Le date
Guida all’ascolto, a cura di Andrea Cavuoto
Alfredo Casella (Torino, 25 luglio 1883 – Roma, 5 marzo 1947)
Concerto per pianoforte, violino, violoncello e orchestra, op.56
Largo, ampio, solenne – Allegro molto vivace
Adagio
Rondò: Tempo di giga (allegro vivace, ma non troppo)
Robert Alexander Schumann (Zwickau, Sassonia, 8 giugno 1810 – Endenich, Bonn, 29 luglio 1856) – Giampaolo Testoni (Milano, 1957)
Carnaval, Scénes mignonnes sur 4 notes pour le piano, op.35 (versione per orchestra)
Préambule (Quasi maestoso)
Pierrot (Moderato)
Arlequin (Vivo)
Valse noble (Un poco maestoso)
Eusebius (Adagio)
Florestan (Passionato)
Coquette (Vivo)
Replique (L’istesso tempo)
Papillons (Prestissimo)
A.S.C.H._S.C.H.A. – Lettres Dansantes (Presto)
Chiarina (Passionato)
Chopin (Agitato)
Estrella (Con affetto – Più presto molto espressivo)
Reconnaissance (Animato)
Pantalon et Colombine (Presto)
Valse Allemande (Molto vivace)
Intermezzo: Paganini (Presto)
Aveu (Passionato)
Promenade (Con moto)
Pause (Vivo, precipitandosi)
Marche des Davidsbündler contre les Philistins (Non Allegro)
Note di sala a cura di Andrea Dicht
La storia della musica italiana del XX secolo è molto complessa, e per varie ragioni. Un’intensa vita politica, contrassegnata da un regime ventennale pervasivo e totalizzante nei suoi interessi culturali, unita ad una speciale e connaturata tendenza dei nostri musicisti verso la creazione di molteplici etichette estetiche, fecero sì che individuare una linea di tendenza attorno alla quale collocare l’avvicendarsi delle fasi di sviluppo è oggi molto difficile, se non impossibile.
Casella fu uno di quei musicisti dei quali molto si è detto, e poco si è capito nonostante una gran quantità di giudizi etici ed estetici emessi già quando era ancora in vita. La formazione di Casella fu invidiabile: studiò dapprima in Italia ma si trasferì presto, alla morte del padre, in Francia, ammesso alla classe di Fauré e contemporaneamente assistente presso la famosa classe di pianoforte di Alfred Cortot. La sua permanenza in Parigi, vetrina privilegiata delle avanguardie musicali del primo Novecento, gli permise di entrare a contatto con la produzione musicale “mondiale”, consentendogli di accedere criticamente ad un repertorio che in Italia fece ingresso solo tardi ed in maniera molto selezionata. Conobbe Mahler ed mahlerismo, Debussy e l’impressionismo, Enescu ma anche la nuova produzione ungherese e spagnola, lo Stravinskij russo ma anche quello neoclassico.
Casella si fece promotore instancabile, per tutta la sua vita, di una produzione scevra da ogni sentimentalismo di origine romantico-teatrale, pur occupandosi anche di musica per la scena (balletti ed opere). La critica ha sempre vouto suddividere l’opera di Casella in tre periodi, una divisione affascinante, di origine antiche, ma particolarmente inefficace nel caso del nostro. È molto facile, in realtà, tracciare costanti nella sua opera che rendono inutile ogni periodizzazione. Casella cercava il nuovo, in senso europeo, un nuovo fondato sull’identità nazionale, su quell’antichità nobile e preziosa di cui l’Italia si faceva vanto senza una vera valorizzazione del repertorio dei secoli passati.
Quando, nel 1915, fu chiamato a Roma per ricoprire la carica di insegnante di pianoforte al Liceo Musicale di Santa Cecilia, ritenne che fosse ormai giunto il momento di agire concretamente per sprovincializzare l’ambiente musicale italiano: dopo aver organizzato concerti con musiche di Ravel, Debussy, Stravinskij e altri autori contemporanei, attirandosi «l’antipatia ed anche non di rado l’odio della mediocrità connazionale», nel 1917 fondò la Società Nazionale di Musica (1917-1919), subito sostenuta con entusiasmo da Malipiero, Pizzetti, Respighi e da altri esponenti della cosiddetta ‘generazione dell’Ottanta’. Questa associazione, che dopo qualche mese mutò nome in Società Italiana di Musica Moderna e fu affiancata da un periodico di battaglia intitolato «Ars nova», aveva lo scopo di eseguire e stampare le opere più interessanti di giovani compositori, di far conoscere musiche antiche dimenticate e di organizzare un sistema di scambi musicali con associazioni analoghe che operavano in altre nazioni. La Presidenza d’onore fu conferita a Bossi, Busoni e Toscanini, ma venne soppressa nel 1918, anche perché Busoni, che viveva in esilio a Zurigo, era «fortemente sospetto di germanofilia».
E fu di nuovo grazie all’intraprendenza di Casella se si potè finalmente realizzare, nel 1923, un progetto ancor più audace, concepito nel Vittoriale insieme a D’Annunzio e a Malipiero: la Corporazione Delle Nuove Musiche, «un nuovo organismo di cultura moderna» che da una parte aveva lo scopo di «far penetrare in Italia le ultime espressioni, le più recenti ricerche dell’arte musicale contemporanea»; dall’altra quello di «restituire alla luce le più belle musiche antiche nostre, prime fra quelle le monteverdiane.» La C.D.N.M. venne sin dal suo apparire riconosciuta come sezione italiana della appena costituita Società Internazionale di Musica Contemporanea, il cui primo presidente fu Edward Dent, amico e futuro biografo di Busoni.
Non è però facile contemperare il nuovo con l’antico; è un’idea allettante ma, all’atto pratico, quando si passa alla composizione, essa può diventare una prigione. Il Concerto triplo op.56 nasce su questo presupposto: l’idea di Casella è quella di recuperare, attraverso questa insolita formazione, il concetto “concertante” che è alla base della nascita del concetto moderno di concerto solistico, ovvero l’individuazione di un piccolo ensemble (in questo caso i nostri tre solisti) compreso all’interno di un’orchestra sulla quale proiettare la propria individualità. Si tratta di un concetto assai diverso, ad esempio, dal Triplo Concerto di Beethoven: in quest’ultimo i tre solisti formano di rado un ensemble, sono piuttosto tre figure distinte all’interno di un’ampia forma musicale che offre uguali spazi virtuosistici ed espressivi. Il solista nel nostro caso è “il” trio, una formazione dotata di una personalità unica e di un’intensa storia (in termini di repertorio) classica e romantica, e questo configura un primo scarto prospettico tra vecchio e nuovo: un’orchestra moderna che si confronta con una formazione di antiche origini. Un ulteriore confronto è quello tra il linguaggio musicale utilizzato e la forma sulla quale Casella esprime i propri contenuti. L’indicazione del ritmo di “giga” nell’ultimo movimento è un chiaro segnale della volontà del compositore di rifarsi a schemi metrici e formali ancora più antichi. Il linguaggio generale di questo concerto diventa in questo modo composito ma nuovo, suggerendo un sincretismo estetico suggestivo, che dà luogo a momenti di intensa espressività (come nell’Adagio centrale) ma anche ad una forte dinamicità legata all’alternanza solo-tutti tipica del concerto grosso di barocca memoria.
Al nostro orecchio la musica della generazione dell’Ottanta (l’etichetta sotto la quale vennero riuniti personalità diverse come Pizzetti, Malipiero, Bastianelli, Alfano, Respighi, il nostro Casella, per via di una molto ideale coincidenza anagrafica), suona inusuale: le armonie sembrano semplici ma non sono sempre volte alle eufoniche consonanze dell’armonia tradizionale, le melodie sono a volte aforistiche ma anche lunghe ed ammalianti, la compattezza della forma classica è di difficile individuazione seppure si percepisca un’unità del tutto, il gesto musicale è vario ma sempre mediato da una ricerca di equilibrio che spesso conduce a sforzi espressivi esagerati. In realtà la questione si gioca tutta intorno ad una complicità che questa estetica richiede all’ascoltatore. Il compositore si fa carico della conduzione del pubblico in un viaggio nel quale le facoltà critiche vanno sospese con il fine di una percezione complessiva dell’opera. La generazione dell’Ottanta ci ha regalato molta ottima musica, la gran parte di essa ancor oggi confinata nelle biblioteche a causa di giudizi storici che non sempre hanno a che fare con la vita dei pentagrammi. Probabilmente è giunto il tempo di utilizzare i nostri strumenti critici in maniera diversa e conferire a questo Concerto e a molte altre musiche del nostro primo Novecento una modernità nobile, l’attualità di una musica scritta da chi è nato nella temperie romantica, ne ha conosciuto in maniera diretta uomini ed esiti creativi e, per opposizione o per naturale conseguenza, ha saputo creare un linguaggio sul quale molta della nostra contemporanea musica ha fondato le proprie basi ideologiche.
(Citazioni tratte da: Alfredo Casella, “I segreti della giara”, Firenze, 1941)
Non è infrequente imbattersi in repertori riletti attraverso formazioni strumentali atipiche e non originali, un tempo ciò accadeva più spesso e destava meno problemi musico-etici rispetto alla nostra epoca. Il Carnaval di Schumann, brano fondamentale all’interno della letteratura pianistica di tutte le epoche, è musica di un livello così alto da risvegliare interesse a tutti i livelli, dal mero fruitore musicale all’intellettuale più impegnato. L’estrema raffinatezza che lo informa, unita alla freschezza inventiva e alla singolarità degli episodi che lo compongono lo rendono particolarmente adatto ad una rivisitazione “sinfonica”, e Testoni ce lo propone attraverso un’operazione particolarmente ardua ma riuscita: non si tratta solo di distribuire le voci di un testo ai vari strumenti, il compito che egli si propone è quello di creare un suono orchestrale ben connotato, memore degli esperimenti schumanniani ma anche inserito in un contesto moderno novecentesco.
La formazione dell’orchestra ne è la prima testimonianza: accanto agli archi, agli strumentini doppi e agli ottoni vediamo numerose percussioni, un pianoforte ed una celesta, strumenti che non figurano negli organici orchestrali della musica sinfonica di Schumann. L’idea è quella di permettere all’orchestra del Novecento di rileggere una pagina, di suggerire timbri, cercare accostamenti strumentali su un testo musicale legato ad un’idea di pianismo, quella di Schumann, incentrata sul “colore”, nel senso di un ampliamento del potere espressivo del suono. La forma impressa dal compositore al Carnaval è quella della serie di episodi, di durata molto contenuta, uniti quasi tutti da una comune radice melodica ricavata da quattro note, La-Mi bemolle-Do-Si, lettere (ASCH) secondo l’alfabeto tedesco formanti il nome della cittadina natale dell’allora fidanzata del compositore, Ernestine von Fricken. Grazie proprio a questa struttura agile, composita ma coesa ed autoreferenziale, il lavoro dell’orchestratore è stato particolarmente libero, e non ci deve sorprendere che l’idea di una strumentazione del Carnaval sia nata già molto tempo fa. Già nel 1910 il celebre coreografo Michel Fokine aveva commissionato a Glazunov, Rimskij-Korsakov, Ljadov, Tcherepnin e Arenskij la strumentazione del Carnaval, ottenendo una partitura che permise la creazione di una coreografia che entrò subito a far parte stabilmente del repertorio della compagnia dei Ballets Russes guidata dall’incontenibile Diaghilev. La stella di quel corpo di ballo, Vaclav Nijinskij, una volta affrancatosi dalla severa mano del coreografo, commissionò successivamente a Ravel lo stesso lavorò, che però egli completò solo in parte, 4 brani su 21. Per questa ragione la commissione dei Pomeriggi Musicali si inscrive in un alveo storico che giustifica in pieno il lavoro di Testoni e permette ai musicofili del suo pubblico di assaporare un brano che, scritto nel 1834-35, continua ancor oggi ad affascinare e sorprendere.
Il Cast
Direttore: Damian Iorio
Trio: Trio Matisse
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali