai calanchi di Sabbiuno”, per orchestra da camera

Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 1756 – Vienna, 1791)
Concerto per pianoforte e orchestra in Do maggiore K.467
Allegro maestoso
Andante
Allegro vivace assai

Franz Joseph Haydn (Rohrau, 1732 – Vienna, 1809)
Sinfonia in Sol maggiore “La sorpresa”, Hob 1:94
Adagio cantabile – Vivace assai
Andante
Menuetto: Allegro molto
Finale: Allegro molto

Il Concerto:
di Paolo Castagnone
« Di questi tempi tutto ciò che sa d’impegno è guardato con sospetto, quasi fosse un termine fuori moda » [Fabio Vacchi]

Nato nel 1995 per un concerto commemorativo del cinquantenario della Liberazione, “Dai calanchi di Sabbiuno” ha una genesi che si intreccia indissolubilmente con la biografia dell’autore. «Il titolo allude a delle fenditure argillose sulle colline vicino a Bologna, nelle quali furono buttati i corpi di numerosi partigiani, fucilati fra il 1944 e la primavera del ‘45. È un luogo molto vicino a dove sono nato e cresciuto: pensare ai calanchi quando mi chiesero un pezzo ispirato alla Resistenza fu per me spontaneo. È una composizione di carattere emotivo – una specie di marcia funebre accennata, trattenuta, incessantemente scandita dai rintocchi di una campana – con cui, per la prima volta, ho reso esplicito il mio impegno sociale, poiché ho sempre creduto che il pensiero di un artista si esplica all’interno dell’opera, non nelle parole che la descrivono».

Questa urgenza comunicativa è rintracciabile in diversi elementi compositivi, a cominciare dal costante movimento melodico che nasce dai registri gravi per spingersi verso gli acuti, forse una metafora del canto scaturito dalle viscere di una terra da cui cento partigiani invocano soltanto di non essere dimenticati. Quasi a voler bilanciare l’intima partecipazione, la struttura del brano è estremamente controllata, con una ripartizione ternaria [ABA’] riconducibile alla passione dei classici viennesi per la “sezione aurea” o alla sensibilità per le simmetrie formali di alcuni degli autori prediletti dal musicista emiliano, quali Béla Bartók. In tal maniera la rimembranza di un doloroso fatto storico diviene a sua volta memoria di una consolidata tradizione artistica. Ovviamente ciò non significa che l’opera possa essere ricondotta a espliciti modelli di riferimento, poiché gli stilemi presenti in essa sono i medesimi che Vacchi è andato maturando nel proprio personalissimo percorso artistico, tanto che egli può affermare: «Sono consapevole di non aver scritto un brano di facile ascolto : avrei potuto usare un linguaggio più semplice, ma ho preferito usare i miei parametri, i miei campi armonici, le mie proiezioni timbriche».

La partitura originale prevede la presenza di cinque strumenti: flauto, clarinetto basso, campana tubolare, violino e violoncello. Su richiesta della “Gustav Mahler Jugendorchester” e de “I Pomeriggi Musicali”, ne sono state approntate dall’autore due ulteriori versioni, rispettivamente per grande e media orchestra. Nella trascrizione del brano il compositore non ha modificato alcun parametro formale, bensì ha esaltato gli elementi motivici e la linea appena accennata del canto, sviluppando al massimo grado le raffinatezze timbriche e conferendo ulteriore intensità alla rigorosa struttura armonica.

« Lo spirito forma la mano, la mano forma lo spirito »
[Henry Focillon]

Spesso si è affacciata nella storia dell’estetica musicale la tentazione di svalutare gli aspetti tecnici e materiali del fare artistico a favore della nobile genialità dell’ispirazione. Tuttavia molti capolavori mozartiani sarebbero inconcepibili se si escludessero dal suo orizzonte creativo le nuove possibilità di scrittura permesse dal perfezionamento costruttivo degli strumenti musicali del tempo. Tra i protagonisti di questa essenziale seppur misconosciuta rivoluzione tecnologica, spicca il nome del costruttore di pianoforti Johann Andreas Stein, che mise a punto un nuovo tipo di Klavier con il piano e il forte, duttile al tocco, dotato di una meccanica silenziosa e di una dinamica generosa. « Tutti dicono cose meravigliose di Wolfgang – scriveva la madre nel dicembre del ‘77 da Mannheim – perché qui ci sono i pianoforti di Stein, con cui si esprime tanto straordinariamente bene ».

Questa importantissima esperienza con degli strumenti a tastiera di miglior qualità matura nella mente creativa del musicista austriaco nel corso di un decennio, per giungere a un primo grandioso compimento nel 1785, “annus mirabilis” per Mozart: ricercato come compositore e come pianista, riceve commissioni importanti e tiene affollati concerti pubblici. Corona questo felice periodo la visita inattesa del padre, che giunge a Vienna il 10 febbraio, giorno in cui viene terminata la partitura del tragico e sublime Concerto in re minore K.466. Con uno dei suoi tipici cambi d’umore, quattro settimane dopo Wolfgang scrive il Concerto in do maggiore, colmo di allegria e tenerezza, ma soprattutto stupefacente per la sua grandiosità. Il genio di Salisburgo dimostra qui più che in ogni altra opera precedente la propria capacità di trattare le grandi masse, pensando in termini di estese aree tonali e compatti blocchi sonori.

Il gesto d’apertura dell’orchestra è decisamente sinfonico e infatti è proprio il respiro più profondo del K.467 a preparare i presupposti per la magnificenza della Praga e della Jupiter. Stupisce che proprio il pianoforte contribuisca a questa densità armonica e continuità ritmica, ergendosi ad autentico protagonista e non ricoprendo più un ruolo semplicemente decorativo. L’ammirevole maestosità del primo movimento è determinata anche dall’enorme distanza che si crea fra i due poli strutturali della forma, il primo e il secondo tema, che divengono le colonne portanti di un grandioso arco espressivo costituito da un’evoluzione motivica praticamente continua.

La stessa efficace semplicità domina l’«Andante», che può essere considerato una libera interpretazione di un’aria vocale. Su un suadente sottofondo creato dagli archi con sordina e dal pizzicato dei bassi, il solista traccia una serie di lunghe campate melodiche, estremamente intense sul piano espressivo: l’unico accenno di virtuosismo prende spunto dagli ampi salti di registro tipici delle cavatine operistiche dell’epoca. Se la forma è complessa da descrivere, è soltanto perché essa è talmente personale e cangiante che non si hanno parole per classificarla. Tuttavia è proprio la presenza di impercettibili e continui mutamenti nell’armonia, nel ritmo, negli intervalli melodici e persino nell’orchestrazione, a richiedere un coinvolgimento emotivo continuo e cosciente da parte dell’ascoltatore. L’efficacia comunicativa è resa possibile dal fatto che ogni nuovo episodio melodico viene introdotto da un improvviso cambiamento di tonalità, mai arbitrario in quanto Mozart prepara ogni cambiamento d’orizzonte con estrema cura, ottenendo un perfetto equilibro delle tensioni.

Il conclusivo «Allegro vivace assai» si potrebbe definire trionfante, tanto è conciso, fulmineo e baldanzoso. Il principio che lo governa fu perfettamente espresso in una lettera al padre del 28 dicembre 1782: «I concerti sono proprio una via di mezzo tra il troppo difficile e il troppo facile: sono molto brillanti, gradevoli all’orecchio e naturali senza cadere nella vacuità. In alcuni punti solo gli intenditori possono ricavarne diletto, ma faccio in modo che anche i profani restino contenti, pur senza saperne il perché». Nel K.467 ciò si esplica negli ammiccanti guizzi o nei plateali inviti alla partecipazione che il pianoforte lancia in continuazione, ma che poi, poco dopo, altrettanto maliziosamente elude. Tale apparenti irregolarità e frammentazioni conferiscono alla pagina un’inconfondibile impressione di gioco improvvisativo, ricondotto con mano da maestro a una maestosa e impeccabile stabilità formale.

« Se le risorse di qualsiasi compositore potessero essere inesauribili, penso che questo sarebbe il caso di Haydn »
[Thomas Twining]

Le ultime dodici sinfonie composte da Franz Joseph Haydn – dette “Londinesi” perché scritte durante un soggiorno di lavoro nella capitale britannica – si distaccano in modo evidente dalla restante produzione orchestrale del musicista austriaco, pur essendone il naturale e logico sviluppo. Alla corte degli Esterházyáil ruolo di Kapellmeister limitava il suo campo d’azione, mettendo sempre in primo piano la necessità del servitore di soddisfare il principe. A Londra, invece, la situazione improvvisamente venne a mutare : egli si giocava la propria fama di fronte a un pubblico disposto a pagare purché la musica eseguita ne appagasse pienamente le aspettative. Il risultato è una forma sinfonica di largo respiro, capace di esprimere tutte le molteplici esigenze intellettuali ed emotive dell’uomo nuovo uscito dalla Rivoluzione francese.

Molti di questi elementi innovativi appaiono con grande evidenza nella Sinfonia in sol maggiore n.94, soprannominata “La sorpresa” o “Il colpo di timpani” per un improvviso fortissimo che esplode inaspettatamente nel secondo movimento. Proprio questo “Andante” esemplifica molto bene la capacità haydniana di celare sotto un’ostentata semplicità sempre nuove e originali soluzioni formali. Poiché la sua impressionante profondità intellettuale è sempre rivestita da una naturale affabilità, apparentemente siamo di fronte a un tema con variazioni di una decoratività del tutto esteriore, secondo la migliore tradizione settecentesca. Al contrario, col suo costante approfondimento dei valori espressivi del tema, la pagina anticipa di un decennio la tecnica dell’elaborazione tematica beethoveniana.

Come è tipico dello stile maturo del musicista austriaco, la partitura è aperta da un “Adagio” di carattere pastorale, che sfocia in un “Vivace assai” che farebbe quasi pensare ad un movimento di danza popolare, se non fosse per la sontuosa veste timbrica e per gli ampi sviluppi sinfonici con cui sono trattati i due temi principali. Il “Menuetto” è una rivisitazione colta del Ländler, una tipica danza rurale che ispirerà celebri pagine sinfoniche a Schubert, Mendelssohn e Bruckner. La festosa letizia e la contadinesca spensieratezza di questo brano sono bilanciate da un delicatissimo Trio, tutto giocato sul timbro dei violini e del fagotto. Il tema del Finale, di un’apparente semplicità popolaresca, è impiegato per creare uno degli effetti maggiormente amati da Haydn: il ritorno a sorpresa. Il trucco consiste nel suggerire una ripresa, ma nel rimandarne la realizzazione a quando l’ascoltatore non se la aspetta ormai più. Questo brillante e gioioso “Allegro molto” è stato evidentemente composto con la mente rivolta a quel pubblico così amante dei giochi strumentali e incline a entusiasmarsi a un improvviso rallentando o a una pausa piena di mistero.