Le date
Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791)
Ouverture da “Mitridate, re del Ponto” K.87
Allegro
Andante grazioso
Presto
Giuseppe Ferlendis (Bergamo, 1755 – Lisbona, 1802)
Concerto in do maggiore per oboe ed orchestra
Allegro comodo
Larghetto – Recitativo
Rondò
Jiři Antonin (Georg) Benda (Staré Benatki, batt. 30 giugno 1722 – Köstritz, Turingia, 6 novembre 1795)
“Medea und Jason”, dramma misto con musica su testo di F. W. Gotter
Note di sala a cura di Andrea Dicht
A dispetto di mezzi di trasporto lenti e faticosi e di una parcellizzazione dell’Europa in molti Stati e sovranità locali, la seconda metà del Settecento fu testimone di una grande circolazione di persone e di idee. I viaggi di Mozart ne sono un esempio, ma non di certo l’unico. Nascevano le figure dei virtuosi, strumentisti e cantanti, l’editoria conosceva le possibilità di una stampa ad alta tiratura e, di conseguenza, di nuove possibilità di distribuzione, e si faceva strada un inedito interesse verso le culture d’oltreconfine, attraverso l’esportazione di stili e di estetiche.
Durante il suo primo soggiorno italiano il quattordicenne Mozart conobbe il conte Firmian, il quale, confortato da personalità musicali del cui gusto aveva piena fiducia, tra gli altri Sammartini e Piccinnni, decise di affidare al giovane salisburghese la creazione di un’opera per l’inaugurazione della stagione del Teatro Regio Ducale di Milano.
Accolta la commissione da Wolfgang (e con gioia da suo padre), la coppia partì per un lungo e studiatissimo viaggio per i centri musicali italiani, per far infine ritorno a Milano nell’ottobre dello stesso anno. Nonostante ritardi nella consegna del libretto e alterne fortune nel rapporto con cantanti ed orchestra, Wolfgang riuscì a far fronte all’impegno preso e l’opera andò in scena nel successo generale il 26 dicembre 1770.
La critica moderna, però, non fu del tutto benevola nei confronti di questa partitura. L’impronta generale è quella dell’opera italiana, e lo si può evincere già dall’ascolto dell’ouverture. Essa è tipicamente tagliata in tre piccoli movimenti di andamento contrastante allegro-andante-allegro, dalla forma assai semplice ma accattivante nei contenuti, emozionalmente volti a catalizzare l’interesse verso l’opera che sta per avere inizio. Si tratta di una forma assai comune a gran parte delle opere del periodo di Mozart e precedente, un modello che ebbe una grande importanza nella storia della musica perché funse da punto di riferimento per l’evoluzione di una forma sinfonica che avrebbe avuto la più grande importanza da quel momento storico in poi. L’obbiettivo non è stupire, anche se il Presto finale contiene un certo germe virtuosistico. Sembrerebbe più lo spiegamento di coordinate estetiche entro le quali svolgere il successivo discorso, volto al conseguimento di un’unità drammatica di cui l’ouverture deve essere esempio e quintessenza.
Nella circolazione di musicisti ed intellettuali di cui si è parlato, l’oboista Giuseppe Ferlendis si inserisce a pieno titolo. Anzi, una sua certa idiosincrasia verso il lavoro dipendente fece di lui uno dei musicisti più girovaghi del suo tempo. Bergamasco di nascita ed allievo del famoso Carlo Besozzi, uno dei più grandi virtuosi del ’700, Ferlendis all’età di venti anni era già richiestissimo in molti teatri italiani, e nel 1777 fu addirittura chiamato a ricoprire il ruolo di solista nella cappella musicale dell’Arcivescovo Colloredo a Salisburgo, la cappella nella quale operavano Leopold Mozart e, scomodamente, suo figlio Wolfgang (ma Ferlendis guadagnava più di entrambi i Mozart e godeva di una “mancia” personale dall’Arcivescovo dopo ogni esecuzione).
Il nome del nostro oboista ha superato i filtri della storia grazie ad una lettera di Wolfgang, nella quale chiedeva a suo padre che gli venisse spedito “il concerto scritto per Ferlendis”. Ogni strumentista di livello, in quell’epoca, però, era anche creatore di opere del proprio strumento, uno dei segni di una ricerca e sperimentazione tecnica che aveva bisogno di un’applicazione di prima mano da parte dello stesso virtuoso attraverso la composizione di brani a proprio uso e consumo. Ferlendis compose quattro concerti per oboe (ma di uno manca la parte del solista). Essi oggi non godono di una grande notorietà, anche a causa di una certa dispersione del materiale musicale connesso: alla morte di Ferlendis suo figlio Alessandro dette alle stampe dell’editore Artaria due di questi concerti, e parti di questi brani sono conservate oggi presso le biblioteche dei Conservatori di Genova e Milano (Fondo Noseda). È grazie all’attività di recupero di Diego Dini Ciacci e di Guido Ghetti che oggi possiamo ascoltare questo concerto, il cui valore è testimoniato dal fatto che alcuni dei concerti di Ferlendis per oboe furono erroneamente attribuiti a Mozart, e viceversa. In ogni caso, Mozart dedicò a Ferlendis il Concerto K.314 in do maggiore, il capolavoro del repertorio per questo strumento.
Il Concerto che oggi andiamo ad ascoltare, in do maggiore, è quello che presenta l’organico orchestrale più ampio (2 oboi, 2 corni, 2 fagotti ed archi) ed è anche l’esempio che più si avvicina alle strutture correnti di concerti solistico per fiati pur mantenendo una chiara impronta dell’origine italiana del compositore. Il primo movimento è in forma sonata, anche se questo modello viene dilatato da Ferlendis per dare spazio a piccole cadenze di tipo vocale-virtuosistico affatto lontane dal taglio di alcune ampie arie d’opera coeve. Il Larghetto che segue è un ulteriore esempio di un melodizzare attento alla pulizia della linea, infatti esso ricerca nitore ed equilibrio melodico nel contesto di una forma musicale semplice volti a mostrare ancora l’italianità di Ferlendis. E nel finale che il virtuoso si mostra, attraverso l’esposizione di tutto il repertorio tecnico allora sviluppato, nel senso della velocità, delle variazioni di articolazione, dei cambi timbrici e della ricerca di un effetto spettacolare mai però disgiunto dal portato musicale. Quest’ultimo movimento è strutturato in forma di variazioni su un tema già allora molto in voga, il tema dell’aria “Nel cor più non mi sento” dalla Molinara di Paisiello. Val la pena ricordare che questa stessa melodia, un esempio dell’equilibrio della cantabilità italiana, sarà oggetto di variazioni anche da parte di Beethoven (pianoforte) e Paganini (violino), oltre a molte altre meno note.
Da un punto di vista intuitivo l’idea di coniugare alla lettura o declamazione di un testo letterario l’esecuzione di brani musicali ci appare ovvia, al nostro udito “svezzato” da tanto teatro musicale, e di certo l’idea di porre in musica un libretto, cercando coincidenze metriche tra note e sillabe, non può che apparirci quanto mai farraginosa se paragonata all’olimpica semplicità e suggestione della mera recitazione accompagnata. Eppure la storia della musica, se ci limitiamo a considerarne solo l’intervallo tra il Rinascimento ed oggi, ci mostra chiaramente che le cose si svolsero in maniera affatto intuitiva e che certe “semplicità” furono invece il prodotto di profonde riflessioni critiche sull’essenza della musica stessa, sul suo possibile significato e sulla liceità di ogni tentativo volto ad attribuirle una funzione significante.
L’espressione “recitar cantando” fa riferimento ad uno dei più importanti momenti della storia della musica occidentale, quegli anni a cavallo tra il ‘500 ed il ‘600 nei quali, in ambienti fiorentini, si venne a delineare uno stile compositivo che univa in maniera intelligibile un testo letterario ad una costruzione musicale originale. Ovviamente esistevano già forme musicali cantate, ce n’erano e molte, ma la novità consisteva proprio in una ricerca di maggiore comprensibilità delle parole unita ad uno svolgimento musicale drammaticamente consonante agli “affetti” del testo cantato. Non è esagerato parlare di questa scoperta come della nascita dell’opera lirica, di quel particolare genere musicale nel quale ad una vicenda recitata cantando si aggiunge una messa in scena di tipo teatrale.
Il “melologo”, inteso come l’unione tra un testo recitato “parlando” ed una musica composta allo scopo, nasce successivamente all’opera, nella seconda metà dal ‘700, quando già il “recitar cantando” aveva espresso compiutamente le sue caratteristiche e si dirigeva tra tante polemiche verso la splendente stagione del belcanto romantico. Il 1762 fu l’anno in cui l’enciclopedista J.-J. Rousseau, uomo dalla cultura finissima e discreto musicista, scrisse la scéne lyrique “Pygmalion” (con musica di Horace Coignet ed un paio di pagine dello stesso Rousseau), un melologo dalla struttura primitiva ma già un esempio della nuova tendenza musicale che questa forma esprimeva. La musica non è un tratto narrativo né tantomeno si pone come sfondo significante di una lettura o recitazione testuale: per ora si tratta solo di riempire gli spazi lasciati vuoti dalla declamazione, alla ricerca di un ideale modo di interpretare un testo in maniera completa, utilizzando, oltre alla voce, le possibilità espressive della musica. Non è un caso che questa inedita unione sia avvenuta in quegli effervescenti anni, e ancor meno casuale è che la paternità sia dovuta ad una mente libera così illuminata: siamo nell’epoca della dea Ragione e quella luce chiarificatrice, che spaziava enciclopedicamente su tutto lo scibile umano, non poteva non toccare anche quegli ambiti artistici connotati, anzi, nati nella penombra delle emozioni umane.
La più grande fioritura di questo genere musicale avvenne in Germania, per mezzo di Georg Benda, un cattolico boemo particolarmente attivo in questa nazione e noto Kapellmeister della luterana corte di Gotha. Anch’egli partì da premesse italianizzanti quanto a stile e forme musicali, ma l’avvicinarsi a circoli legati a Lessing, in particolare grazie al librettista della Medea che oggi ascoltiamo, F. W. Gotter, lo portò a posizioni estetiche votate al Singspiel, al teatro naturalistico e alla letteratura tedesca di riferimento in quegli anni. Come rilevato in precedenza, la forma del melologo preesisteva a Benda, ma lui ne sviluppò le possibilità espressive, utilizzando i due mezzi comunicativi secondo ogni possibilità di interazione. Dalla Medea possiamo trarre molti spunti di riflessione: le parole e la musica possono alternarsi o sovrapporsi, senza però mai prevedere una declamazione sillabicamente legata alla struttura ritmica musicale. La sovrapposizione si configura chiaramente come amplificazione sia musicale che della recitazione, in quanto entrambi i mezzi contribuiscono ad arricchire i significati dell’altro. La musica, da parte sua, non è un mero sfondo o un collante per la parti narrative: essa è densa di riferimenti, che possono essere legati al testo sia in maniera puntuale che attraverso allusioni che ricordano tecniche tipiche del Romanticismo drammatico. Un orecchio attento scorgerà addirittura la presenza di qualche motivo conduttore secondo la teoria di Wagner, che però considerò il melologo “un genere di sgradevole mescolanza” (ma che adottò in gioventù nelle Sieben Compositionen zu Goethes Faust e nelle musiche di scena per il Trauerspiel in 5 atti König Enzio). Per quanto riguarda l’impianto drammatico del testo, la presenza di un solo attore non ne limita le possibilità: è anzi una possibile istanza virtuosistica per la voce quella di recitare parti diversi, creando momenti dialogici sorretti dalla musica nel mutare di personaggio.
Come si potrà notare, il melologo presenta ampie possibilità creative, anche se una considerazione approfondita del genere musicale avverrà solo nel Novecento. Non mancano però esempi nobili: essi vanno da Mozart (“Thamos, re d’Egitto” K.345, il perduto “Semiramide” e “Zaide”, tutti creati pochi anni prima del Werther di Pugnani), a Beethoven (che include un melologo nell’Egmont ma anche nelle “Rovine di Atene”, nel “Re Stefano” ed in “Leonore Prohaska”), arrivando alla mezza dozzina di interventi recitati che si trovano nell’”Arpa magica” di Schubert e alla fine del II atto del suo “Fierrabras”, al “Manfred” di Schumann e all’”Arlesiana” di Bizet. Mozart stesso espresse un particolare interesse verso il melologo, e dopo aver visto questa Medea a Mannheim nel 1778 scrisse al padre “non ci sono parti cantate, solo recitazione, alla quale la musica fornisce una sorta di accompagnamento obbligato ad un recitativo. Le parole sono recitate sulla musica, e questo produce il più bell’effetto”.
La prima esecuzione della Medea di Benda avvenne presso il Theater am Rannstädter Tora di Lipsia il 1° maggio 1775, lo stesso anno in cui il lavoro fu completato. Il libretto fu scritto nel 1763 da Friedrich Wilhelm Gotter, archivista presso la stessa corte in cui svolgeva servizio Benda, amico di Goethe e per questo immune dalla temperie del nascente Sturm und Drang che appassionava la maggior parte degli intelletti creativi, non solo tedeschi. Gotter si rifà alle fonti classiche della vicenda, in particolare Euripide ed Ovidio.
Medea, figlia di Eeta, re della Colchide, è uno dei personaggi più celebri e controversi della mitologia greca. Il suo nome in greco significa “astuzie, scaltrezze”, infatti la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri addirittura divini. Quando Giasone arriva in Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro, lei se ne innamora perdutamente. E pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge ad uccidere il fratello Absirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto suo sposo. Il padre così, trovandosi costretto a raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli Argonauti tornano a Corinto con il Vello d’Oro. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest’ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea. Vista l’indifferenza di Giasone di fronte alla disperazione della donna, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Creusa, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morirne fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch’egli il mantello, morendo. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Secondo la tragedia di Euripide, per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli avuti con lui e ne divora le carni: il dolore per la perdita porta Giasone al suicidio. Fin qui la vicenda narrata nel libretto di Gotter. Per completezza ricordiamo che secondo la maggior parte degli storici greci del tempo di Euripide i figli di Medea, che ella non riuscì a portare con sé, furono uccisi dagli abitanti di Corinto per vendetta. Fuggita ad Atene, a bordo del carro del Sole, Medea sposa Egeo, dal quale ha un figlio: Medo. A lui Medea vuole lasciare il trono di Atene, finché Teseo non giunge in città. Egeo ignora che Teseo sia suo figlio, e Medea, che vede ostacolati i suoi piani per Medo, suggerisce al marito di uccidere il nuovo venuto durante un banchetto. Ma all’ultimo istante Egeo riconosce suo figlio, e Medea è costretta a fuggire di nuovo. Torna nella Colchide, dove si ricongiunge e si riappacifica con il padre Eete.
Il Cast
Direttore e oboe: Diego Dini Ciacci
Voce recitante: Giovanna Bozzolo
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali