Le date
Sergey Prokofiev (Sontsovka, governatorato di Ekaterinoslav, Ucraina, 11/23 maggio 1891 – Mosca, 5 marzo 1953)
Sinfonia Concertante op.125, per violoncello e orchestra
Andante
Allegro giusto
Andante con moto
Antonín Dvořák (Nelahozeves, Kralupy, 8 settembre 1841 – Praga, 1° maggio 1904)
Sinfonia n.6 op.60 in re maggiore
Allegro non tanto
Adagio
Scherzo (Furiant) – Presto
Finale – Allegro con spirito
Note di sala a cura di Andrea Dicht
La storia della Sinfonia-Concerto di Prokofiev si inscrive nell’arco discendente della vita di un compositore che aveva conosciuto ogni gloria, ma che in patria faticava a confrontarsi con un regime totalitario ossessivamente interessato alle arti come quello di Stalin. L’autocrate si sentiva un estraneo ed un neofita verso la cultura russa. Era un outsider per due motivi: in quanto figlio di un povero stivalaio, ed in quanto persona di madrelingua georgiana. Come neofita culturale, Stalin conservò un certo rispetto per la cultura “alta” e chi l’aveva creata (Lenin, al contrario, aveva cercato più volte, nel biennio 1921-22, di chiudere i teatri Bolshoi e Mariinskij). Questo rispetto, però, anziché tradursi in forme di sostegno incondizionato verso la creazione ed interpretazione artistica (incondizionato come l’unico possibile appoggio si possa pensare per l’arte), aveva dato luogo alla creazione di dettati estetici ai quali l’arte doveva allinearsi con il fine esplicito di edificare l’animo del nuovo uomo russo e condurlo ad un portamento etico degno della missione della nazione (un legame estetico-etico non dissimile dalle teorie musicali dell’antica Grecia, con le dovute differenze).
Dopo il suo ritorno in Russia da Parigi, alla metà degli anni ’30, Prokofiev effettuò la revisione di alcuni brani che aveva concepito durante il suo soggiorno in Occidente. Tra questi, il Concerto op.58 per violoncello e orchestra, composto tra il 1933 ed il 1938. Il brano aveva avuto un’accoglienza di pubblico piuttosto fredda. Anche se probabilmente dovuta ad un’interpretazione poco convincente del solista della prima esecuzione, Lev Berezovsky (Mosca, 26 novembre 1938, Orchestra di Stato dell’Urss), la colpa venne ascritta al compositore, per aver scritto un concerto “senz’anima”. Dopo quell’occasione, il brano venne eseguito molto raramente, lo stesso Prokofiev non ne aveva molto interesse, ma l’esecuzione che ne udì nel 1947 da parte del recentemente scomparso Rostropovich risvegliò in Prokofiev la voglia di revisionare profondamente il suo lavoro.
Il lavoro, durato anni, consistette soprattutto nel rendere più chiari carattere generale e forma, ed un certo numero di temi accessori vennero eliminati a beneficio di un maggiore sviluppo dei temi principali. Il contrasto tematico venne reso più evidente, in particolare nel secondo movimento: i temi del sardonico scherzo vennero in maggiore rilievo sul lirico secondo tema del violoncello. L’orchestrazione venne rinforzata, con l’aggiunta di tre tromboni e all’intero lavoro venne data un’impronta più sinfonica.
Rostropovich non solo ispirò il compositore con la sua esecuzione, ma partecipò attivamente alla stesura della parte solistica, una forma di collaborazione affatto dissimile da quella tra Joachim e Brahms alla base del Concerto op.77 per violino. Rostropovich e Sviatoslav Richter dovettero presentare la nuova versione del Concerto all’Unione dei Compositori prima di organizzarne l’esecuzione pubblica. Richter suonò la parte orchestrale al pianoforte. La loro lettura di fronte alla commissione provocò quella che Rostropovich in seguito ebbe a definire “un grande scandalo”: Zacharov, che aveva guidato la fazione contro Prokofiev sin dall’editto del 10 febbraio 1948 (in cui il compositore venne considerato “sospetto” per la sua musica “borghese e formalistica” e la sua prima moglie considerata una spia ed inviata ai campi di lavoro), era su tutte le furie perché aveva scovato un tema secondario del finale che suonava come una distorsione di una delle sue melodie popolari. (Quando Rostropovich riferì a Prokofiev dell’accaduto, egli rimpiazzò il tema incriminato con un innocuo valzer, raccomandando al violoncellista di tramandare ai posteri la versione originale, emendata dalla correzione – val la pena ricordare che in una delle sue ultimissime creazioni, il Concertino op.132 per violoncello e orchestra, Prokofiev inserì lo stesso tema di Zacharov, trattato in maniera ancor più grottesca).
Nonostante la disapprovazione di Zacharov, l’Unione dei Compositori dette il permesso a Rostropovich e Richter di organizzare un’esecuzione pubblica del nuovo concerto. Successivamente Rostropovich arguì che l’Unione aveva avuto timore a proibire l’esecuzione data la fama di cui lui stesso e Richter già godevano, fatto che avrebbe reso il diniego qualcosa di difficilmente sostenibile a livello di opinione pubblica internazionale. Dall’altra parte, la stessa Unione sapeva che il vecchio Prokofiev era in una situazione in cui non poteva vincere: se fosse stato un fallimento avrebbero potuto condannarlo ancora più duramente, se avesse avuto successo avrebbero potuto mostrarlo come il buon esito di una politica “istruttiva” dell’Unione e del Partito nei confronti del compositore, così come era successo nel 1937 con la Quinta Sinfonia di Šostakovič.
Richter e Rostropovich riuscirono finalmente ad organizzare l’evento, con l’Orchestra Giovanile di Mosca (con Richter alla bacchetta per la prima ed unica volta nella sua vita). La “prima” ebbe luogo il 18 febbraio 1952: Prokofiev era tra il pubblico ma potè ringraziare all’applauso solo alzandosi dalla sua poltrona, poiché era troppo debole per raggiungere il palco. Dopo questa esecuzione egli decise di apportare ancora modifiche alla partitura (che ancora si chiamava Concerto n.2), in particolare alle parti orchestrali, e la revisione finale, con il titolo che oggi conosciamo di Sinfonia Concertante, fu presentata solo 9 dicembre 1954 a Copenhagen (dopo la morte del compositore, e due anni prima di essere ascoltata in Russia).
Prokofiev morì intorno alle 21 del 5 marzo 1953. Una terribile ironia volle che la sua scoparsa precedesse quella di Stalin di circa 50 minuti, entrambi stroncati da un’emorragia cerebrale. La morte del dittatore mise totalmente in ombra quella del musicista, al punto che la nazione ne fu informata ufficialmente solo qualche giorno dopo. Il suo funerale fu seguito da una quarantina di persone, tra i suoi colleghi ed amici sopravvissuti al regime, che dovettero affrontare barricate della polizia e tanto freddo per raggiungere la vituperata Unione dei Compositori per la cerimonia funebre. Non c’erano fiori – erano stati usati tutti per le esequie di Stalin. Sviatoslav Richter potè porre sulla bara solo un ramo di pino, e David Oistrakh, presente alla cerimonia, eseguì due movimenti dalla Sonata di Prokofiev per violino solo – il primo, con il suo “vento nel cimitero” in forma di passaggi di scale, ed il funebre terzo movimento, con le sue rapide successioni di note prefiguranti la neve che si scioglie in una promessa di primavera.
Oggi Dvořák è noto per poche sue composizioni, ancorchè molto famose. Prima tra esse è la Sinfonia “dal Nuovo Mondo” (che Neil Armstrong portò con sé sull’Apollo 11 nel 1969, durante la prima missione di atterraggio sulla Luna), seguita dal Concerto op.104 per violoncello, dalle Danze Slave per orchestra e pochi altri brani. La Nona è l’ultima di una serie di Sinfonie ma, da un punto di vista squisitamente compositivo, non è necessariamente la migliore. La Sesta, stasera in programma, anche se piuttosto assente dai cartelloni (in particolare italiani), è un brano di eccellente fattura, caratterizzato da una possibilità di lettura a vari livelli, dalla godibilità superficiale all’eccellenza analitica.
Non a caso la Sesta fu la prima sinfonia di Dvořák ad essere pubblicata, presso l’editore Simrock di Berlino, nel 1882, due anni dopo la sua composizione (ed infatti fu numerata come n.1, ingenerando una confusione che solo recentemente è stata chiarita con l’adozione di una numerazione cronologica interna ai generi, e la compilazione di un catalogo definitivo da parte del musicologo ceco Jarmil Burghauser).
Il primo movimento, Allegro non tanto, è nella consueta forma-sonata divisa in tre sezioni ed informata da due temi principali. Il primo tema è quello presentato in apertura, dopo due misure introduttive affidate a viole e corni. Clarinetti, oboi e flauti, sostenuti ed imitati da violoncelli e contrabbassi disegnano una melodia semplice ma ricca di implicazioni e fertile quanto a possibilità di sviluppo melodico e ritmico. Si tratta di una linea divisa in due parti e caratterizzata, nella prima sezione, dalla ripetizione-amplificazione, e nella seconda da una linea ad arco. In poche note Dvořák imprime nella nostra immaginazione un calco musicale che permetterà di percepire nello svolgimento del primo movimento un’unità fortemente legata a quell’ideale beethoveniano e brahmsiano espresso dall’elaborazione motivica di piccoli incisi di base.
Il secondo tema, tranquillo nell’indicazione del compositore in partitura, è esposto dall’oboe, al quale si unisce un fagotto su pizzicati dei bassi ed una linea ascendente di violini e viole. È un tema complessivamente discendente, sereno ma non festivo, intimista ed in contrasto con la semplice magniloquenza e muscolarità del primo. Una coda conduce ad una sezione centrale di sviluppo dove il discorso complessivo è basato sulla giustapposizione di piccoli elementi desunti dai temi principali ma anche da quelli accessori, come quello derivante dall’episodio di collegamento tra primo e secondo tema. Anche questo è un segnale di una profonda conoscenza di Dvořák della produzione sinfonica della generazione precedente, ma anche di quella coeva. Il compositore si era formato in ambito tedesco, ma quasi per caso, poiché si era recato in Germania solo per imparare la lingua, necessaria a un giovane il cui futuro era quello di aprire e gestire una locanda in territorio boemo. Brahms apprezzava Dvořák, e fu proprio il tedesco a indurre l’editore Simrock (che pubblicava tutte le sue opere) e sostenere e pubblicare i lavori di Dvořák, così come il boemo orchestrò cinque delle Danze Ungheresi di Brahms.
Il secondo movimento, un Adagio di ampio respiro, è un bell’esempio di quella vena melodica infinita di Dvořák che rende indimenticabili alcuni suoi brani. Dopo quattro battute introduttive che richiamano l’Adagio della Nona di Beethoven (e anche la tonalità è la stessa), i violini, seguiti da un morbido controcanto del clarinetto e dell’oboe, ci presentano il tema principale su cui è costruito l’intero movimento. È una melodia dolce, così come la indica il compositore, senza particolari accensioni, una linea di impronta lirica che vive su uno scorrere del tempo lento, da accettare senza fretta. E tutto questo Adagio richiede una visione dello scorrere del tempo dedicata all’avvicendarsi di episodi lirici ad altri connotati da mutamenti armonici privi di una linea portante. In questo senso Dvořák è moderno nella sua concezione musicale: da una visione compositiva strettamente legata alla presenza di una voce principale, una o più accessorie ed un accompagnamento, in questo secondo tempo incontriamo intere sezioni legate ad una musica in quanto tale, una sorta di palcoscenico che freme per l’ingresso di un solista, il quale alla fine entra presentando solo reminiscenze, piccoli incisi per il tutto, secondo una retorica quasi letteraria. È il miglior intimismo di questo compositore, un modo espressivo molto vicino alla musica da camera, anche se la strumentazione rimane del tutto sinfonica per il sapiente uso delle parti solistiche e per un ordito sempre molto ricercato delle parti dell’intero organico orchestrale.
Lo Scherzo della sinfonia è basato su un ritmo di danza ed è costruito nella consueta forma A-B-A con un Trio incastonato nel centro. La danza a cui Dvořák si ispira è il furiant, di origine popolare ceca, caratterizzata dall’alternarsi di due misure in ritmo ternario con due misure in ritmo binario. La pantomima di corteggiamento che il ballerino esegue al cospetto della dama in atteggiamento borioso e superbo corrisponde pienamente al significato del termine furiant, che in ceco significa “uomo selvaggio” o “avventato”. Dei significati originali, ovviamente, nulla è rimasto nel brano di Dvořák, ma di certo si tratta di uno dei molti legami che il compositore boemo volle mantenere con il folklore della sua terra, e ne è testimonianza che nella sua opera egli molte volte vorrà ispiprarsi a questa danza, ad esempio nel Quintetto con pianoforte op.81, nel Quartetto per archi op.12, ed inserì due furiant anche nella sua raccolta di Danze Slave.
Il Trio, Poco meno mosso dell Scherzo, vede invece una spiccata preminenza degli strumentini, in un’atmosfera molto rilassata ma con una pulsazione ritmica sempre sottesa ma non invadente. La transizione verso la ripresa della danza iniziale avviene attraverso formule iterative degli incisi melodici del Trio, secondo un’accumulazione ritmica e metrica che riconduce alla giusta tensione dello Scherzo.
Il Finale è un brano di larghe dimensioni, formalmente e nella sua temperie emozionale generale modellato sul finale della Seconda Sinfonia di Brahms (ed anche in questo caso la tonalità è la medesima). Il materiale musicale di base è tratto dal tema d’apertura degli archi (primi violini in contrappunto con le altre sezioni) e dal tema che il clarinetto presenta dopo un accelerando, caratterizzato da un andamento più scherzoso e da terzine che costituiscono il contrasto più evidente con il primo tema. Lo svolgimento è tutto legato alla giustapposizione dei due temi, scissi nelle loro componenti fondamentali, alla ricerca di un punto di contatto tra le due personalità, risultato che viene ottenuto rendendo cantabili le terzine e imprimendo un certo vigore ritmico al tema d’apertura. Una riesposizione della melodia iniziale nella sua strumentazione originale apre un nuovo episodio, che però stavolta conduce verso un Presto finale (anche questo probabilmente ispirato dall’analogo finale di Brahms) il quale, interrotto da un corale a piena orchestra, sfocia in una conclusione del tutto positiva e contrassegnata da una contrazione ritmica che risolve ogni contrasto.
In ultima analisi, la Sesta Sinfonia di Dvořák è da tenere in grande considerazione per vari motivi: si tratta di un brano che conobbe un grande successo (la Philharmonic Society di Londra ne commissionò subito un’altra al compositore) e fu la prima ad essere posta in commercio; nonostante vi si possa ravvedere più di una fonte ispiratrice nella forma e nei contenuti, è un lavoro che mostra anche una grande capacità di assimilazione dei modelli, da parte di un musicista che visse ai confini dell’impero austriaco, che seppe valorizzare un humus folklorico senza restarne schiavo, e che mai rinunciò all’internazionalità della propria arte.
Il Cast
Direttore: Corrado Rovaris
Violoncello: Gautier Capuçon*
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali