Le date
Giovedì 16 marzo ore 21 – Teatro Dal Verme
Sabato 18 marzo ore 17– Teatro Dal Verme
Direttore:
Alpaslan Ertüngealp
Pianoforte:
Giuseppe Albanese
Tromba:
Sergio Casesi
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Il programma:
Fabio Mengozzi:
Vortici, affetti e un’evocazione
(Secondo Classificato Premio Mozart Oggi*)
Dmitrij Sˇostakovicˇ (1906 – 1975)
Concerto per pianoforte, tromba e orchestra op.35
Allegretto
Lento
Moderato
Allegro con brio
Joseph Haydn (1732 – 1809)
Sinfonia n.96 in Re maggiore “Il Miracolo”
Adagio. Allegro
Andante
Menuetto. Allegretto
Vivace assai
*Il premio Mozart Oggi è organizzato dall’associazione culturale Sconfinarte in collaborazione con Banca Regionale Europea.
Il concerto
a cura di Marcello Sirotti
Ad una prima occhiata la partitura di Vortici, affetti e un’evocazione, il brano con cui l’astigiano Fabio Mengozzi , classe 1980, si è aggiudicato il ‘Concorso Mozart Oggi’, colpisce per la sua grafica, quasi a percepire già sulla carta la bilancia sonora, i movimenti “a stormo” delle famiglie strumentali, l’addensarsi e il diradarsi delle frasi musicali. È uno sguardo dall’alto, ma già si ha un’idea di cosa voglia dire, o meglio non dire, il compositore. Chi cerca una linea-guida, le rassicurazioni di una melodia chiara e limpida, rimarrà inevitabilmente deluso, così come chi vorrebbe una frequente varietà ritmica fra le battute. In un placido andamento “a quarti”, con un metronomo più che tranquillo è, quindi, quasi per esclusione che si intuisce cosa regge l’architettura a tre navate disegnata da Mengozzi: la base, la cellula che dà vita alla musica, è il piccolo frammento.
La conferma sembra trovarsi già nell’inizio del brano: a ripetersi in sequenza compulsiva sonogruppetti di note, dei contrabbassi prima, dei violoncelli poi e così via, in una sorta di sovrapposizione piramidale che muove da un fondo appena udibile per raggrumarsi in un magma denso e scuro. L’effetto è quello di un mantice. Si raggiunge un picco sonoro per poi ridiscendere a una scrittura più rada; una, due, tre volte fino al forte che segna il culmine drammatico della prima parte del lavoro. A questo salire di tensione, retto rigidamente da schemi quasi matematici, non può che seguire un secondo momento più disteso; si potrebbe parlare di rivalsa del sentimento, con gli strumenti che si muovono non più l’uno sull’altro ma sembrano aver trovato finalmente, nel movimento orizzontale, un assetto stabile. Ma è questione di un attimo: l’oscillazione riprende inesorabile, fra spostamenti millimetrici e tremoli rapidissimi, spezzata solo dalle lame di suono con cui archi e fiati fendono i pentagrammi. Ancora un pizzicato dei violini, quasi con le unghie in posizioni acutissime, ed il brano si avvia alla sua conclusione, l’evocazione che completa il titolo del brano, spegnendosi poco a poco fra archetti battuti sulle corde e rulli di timpani. La parola fine è, però, per un ultimo colpo di coda, giocato su un effetto che ci rimanda d’istinto ai “trucchi” navigati del teatro: quasi tutti gli strumenti innalzano una cortina di freddo “mezzoforte” su un bisbiglio lontanissimo di pochi archi. Il discorso sembra chiuso ma quando di colpo il suono si arresta rimane solo quel pigolio quasi impercettibile. È difficile saperlo, ma forse è proprio in queste tre battute conclusive, che riassumono con forza cabalistica la struttura tripartita della composizione, la chiave di lettura dell’intera pagina. Lo spirito di Mozart riposa dietro quel filo di suono “occultato dalla massa dell’orchestra – come indica minuziosamente la didascalia di Mengozzi –e che diviene udibile solo all’ultima battuta”.
Chi ama la musica ed i numeri tondi, sa bene di trovare, in questo 2006, un anno particolarmente stuzzicante. A far la parte del leone, come tutti sanno e com’è giusto che sia, è l’anniversario mozartiano, intorno a cui vi è uno spiegamento di forze artistiche ed organizzative davvero imponente; ma certo non meno significativi, se le ricorrenze possono essere l’occasione di proposte e approfondimenti, sono i 100 anni trascorsi dalla nascita di Dmitrij Sˇostakovicˇ. Capita così, avendo tempo e voglia di spulciare via internet i cartelloni di mezzo mondo, di imbattersi con piacere in una offerta a tutto sesto del grande compositore sovietico, fra colossi sinfonici stranoti e perle rare della produzione minore. Al novero delle composizioni più celebri e puntualmente eseguite appartiene senz’altro il Concerto per pianoforte e tromba. Scritto nel 1933, il Concerto si staglia fin da subito come una delle espressioni più originali e salde del panorama sovietico del tempo e non è che una conferma dell’abilità e del pregio del suo autore. Ma chi è veramente il Dmitrij Sˇostakovicˇ, uomo e artista, di quegli anni? A venirci in soccorso le note biografiche, destinate inesorabilmente ad intrecciarsi con le vicende convulse del contesto russo di inizio secolo. Nato, e non è cosa da poco, a Pietroburgo nel 1906, l’infanzia dedicata agli studi del pianoforte sotto l’occhio vigile della madre, Sˇostakovicˇ inizia solo nel 1919 lo studio sistematico della musica presso il conservatorio della città. Nel ’25 il primo importante riconoscimento pianistico, con il 2° premio al prestigioso concorso di Varsavia; un anno più tardi la consacrazione come compositore, con la Prima Sinfonia salutata da subito come un capolavoro degno di risonanza mondiale. A queste prime, folgoranti tappe, fa da sfondo il grandangolo di una città in fermento. Pietroburgo, la futura Leningrado, rivela già dalla volatilità del suo nome un destino di cambiamento. Affacciata all’Europa da quello spicchio di Baltico, la città filtra qualsiasi umore sociale, intellettuale, artistico dello sterminato impero; ed è qui che si accendono i riflettori della storia nell’ottobre delle grandi svolte. Il giovane Sˇostakovicˇ abbraccia gli ideali sovietici con entusiasmo e convinzione e si fa portavoce del fervido, forse irripetibile, contesto culturale che irrompe dalle brecce aperte dalla rivoluzione. Partecipa alle Serate di musica contemporanea, entra a far parte dell’Associazione dei musicisti proletari e, in generale, viene a contatto con tutti gli ambienti letterari e teatrali di Leningrado su cui spira il vento nuovo dell’ avanguardia socialista. All’aut-aut che inevitabilmente si sta per profilare innanzi al mondo artistico ed intellettuale, condividere gli ideali socialisti o ripiegare su un esilio più o meno volontario, Sˇostakovicˇ risponde con un fervore creativo ed operativo che non lascia adito a dubbi. Il tempo dei contrasti interiori, della censura, delle umilianti autocritiche, è ancora lontano a venire: fra la fine degli anni ’20 e l’inizio dei ’30, mentre Stalin accentra le leve del potere e le maglie via via si stringono intorno ad espressioni artistiche troppo “libere”, Sˇostakovicˇ scrive e scrive, per gli strumenti, per il teatro, per il cinema, e dà voce col suo prodigioso talento alla nuova realtà proletaria, fiera di farsi beffe degli odiati bersagli borghesi.
Il Concerto per pianoforte e tromba si colloca, quindi, nel solco di una produzione vasta e generosa, contrassegnata da una magistrale padronanza degli equilibri sonori, della combinazione ritmico-melodica e dell’efficacia graffiante dell’ironia. Proprio quest’ultima prerogativa sembra essere la nota dominante del Concerto: incisiva, consapevole, libera da ogni timidezza, la vena umoristica si insinua di continuo fra i pentagrammi. A darle man forte la collaudata tecnica della citazione; Sˇostakovicˇ dà vita ad un collage divertito, saltando allegramente da un’Appassionata beethoveniana a un frammento di Haydn, da un motivo popolare a un tema del suo Columbus, e ricuce il tutto con un filo robusto. Cadere nell’ovvio sarebbe fin troppo facile ma mai si ha l’impressione di musica affastellata o di maniera: la penna di Sˇostakovicˇ è troppo abile per infilare strettoie pericolose e non sapere come uscirne.
Strutturalmente diviso in quattro movimenti, il Concerto presenta, anche all’interno di questi, frequenti cambi di passo. A tirare la volata è quasi sempre il pianoforte, indubbiamente il protagonista della composizione, ma gli interventi della tromba sono tutt’altro che semplice punteggiatura di un discorso più importante. Già l’incipit del Concerto mostra, in scala, l’intera sostanza di tutto il lavoro: una rapida volata sulla tastiera prepara l’ingresso, senza tanti complimenti, del primo squillo di tromba; segue un lungo episodio affidato al pianoforte per giungere, infine, all’incontro fra i due solisti. Il varco è aperto; il Concerto ora può fluire lungo le pagine importanti del primo movimento, soffermarsi nelle anse malinconiche del Lento che segue, declamare seriosamente nel breve terzo tempo ed infine gettarsi nelle rapide vorticose del finale per liberare, siano cadenze del piano o ritmi militari della tromba, le ultime energie rimaste. Ma è al fotofinish che Sˇostakovicˇ ci prende in contropiede: l’ultima parola, e di sicuro non a caso, è lasciata alla tromba. “Fortissimo fino alla fine” prescrive la partitura: fra squilli di carica e colpi di rasoio orchestrali il Concerto sembra richiudersi su sé stesso, schiacciato dal proprio peso. È questa l’ultima, beffarda parodia dell’opera 35: una sorta di lente bifocale con cui leggere, di certo, lo scintillio del presente ma anche intravedere, se è possibile, lo sfondo livido di ciò che verrà.
Alla bella età di quasi sessant’anni, Joseph Haydn si ritrovò ad affrontare la sua scelta “professionale” forse più difficile. La scomparsa dell’illuminato principe Nicolaus Estherazy “il Magnifico”, al cui servizio il compositore aveva trascorso trent’anni fedeli e prolifici, rimetteva tutto in discussione: l’eccellente orchestra di corte era destinata a sciogliersi e l’attività musicale praticamente ad azzerarsi. È vero che ad Haydn continuava ad essere riconosciuto il titolo di Kappelmeister ed uno stipendio di mille Gulden annui, tuttavia anche questo non bastava a trattenerlo all’Estheraz, la Versailles d’Ungheria, fatta erigere dai principi sulle rive del Neusiedler See. Riportano le biografie più colorite che il compositore approfittò al volo della nuova libertà e si prepicipitò a Vienna, abbandonando la maggior parte della sua musica, degli abiti e degli oggetti di sua proprietà nel remoto castello. Nel frattempo l’impresario londinese J. P. Salomon, venuto a conoscenza della morte del principe, si era affrettato a raggiungere la capitale austriaca per offrire al compositore due diversi contratti: uno riguardava dodici pezzi da eseguirsi in concerti pubblici alle Hannover Square Rooms, l’altro una nuova opera italiana da allestire al King’s Theatre. Haydn non aspettava altro; il primo di gennaio del 1791, attraversata mezza Europa, lui che non era mai uscito dai confini del suo paese, giungeva a Calais e si imbarcava per Dover. Aveva inizio così il quadriennio “londinese”, il suo più importante periodo creativo. Un ragguardevole bilancio di dodici sinfonie, un’opera, sei quartetti e svariate composizioni minori testimonia non solo l’assillante richiesta di una capitale colta e raffinata ma forse, ancor di più, una pronta risposta alla silenziosa “rivoluzione” che andava maturando nel mondo delle arti. La musica, nello specifico, stava abbandonando il compiaciuto (e scontato) consenso delle corti, retto dalla logica del compromesso, per trasferirsi nella dimensione senza rete delle libere associazioni di concerti. Agli autori non si chiedeva più di magnificare o assecondare i desideri del loro signore, ma di esporsi al giudizio libero di un pubblico sconosciuto, motivato e ansioso di sentir tradotto in musica il prezzo pagato per assistere allo spettacolo.
È la no.96, The Miracle, una sinfonia dalle proporzioni perfette, che riassume nei quattro movimenti che la compongono, una mezz’ora d’ascolto, tutta la purezza della classicità. L’Adagio di prammatica è il sipario del primo movimento, pronto a schiudersi con perfetta logica teatrale su un Allegro agile, scattante, ricco di punti e povero di legature. Haydn sapeva che Salomon gli avrebbe messo a disposizione ottimi musicisti e quindi non si pone alcuna remora nel proporre passaggi strumentali di difficile esecuzione. Maggiormente esposti, come spesso accade, sono i violini, ma è indubbio che anche agli altri strumenti sia richiesta una decisiva precisione, sia ritmica che d’intonazione. Lo scopo è quello di giungere ad un brio controllato, perfetto punto d’incontro fra virtuosismo, necessità formali ed idee musicali. Di tutt’altra pasta, invece, è l’Andante centrale, scandito dall’articolazione “a terzine”, battito vitale che accompagna l’arco dell’intero movimento. Al solito, i violini tracciano la linea melodica. Ma sono piuttosto gli strumenti in retrovia, quelli che raddoppiano il canto o semplicemente timbrano il rigo con note lunghe, che ora determinano, in un’atmosfera onirica e ricca di rimandi, il colore del tessuto musicale. Pensieri che ci conducono direttamente al Minuetto, piccolo omaggio nostalgico all’amata Austria, fra passi galanti ed echi rustici di campagna viennese. Non resta che chiudere il cerchio, gettando all’appetito del pubblico il pirotecnico Vivace assai con cui termina la Sinfonia. Il solito passaggio al minore e poi via verso la stretta finale, giusto il tempo di accomiatarsi nel migliore dei modi, fra entusiasmo e battimani, da una pagina semplice e cristallina.
Resta in sospeso un dettaglio: il miracolo. A fidarsi dell’aneddotica, il sottotitolo deriverebbe da un episodio accaduto alle Hannover Square Rooms: durante l’esecuzione della sinfonia la folla, spinta dall’entusiasmo, prese ad assieparsi davanti al palcoscenico per meglio vedere l’autore. Fu allora che, all’improvviso, il lampadario si staccò dal soffitto cadendo proprio al centro della sala, in quell’attimo miracolosamente lasciato sgombro. La leggenda, c’è da scommetterci, non corrisponde al vero. Piuttosto, ben più prosaicamente, i nomignoli che accompagnavano le sinfonie erano spesso coniati direttamente dagli editori, allo scopo di facilitare la memoria al momento dell’ascolto (e dell’acquisto). Ma ci piace credere, senza scomodare le divinità, che il nome sia comunque appropriato e si possa estendere a tutto il gruppo delle sinfonie londinesi: il vero miracolo, senza più Mozart, con Beethoven dietro l’angolo e Schubert non così lontano, sta, forse, nel presentarsi ai tempi nuovi con le fiere credenziali di un passato saggio, compiuto e disposto a rinnovarsi. Oltre, Haydn non poteva andare: il prossimo passo della Sinfonia è già storia dell’Ottocento.
Gli interpreti
Alpaslan Ertüngealp – Direttore
Nato ad Istanbul nel 1969 inizia gli studi di pianoforte a 6 anni. Diplomatosi a 15 anni con il massimo dei voti al liceo germanico si trasferisce a Budapest presso l’Accademia di Musica Franz Liszt dove si perfeziona in pianoforte, teoria e pedagogia musicale: Si diploma nel 1993 con il massimo dei voti.
Nel 1995 inizia i corsi di direzione d’orchestra presso la stessa Accademia Liszt. Nel maggio del 1998 vince il 3° premio del XI concorso di direzione d’orchestra organizzato dalla televisione e radio ungherese.
Nel 2000 riceve il doppio diploma di direttore e insegnante di direzione d’orchestra dall’Accademia Liszt con il massimo dei voti. La sua carriera di Direttore d’Orchestra prosegue con la nomina nel 2001 a Principale Direttore Invitato dell’Orchestra Savaria Hungarica in Ungheria e viene coronata dalla vittoria nell’Ottobre 2002 del primo premio del concorso Dimitri Mitropulos di Atene (Luciano Berio, Sir Neville Mariner, Krzysztof Penderecki, Claudio Scimone e John Tavener nella giuria). Ertüngealp dirige la prima mondiale di una creazione commissionata dalle Olimpiadi culturali di Atene 2004 nell’antico stadio di Delfi. Dirige inoltre in Turchia (Izmir State Symphony, Matav Symphony), Ungheria (Radio Symphony Orchestra – Budapest Symphony), Romania (Tirgu Mures Symphony), Germania (Bach Passioni secondo San Matteo e Giovanni a Stoccarda), Inghilterra (Royal Philharmonic Orchestra), Italia, Russia (St. Petersburg Philharmonic) e Finlandia.
Nell’ottobre 2003 dirige l’orchestra della Komische Oper di Berlino. Oltre al repertorio classico e romantico Alpaslan Ertüngealp è specializzato in opere di compositori ungheresi (Bela Bartók e Zoltan Kodaly), Britten, Mahler e Richard Strauss. Ha debuttato alla direzione d’opera con Il Castello di Barbablu di Bartók nel 2004.
Giuseppe Albanese – pianoforte
Nasce a Reggio Calabria nel 1979. Nel marzo 2003 si laurea in Filosofia col massimo dei voti e la lode presso l’Università Degli Studi di Messina con una tesi sull’estetica di Liszt nelle Années de pèlerinage. Ha iniziato gli studi pianistici all’età di cinque anni. Si diploma a diciassette anni, nell’ottobre del 1996 presso il Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro col massimo dei voti, la lode e la menzione d’onore. Segue il perfezionamento pressol’Accademia Pianistica Internazionale “Incontri col Maestro” di Imola, e il diploma nel 2003 col titolo onorifico di Master.
Nell’aprile 1998 vince il premio “Silio Taddei” di Livorno; nel giugno 2002 vince il concorso per una borsa di studio dell’Associazione “Boris Christoff” di Roma. Nel novembre 1997 partecipa al “Premio Venezia”, dove vince il primo premio assoluto conferitogli all’unanimità da una giuria presieduta da Roman Vlad. È inoltre vincitore del Premio Speciale per la migliore esecuzione dell’opera contemporanea alla 54ª edizione del Concorso “F. Busoni” di Bolzano, del Concorso Internazionale “Vendôme Prize”, tenutosi a Londra e Lisbona. Ha partecipato a diversi festival (Mittelfest di Cividale del Friuli, Festival Internazionale di Colmar, Tiroler Festspiel Kufstein Et Erl, Festival Internazionale di Mexico City, Festival of International Competition Winners di New York) e svolge attività concertistica come solista (Metropolitan Museum of Art di New York, Konzerthaus di Berlino, Teatro “San Carlo” di Napoli, “La Fenice” di Venezia, Olimpico di Vicenza, Dal Verme e Auditorium dell’Orchestra Verdi di Milano, Nazionale e dell’Opera di Roma).
Ha inciso a Roma, nel 1998, il suo primo CD-Recital con le Fantasie di Schubert, Chopin, Schumann e Skrjabin; nel 1999, registra per l’“Agorà” di Milano la prima esecuzione assoluta del “Concerto dell’Europa” di L. Simoni con la Târgu-Mures Philarmonic; nel 2000, invece, per l’etichetta “Frame” di Firenze, incide da solista “1900” con musiche di Skrjabin, Szymanowski, MacDowell e Bartók (di quest’ultimo le “Variazioni” in prima esecuzione mondiale). Di recente pubblicazione il suo nuovo CD “En plein air”, con musiche di Mendelssohn, Weber, Tausig, Debussy e Bartók, registrato in Israele per il Jerusalem Music Centre.
Sergio Casesi – tromba
Dopo essersi diplomato sotto la guida del Maestro Cassone, segue corsi di perfezionamento con Stockausen, Sorderalder, Dell’Ira. È stato Prima Tromba dell’orchestra giovanile italiana, seguendo i corsi di Globokar per la musica da camera e Bobo per la tecnica degli ottoni. Ha collaborato con diverse istituzioni tra cui il Teatro Regio di Torino, il Teatro Comunale di Bologna, il Teatro Comunale di Firenze e con direttori come Riccardo Muti, Giuseppe Sinopoli, Daniele Gatti. In duo con la pianista Simona Russo ha tenuto concerti presso molte Associazioni Musicali in Italia e all’estero. È prima tromba dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali.
Orchestra I Pomeriggi Musicali
L’Orchestra I Pomeriggi Musicali nacque nell’immediato secondo dopoguerra in una Milano tutta presa dal fervore della ricostruzione: fu il frutto dell’incontro tra due uomini d’eccezione, l’impresario teatrale Remigio Paone e il critico musicale Ferdinando Ballo. Il primo pensava ad una formazione da camera con cui eseguire il repertorio classico, il secondo ad una orchestra in grande stile che sviluppasse un repertorio di musica contemporanea e d’avanguardia. I due punti di vista trovarono un punto di incontro nell’Orchestra I Pomeriggi Musicali che fin dal primo concerto, il 27 novembre 1945, accostando Mozart e Stravinskij, Beethoven e Prokofjev, inaugurò una formula coraggiosa che la portò al successo.
La lunga storia dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali non ha mai tradito le linee programmatiche e gli obiettivi ideali lanciati più di sessant’anni fa dai padri fondatori dell’istituzione, e oggi conta uno straordinario repertorio che include i più grandi capolavori del Barocco, del Classicismo e, allo stesso tempo, molta musica Moderna e Contemporanea.
La diffusione popolare di quest’ultima fu avviata puntando sui grandi del Novecento, assenti dai cartelloni concertistici durante la dittatura fascista per motivi politici o di stolta autarchia culturale: andavano da Stravinskij a Hindemith, Webern, Bern, Poulenc, Honegger, Copland, Yves, Français. Oltre naturalmente agli italiani, alcuni dei quali non solo poterono presentare le loro composizioni per la prima volta ma ne scrissero su commissione dei Pomeriggi: parliamo di Ghedini, Dallapiccola, Casella, Respighi, Pizzetti, Gian Francesco Malipiero. La tradizione continuò con quelli delle leve successive: Luciano Chailly, Berio, Maderna, Margola, Mannino, Hazon, Donatoni, Manzoni, Testi, Pennisi, arrivando agli emergenti dei nostri giorni, apparsi nelle ultime Stagioni.
Grandi compositori come Honegger e Hindemith, Pizzetti, Dallapiccola, Petrassi e recentemente Penderecki, hanno diretto la loro musica sul podio dei Pomeriggi Musicali, un podio che è anche stato, per tanti giovani artisti, un trampolino di lancio verso la celebrità: ricordiamo due nomi per tutti, Leonard Bernstein e Sergiu Celibidache.
Impressionante è poi il numero delle future celebrità che sono state consacrate dai Pomeriggi: un albo d’oro che comprende Vittorio Gui, Hermann Scherchen, Carlo Maria Giulini, Leonard Bernstein, Sergiu Celibidache, Thomas Schippers, Igor Markevitch, Gianandrea Gavazzeni, Claudio Abbado, Pierre Boulez, Riccardo Muti, Riccardo Chailly, Christian Thielemann, Franco Gulli, Nikita Magaloff, e Arturo Benedetti Michelangeli, Nathan Milstein, Severino Gazzelloni, Salvatore Accardo, Dino Ciani, Maurizio Pollini, Uto Ughi, Antonio Ballista, Bruno Canino.
Ricordiamo inoltre le straordinarie presenze di Direttori stabili: Nino Sanzogno, il primo, Gianluigi Gelmetti, Gianpiero Taverna e Othmar Maga, per arrivare ai milanesi Daniele Gatti e Aldo Ceccato. In alcuni casi, la direzione musicale è stata affiancata da una direzione artistica: in questa veste Italo Gomez, Carlo Mayer, Marcello Panni, Marco Tutino e oggi Gianni Tangucci.
L’Orchestra I Pomeriggi Musicali svolge la sua attività principalmente a Milano e nelle principali città lombarde, mentre in autunno contribuisce alle stagioni liriche dei Teatri di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Mantova, Pavia, e alla stagione di balletto del Teatro alla Scala.
Invitata nelle principali stagioni sinfoniche italiane, l’Orchestra ha conquistato platee internazionali. Recentemente ha riscosso lusinghieri successi in Spagna, Portogallo, Tunisia, Francia, Germania, Svizzera, Turchia e Austria. Oggi I Pomeriggi Musicali sono una Fondazione costituita dalla Regione Lombardia, dal Comune di Milano, dalla Provincia di Milano, e da enti privati, riconosciuta dallo Stato come istituzione concertistico-orchestrale e dalla Regione Lombardia come ente primario di produzione musicale.
Dal settembre 2001, l’attività dei Pomeriggi Musicali si svolge presso il Teatro Dal Verme, l’auditorium nel centro della città di Milano. Fra il 1999 e il 2004, il Maestro Aldo Ceccato è stato Direttore Artistico dell’Orchestra; a fine mandato Aldo Ceccato è stato insignito del titolo di Direttore Emerito.
Il Cast
Direttore: Alpaslan Ertüngealp