Autori vari - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 09 febbraio 2006
Ore: 21:00
sabato 11 febbraio 2006
Ore: 17:00

Giovedì 9 febbraio, ore 21
Sabato 11 febbraio, ore 17

Direttore:
Giordano Bellincampi
Violoncello:
Natalia Gutmann
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali

Programma:
Federico Biscione (Tivoli, 1965)
“Dalla soffitta” (prima esecuzione assoluta del primo premio al concorso “Mozart oggi 2005”)

Robert Schumann (1810 –1856)
Concerto per violoncello e orchestra in la minore, op. 129
Nicht zu schnell (Non molto vivace)
Langsam /Adagio)
Sehr lebhaft /Allegro molto)

Franz Schubert [1797 – 1828]
Sinfonia n° 5 in si bemolle maggiore D 485
Allegro
Andante con moto
Minuetto
Allegro vivace

Il Concerto:
a cura di Paolo Castagnone
Dalla soffittaè il brano vincitore del primo premio al Concorso nazionale “Mozart oggi 2005”, bandito da “I Pomeriggi musicali” di Milano in occasione dei festeggiamenti per il 250° anniversario della nascita del compositore salisburghese. Abbiamo posto alcune domande al M° Federico Biscione per presentare la sua nuova composizione.

Quali sono gli elementi fondamentali che l’hanno guidata nella stesura della sua partitura orchestrale?

Il brano, come richiedeva il bando del Concorso, doveva essere in relazione al materiale musicale tratto da uno dei concerti per pianoforte e orchestra di Mozart. La scelta è caduta sul primo tempo di uno dei miei preferiti, il K. 271 in mi bemolle; da questo, “smontando” quattro o cinque cellule caratteristiche, ho costruito una breve ouverture di carattere prevalentemente giocoso, con una vena di malinconia. La combinazione fra i brevi motivi è stata adattata al mio linguaggio (orientato nel senso di una libera tonalità) e dunque il brano non si configura come una composizione “alla maniera di”: i frammenti sono citati, incastonati nel tessuto musicale, spesso un poco deformati in modo da ricavarne un’espressione nuova. L’intento era ludico e, allo stesso tempo, rigoroso: nella sostanza si è così configurato un tentativo di avvicinamento allo spirito delle composizioni mozartiane, nelle quali il gusto del gioco, talvolta dello scherzo, si affianca a un rigore tecnico-compositivo che sta ai vertici delle creazioni artistiche della cultura occidentale, proprio perché unito alla più ampia comunicatività dell’eloquio.

Qual è il senso del titolo del brano?

Gli “oggetti” musicali di cui parlavo hanno subito assunto, spontaneamente, un certo contenuto poetico: mi si sono presentati come nella forma di qualcosa che, lungamente dimenticato, ci troviamo inaspettatamente di nuovo per le mani, un vecchio giocattolo, o un disegno eseguito da piccoli, o un libro. Difficile a volte rimanere senza emozione, sia per la quantità e la forza dei ricordi che affiorano, sia per l’improvvisa, malinconica consapevolezza del tempo passato: come accade quando recuperiamo qualcosa, appunto, “dalla soffitta”.

Qual è l’organico previsto?

Mi sono basato sulla “normale” tavolozza messa a disposizione da un’orchestra mozartiana, perciò di dimensioni non eccessive; ma il tono generale è, naturalmente, più moderno. Tra i colori che Mozart probabilmente non avrebbe usato nello stesso modo hanno un certo rilievo l’ottavino e il vibrafono, oltre il breve, “polveroso” solo della viola, che apre la composizione.

Come si inserisce questo lavoro nel suo percorso artistico?

Soprattutto negli ultimi anni cerco di essere il più possibile espressivo col minor dispendio di materiale compositivo. E qua e là mi capita, come già in passato, di non sbarrare il passo a reminiscenze di musiche del secolo scorso, quando questo avvenga con naturalezza e senza premeditazione.

Che senso ha il linguaggio mozartiano per un musicista contemporaneo?

Risponderò per me: Mozart incarna un ideale di classicità nel senso di un’unione indissolubile ed equilibrata tra l’urgenza di un contenuto altamente “umano” e una enorme sapienza costruttiva, spesso anche attraverso un genuino spirito ludico. In particolare questo “volto umano” mi sembra l’aspetto imprescindibile nella creazione artistica; senza di esso molte composizioni possono risultare troppo lontane dal sentire comune. In queste linee di tendenza ideali si può ravvisare una particolare grandezza che non è solo attuale bensì, a mio parere, “atemporale”.

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Il primo settembre 1850 Robert, Clara e i loro sei bambini partirono da Dresda alla volta di Düsseldorf , dove il compositore era stato appena nominato direttore delle attività musicali. Il clima mite, il dolce paesaggio renano e la generale simpatia del pubblico, diedero al musicista una nuova carica di entusiasmo, che si manifestò in una copiosa attività creativa. Il Concerto per violoncello e orchestra op.129 è uno dei frutti più fulgidi di questo periodo, breve pausa di serenità prima della definitiva pazzia. La stesura della partitura richiese appena una settimana per l’ideazione e otto giorni per l’orchestrazione. In questa versione il lavoro venne eseguito al pianoforte dalla moglie, che ne riportò un giudizio entusiastico: «La qualità romantica, la freschezza e la vivacità del dialogo fra solista e orchestra mi sono piaciute moltissimo. La sensibilità melodica mi sembra totalmente autentica e profondamente violoncellistica». Quest’ultima affermazione non meraviglia affatto, poiché Schumann in giovane età si cimentò nello studio del violoncello, avendo dovuto temporaneamente abbandonare lo studio del pianoforte a causa di una grave distorsione alla mano destra, che si era procurato per l’eccessivo studio tecnico. La brevità del suo approccio allo strumento non gli permise di acquisirne una padronanza tale da poterlo suonare in pubblico, ma lo sfruttamento timbrico e l’inconfondibile personalità melodica della parte solistica dimostrano che l’esperienza giovanile diede i propri frutti nel Concerto op.129, opera della tarda maturità.

La revisione definitiva del lavoro – avvenuta nel febbraio del 1854 durante uno dei periodi più drammatici dell’esistenza del musicista, ormai quasi costantemente perseguitato da “voci di angeli e di demoni” – mette in evidenza la volontà di creare un rapporto assolutamente nuovo fra il protagonista e la compagine orchestrale, che sembra volersi fare da parte per non spezzare l’intimo e inquieto eloquio solistico. Significativamente l’autore inserì il lavoro nel proprio catalogo come“pezzo con accompagnamento d’orchestra”, sottolineando in tal modo che al solista spetta un ruolo guida non soltanto sul piano strutturale: è il violoncello che suggerisce i timbri, il clima comunicativo e i toni poetici. Anche la decisione di concepire il brano come un unico, esteso movimento, può essere letta come il rifiuto della coerente logica architettonica delle grandi forme classiche a favore di una immediatezza espressiva fatta di brevi illuminazioni, episodi divaganti, improvvise pause meditative. Il risultato è una sorta di monologo, in cui il solista si raccoglie lungamente in se stesso, mostrando gli interiori stati d’animo dell’artista. Numerose modulazioni e affermazioni di nuove tonalità dilatano in modo discontinuo e imprevedibile il discorso musicale, mentre i commenti orchestrali creano una fitta trama di rimandi che accentuano le inflessioni violoncellistiche, ora ingenue e dolcissime, ora impetuose e cariche di pathos. La tensione non si sblocca nemmeno nell’Adagio [Langsam], un Lied tripartito direttamente innestato sul primo movimento; in esso compare un nuovo tenero motivo melodico, che si staglia sul pizzicato degli archi e sugli accordi dei legni. Questo continuo fluire dell’ispirazione fa del Concerto una delle più autentiche e sincere confessioni autobiografiche di Schumann, il cui diario personale sembra essersi magicamente dischiuso al nostro partecipe ascolto.

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Composta fra il settembre e l’ottobre del 1816, solo sei mesi dopo la Sinfonia in do minore «Tragica», la Quinta Sinfonia abbandona il difficilmente imitabile modello beethoveniano, preferendo dialogare con gli esempi sinfonici mozartiani e haydniani. Documento mirabile della sfavillante esuberanza creativa di Schubert, l’opera è impostata nella congeniale tonalità di si bemolle maggiore e pensata per un piccolo ensemble. Mancano infatti clarinetti, trombe e percussioni, probabilmente per la semplice ragione che non vi erano quegli strumentisti tra i dilettanti della Gundelhof, l’orchestra amatoriale per la quale il giovane musicista viennese compose il proprio lavoro. Il primo movimento, Allegro, è preceduto da una lenta introduzione drammatica di quattro battute, unica reminiscenza del «sipario» beethoveniano. I modelli di Haydn e Mozart traspaiono dalla grazia naturale del primo e secondo tema. Il disegno ritmico è brevissimo, incisivo e viene giocato fra i vari gruppi strumentali, ottenendo vivaci effetti di eco. La squisitezza dell’equilibrio formale, tipicamente classico, caratterizza anche l’Andante con moto, che dispiega una delle più serene melodie schubertiane, un dolcissimo tema eseguito dai violini. Dopo il ritornello il discorso si fa più elaborato grazie all’intervento di brevi incisi melodici da parte degli archi, i quali si intersecano con le linee distese dei legni. Il Minuetto è a tal punto mozartiano da potersi considerare una reminiscenza della Sinfonia K 550 del salisburghese. E’ però opportuno annotare che Schubert tralascia la sapienza contrappuntistica tipica dell’ultimo Mozart, preferendo una più semplice e ariosa cantabilità. L’Allegro vivace, levigato e cristallino, si confonde con gli scalpitanti e dinamici ultimi movimenti delle sinfonie haydniane. La forma sonata impiegata si incarna perfettamente in un linguaggio brillante ed estroverso, sciogliendosi in un’espressione ridente e priva di drammaticità. Proprio con questa sinfonia, il giovane compositore si avvia verso la comprensione più matura di quello stile classico del quale rimarrà uno dei massimi esponenti, manifestando un’inesauribile vena poetica, la cui logica – essenzialmente lirica – trova il proprio rigore razionale al di fuori degli schemi inventivi dell’ingombrante presenza beethoveniana. In tal senso, pochi pensieri si possono adattare alla gioiosa atmosfera della partitura quanto quelli espressi da Schubert stesso in una lettera inviata al fratello Ferdinand nel luglio del 1824: «Si crede che la felicità abiti nel luogo dove una volta si è stati felici, mentre essa è in noi».

Il Cast

Direttore: Giordano Bellincampi