Le date
GUIDA ALL’ASCOLTO
di Paolo Castagnone
Edward Elgar
Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento la musica britannica, svegliandosi da uno stato di apparente letargia, entra in una fase di rapida e progressiva rinascita, la cui data iniziale, il 1880, si è soliti far coincidere con quella dell’esecuzione delle scene corali scritte da Hubert Parry per il «Prometeo incatenato» di Shelley. Protagonisti di questo grande rinnovamento, accompagnato anche da uno studio approfondito dell’antico folclore, furono, oltre al già nominato Parry, Charles Stanford ed Edward Elgar. Quest’ultimo fu certamente il nome di maggior rilievo fra i tre e la sua parabola artistica, cronologicamente proiettata nel pieno Novecento ma spiritualmente legata al secolo romantico, si può dire che rappresenti al meglio quel grande periodo della storia anglosassone passato alla storia come Età vittoriana.
Nato il 2 giugno 1857 in un villaggio della provincia inglese, Elgar – un autodidatta proveniente dalla piccola borghesia e per giunta cattolico, dunque un estraneo in ogni senso – riuscì a diventare uno dei più prestigiosi compositori d’oltre Manica. Figlio di un negoziante di articoli musicali, compose i suoi primi lavori per un gruppo di familiari e amici che erano dotati di sufficiente talento strumentale per poter dar vita a piccoli complessi cameristici. Forse proprio per la sua formazione anomala, lo stile dell’autore delle celeberrime Variazioni su un tema originale “Enigma” è assai personale ed è essenzialmente caratterizzato da un eloquio esuberante e appassionato, la cui dialettica è ben tratteggiata dal musicologo Ferruccio Bonavia: «La delicatezza che viene dalla forza è la sua peculiare qualità, quanto la violenza frutto di un carattere debole è caratteristica di Cajkovskij».
Grazie a una eccellente sensibilità timbrica, il musicista raggiunse i suoi migliori risultati in ambito orchestrale; ma, più che nelle sinfonie, le pagine di maggior qualità vanno cercate nei due concerti solistici per violino e per violoncello, che sono ormai diventati dei classici. Anche se concepiti in senso ancora ottocentesco, essi mostrano un’approfondita indagine delle possibilità tecniche ed espressive dei due strumenti. La genesi dell’op. 85, in particolare, si colloca nei difficili anni della Grande guerra, durante i quali Elgar affittò un cottage nella splendida campagna del Sussex. Qui, com’era d’uso per i pittori, si fece costruire uno studio nel giardino, nel quale poteva ritemprarsi dopo le numerose repliche, in qualità di direttore d’orchestra, di The Fringers of the Fleet. Ciononostante, le sue già precarie condizioni di salute peggiorarono e nel marzo dell’anno successivo dovette subire una delicata operazione alle tonsille. La notte stessa dell’intervento rientrò a casa e scrisse di getto il tema che apre il Concerto, una lunga e rassegnata melodia che emerge solitaria dal silenzio.
L’elaborazione vera e propria della partitura lo impegnò fra il maggio e l’agosto del 1919, coadiuvato dai preziosi consigli tecnici dell’amico violoncellista Felix Salmond, al quale venne poi offerta la prima esecuzione. Dal punto di vista formale il lavoro è articolato in quattro brevi movimenti. Nessuno di essi è nella tradizionale forma-sonata e solo il secondo tempo, che segue senza soluzione di continuità il «Moderato» iniziale, è riconducibile alla struttura svelta e vivace di uno Scherzo sinfonico. Gli fa da contraltare il canto puro e intenso dell’«Adagio», una pagina screziata di dissonanze e continue sospensioni, che rivelano una verità di accenti davvero intima e accorata.
Sul piano espressivo è molto significativo che man mano ci si inoltra nella partitura i gesti musicali divengono meno espansivi e confidenziali. Certamente ciò non è imputabile a una mancanza di lucidità tecnica, bensì alla esplicita volontà di esprimere un sentimento di disillusione e compassione. Non si può dimenticare che il lavoro venne concepito mentre si stava compiendo l’immane tragedia della prima guerra mondiale e l’autore di Pomp and Circumstance – il cui fervente pacifismo non gli fece mai accettare le inutili sofferenze di quel conflitto – attraversava una fase di profondo ripensamento storico, che lo condusse alla deliberata scelta del silenzio. Il Concerto per violoncello chiude infatti la carriera compositiva del maestro inglese il quale, anche in seguito alla morte della moglie, ridusse notevolmente la propria attività, limitandosi a schizzare nuove opere mai realizzate o ad approntare eccellenti trascrizioni.
In quest’ultimo capitolo della sua vicenda artistica ed esistenziale, il momento umano può dunque trasfondersi nella musica per assumere una portata che trascende la vicenda personale. Gli artisti spesso anticipano i tempi; Elgar non precorse nulla. Con coerenza di intenti e di risultati fu semplicemente se stesso e percorrendo il solco della tradizione additò, sia pure sotto forma di puri suggerimenti, una via che le future generazioni di musicisti inglesi avrebbero poi seguito con entusiasmo.
Jean Sibelius
«Ho dovuto soffrire a lungo per aver continuato a comporre Sinfonie in un’epoca in cui praticamente tutti i compositori si volgevano verso altre forme d’espressione. Vorrei però sottolineare un fatto che a mio avviso è essenziale: puramente sinfonico in una composizione è quell’inevitabile obbligo etico che conduce la musica verso la conclusione. Il carattere della musica descrittiva è un altro…». [Jean Sibelius]
Nel 1907, proprio l’anno in cui debuttò la Terza Sinfonia, Sibelius fece la conoscenza di Gustav Mahler che si trovava a Helsinki per un concerto. Il musicista finlandese racconta a questo proposito: «I nostri incontri avvennero principalmente durante passeggiate nel corso delle quali discutemmo ampiamente su vari problemi musicali. Quando la nostra conversazione arrivò a toccare l’essenza della sinfonia, io dissi di ammirarne il rigore, lo stile e la profonda logica che stabiliva gli intimi legami fra tutti i temi. Mahler era di opinione opposta: “La sinfonia deve essere come il mondo: deve comprendere tutto!” […]».
Significativamente l’op.52, allontanandosi dal tono epico e dall’eleganza coloristica dei suoi primi cimenti sinfonici, sembra andare in cerca di mete espressive che si erano già presagite nel 1904, l’anno della genesi del lavoro: il pathos e la mestizia tipici del folclore nordico, lasciano il posto a un pensiero musicale più severo, apportando un decisivo alleggerimento formale e timbrico. La notevole esperienza cameristica di Sibelius conferì al suo linguaggio un’invidiabile nitore, distinguendolo sempre dalle contemporanee tendenze tardo-romantiche, votate spesso a un ridondante gigantismo orchestrale. A questa eccelsa capacità di autocontrollo si sommano altri elementi personali, che assicurano una piena originalità al percorso artistico dell’autore di «Finlandia». Il primo può essere riconosciuto in una profonda attrazione per lo spirito classico – inteso soprattutto come una chiara e sobria costruzione impostata su regolari strutture architettoniche – ed è ben esemplificato da una sua celebre affermazione: «Sono cresciuto nell’idea che i quartetti di Beethoven si debbano venerare come la Bibbia». A questo credo il musicista finlandese seppe intrecciare la cosiddetta poetica “dell’acqua pura”, la quale si concretizza in una ricerca di spontaneità quasi istintiva dell’invenzione musicale, paragonata a «un fiume nato da diversi ruscelli che si cercano l’un l’altro» e che deve rimanere libero di assumere, con immediatezza, la forma più naturale e adeguata.
Così facendo Sibelius sceglie per la sua Terza Sinfonia non solo una snellezza di ordine esteriore, sostituendo alla canonica struttura in quattro movimenti quella in tre tempi tipica del Settecento italiano, ma ribadisce anche il proprio distacco da ogni aggancio descrittivo. Tutto ciò è ben espresso fin dall’esordio di una partitura dalla strumentazione equilibrata e discreta, di gusto quasi miniaturistico, costruito con linearità sul modello della forma-sonata: a un tema iniziale caratterizzato da una vivacità ritmica preannunciante l’ottimistica energia che percorre l’intero lavoro, si contrappone una nuova idea musicale più malinconica e cantabile. Il movimento seguente, idealmente ispirato alle eleganti movenze di una danza campestre, scorre lieve nell’arabescare dei legni sul pizzicato degli archi e sulle note tenute dei corni, ma soprattutto nella delicata instabilità ritmica generata dalla continua oscillazione fra il metro ternario e quello binario. Una notevole originalità architettonica è invece rintracciabile nell’«Allegro» conclusivo, costruito su due sezioni di analoga lunghezza: la prima ha funzioni di esposizione-sviluppo, la seconda, inaspettatamente, evita la semplice ricapitolazione e introduce un nuovo tema, annunciato dai violoncelli, che conduce a tempo di marcia all’energica apoteosi finale. E’ una pagina che riassume emblematicamente il lento processo compositivo dell’intera Sinfonia, cioè la faticosa ricerca di un tema inteso quale espressione di una logica stabile.
Sul piano estetico, molto dibattuto ancor oggi è il valore di questo grande ripensamento del passato da parte del musicista finlandese, poiché il minor lirismo e la scarsa drammaticità dei suo lavori rispetto ai grandi modelli cui si riferisce iniziano a essere interpretati come la contemplazione di valori che, per quanto amati, sono consapevolmente fuori dalla storia. In quest’ottica diventano struggenti i suoi ampi orizzonti e il suo atteggiamento epico, così come l’esigenza di un dialogo sempre più intenso con lo splendido paesaggio lacustre e boscoso della propria terra. La Natura, intesa come un tranquillizzante grembo materno, scrigno delle leggi che regolano armoniosamente il fluire della vita, divenne progressivamente il nucleo ispiratore di tutte le composizioni del musicista il cui animo contemplativo è meravigliosamente tratteggiato nel racconto dell’amico Bengt von Torne: «In una fredda giornata, sul declinare d’autunno, Sibelius uscì a passeggiare. La porpora del sole al tramonto si rifletteva nell’ampia superficie del lago e il calmo specchio delle acque era racchiuso in un bordo grigioperla di ghiaccio sottile. Un grande uccello giunse a volo dal Nord e planò: era un cigno bianco che si riposava un attimo nel suo lungo viaggio verso i paesi caldi. Mentre il sole scendeva, la trasparente cornice di ghiaccio si avvicinò gradatamente, circondando da ogni parte l’uccello. Jean rimase a fissare la scena fino al calar della notte. Poi rientrò in casa, a comporre uno dei suoi Andanti».
Il Cast
Direttore: Antonello Manacorda
Violoncello: Pieter Wispelwey
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali