Le date

Sala Grande
giovedì 03 aprile 2008
Ore: 21:00
sabato 05 aprile 2008
Ore: 17:00

GUIDA ALL’ASCOLTO
di Paolo Castagnone

«Le mie origini musicali sono del tutto tedesche». [E. Grieg]

La formazione decisamente germanica – assimilata durante i quattro sofferti anni di studio al Conservatorio di Lipsia, dove si entusiasma per l’opera di Schumann – non impedisce a Edvard Grieg di manifestare ben presto un’autonoma scelta artistica. L’intimistica capacità di esprimere i più riposti stati dell’animo, il gusto per una scrittura strumentale raffinatissima nonché l’amore per le atmosfere arcaiche e popolari, portano il musicista norvegese a prediligere brani brevi e ben caratterizzati, ideati come sorta di schizzi evocativi del mondo nordico.

Negli anni della maturità, l’autore del celeberrimo Concerto in la minore si pone tuttavia nuovi traguardi linguistici, cercando con tenacia un equilibrio tra il materiale musicale e la struttura formale. Nel 1884, nel pieno di questa delicata fase creativa, giunge la commissione per una composizione che deve commemorare lo scrittore danese di origine norvegese Ludvig Holberg [1684-1754], come Grieg nativo di Bergen e figura così importante per la cultura scandinava da contrassegnare l’epoca in cui visse come «il secolo di Holberg».

L’occasione esteriore viene piegata dal musicista alle proprie esigenze e si tramuta in una possibile soluzione ai suoi dilemmi: la necessità di una corretta ambientazione storica lo porta a ripensare una delle principali forme barocche nell’ottica di un rinnovamento dei propri stilemi, permettendogli di far confluire le sue traboccanti idee musicali in una forma ormai cristallizzata. Il titolo che Grieg dà al pezzo è «Dai tempi di Holberg» e si riferirà sempre con ironia a questa partitura definendola “imparruccata”: di fatto egli la compone dapprima per pianoforte e soltanto l’anno seguente ne trae la celeberrima versione orchestrale.
Il vigoroso Preludio introduce l’ascoltatore, con fiera nobiltà ma incessante vigore ritmico, in una silloge di movimenti di danza, come è tipico della Suite nello “stile antico”. Il secondo pannello del polittico è un elegante e quieta Sarabande, impreziosita nella sezione centrale da una pagina più dolente e dall’andamento più animato, che crea una lieve quanto breve increspatura in un’atmosfera complessivamente elegiaca. La successiva Gavotta, gaia ma compassata, incornicia una Musette che volteggia leggiadra su un basso in stile di cornamusa. L’omaggio al Settecento si rivolge ora a un’Air che pare rievocare atmosfere bachiane per la densità armonica, ma rientra totalmente nel registro espressivo dell’autore di Peer Gynt per una “dolce malinconia” che, secondo l’autorevole critico viennese Hanslick, amico e mentore di Joannes Brahms, è “facile da placare”. In gioioso contrasto, questa luminosa parata di antichi balli è conclusa da un Rigaudon gagliardo e frizzante: le pagine centrali sembrano ripiegarsi in un «poco meno mosso» in tonalità minore, ma l’apparente mestizia è subito dimenticata all’apparire della ripresa.

«Ho amato Carl Nielsen sopra ogni altro musicista. Egli è il più grande compositore di Danimarca». [A. Oxenvad]

Una delle caratteristiche predominanti della musica di Nielsen è la sua apparente rusticità. Questa cifra stilistica viene fatta derivare principalmente da un’educazione avvenuta in circostanze di povertà rurale e Torben Meyer, il maggiore biografo del musicista danese, ha significativamente affermato che «quando ci si immerge nella sua opera, si viene fortemente colpiti da una apparente primitività. Una più approfondita conoscenza della sua vita mostra chiaramente che egli era non solo consapevole della sua particolarissima infanzia sull’isola di Funen, ma anche della spiccata volontà di restituire l’atmosfera dei luoghi conosciuti da bambino. Nelle sue canzoni di carattere popolare, così come nella sua musica strumentale ci confrontiamo con un suono e una visione della vita che testimoniano le sue umili origini».

Carl Nielsen ebbe infatti natali modestissimi: settimo di dodici figli, nacque il 9 giugno 1865 in un piccolo villaggio vicino a Odense, in Danimarca. Il padre, pittore e musicista dilettante, era spesso lontano da casa e fu perciò la madre, Maren Kirstine Jørgensen, a fargli imbracciare un piccolo violino, che era appeso a una delle pareti del salotto, per consolare il bimbo ammalato di morbillo. Egli imparò da sé alcune melodie popolari e le suonò al babbo di ritorno da un viaggio; il genitore lo ascoltò in silenzio, gli prese lo strumento per accordarlo e lo riconsegnò al fanciullo. Questo episodio, intimo e delicato, è il primo ricordo legato alla musica narrato un una autobiografia incentrata sulla propria infanzia. In seguito imparò da autodidatta a suonare il pianoforte e a scrivere piccoli brani. Grazie all’apprezzamento del suo primo quartetto venne ammesso al Conservatorio di Copenhagen, dove studiò storia, teoria musicale e violino; non gli vennero invece impartite formali lezioni di composizione.

È impossibile discutere lo stile dell’artista danese senza affrontare la sua venerazione per la magnificenza del puro rapporto fra le note della scala. Questa peculiarità è forse spiegabile con l’interesse che Nielsen nutriva per la natura e per la musica popolare del suo Paese, della quale aveva raccolto e trascritto numerosi esempi. In un saggio su Wagner – del quale, per altro, non apprezzava il lussureggiante rigoglio emotivo – egli affermò: «Dobbiamo acquisire il rispetto per i più semplici intervalli musicali, vivere con loro, ascoltarli e amarli. Il compositore deve fare questo per la loro bellezza intrinseca, la cantante per il bene della linea melodica, mentre lo strumentista vi si può utilmente impegnare perché, distratto dalle sue possibilità tecniche, rischia di perdere il senso della semplicità espressiva. La Terza è un dono di Dio, la Quarta un’esperienza, la Quinta perfetta la gioia più sublime».

Sebbene il brano sia concepito come un unico vasto movimento costruito su quattro gruppi tematici, rivisita in maniera estremamente personale la classica tripartizione Allegro – Adagio – Allegro. L’assoluta peculiarità dell’op.57 consiste però nel tentativo di esprimere le qualità profonde non solo dello strumento, ma anche del solista, tenendone presente sia l’abilità tecnica, sia il carattere umano. La partitura è infatti dedicata all’amico Aage Oxenvad e ne sfrutta in maniera davvero geniale le capacità strumentali, anche nelle sue accezioni ironiche e riottose. Significativamente il motivo conduttore della sezione di apertura e di molti momenti salienti dell’intero lavoro è una nitida Quinta melodica, che svolge il ruolo di un punto fermo in mezzo alla turbolenza e trae la propria forza propulsiva dalla ruvida energia ritmica di un contadinesco passo di danza. Il tema viene incessantemente variato, ma ne emerge sempre una robusta semplicità, mai impreziosita da raffinatezze di fraseggio. E’ stato giustamente notato che “c’è del fango su queste note” e non a caso l’autore e il dedicatario avevano umili origini rurali.

Dopo la prima esecuzione avvenuta nel 1828, un critico scrisse: «Nielsen ha liberato l’anima del clarinetto, facendone emergere la sua natura di “animale selvatico” quanto la capacità di essere “spietatamente” poetico. Tuttavia quest’opera non sarebbe stato concepita senza la presenza di Oxenvad: la sua sonorità è un misto di vigore primordiale e di genuina dolcezza danese e l’autore deve certamente aver avuto in mente il suo particolarissimo modo di suonare mentre componeva il Concerto».

«Vita e arte non sono due cose diverse » [Felix Mendelssohn]

Nell’estate del 1829 Mendelssohn fece una tournée in Inghilterra: “conquistata” Londra, si concesse un lungo viaggio di piacere in Scozia fra gli amati paesaggi dei romanzi di Walter Scott, visitando anche i ruderi del castello di Holyrood. Nel suo diario annotò: «Tutto è andato in rovina e la luce del sole penetra nelle spaccature. Credo di aver trovato oggi, nella vecchia cappella, l’inizio di una nuova Sinfonia» e, ai piedi dei contrafforti del castello, il giovane Felix schizzò le prime dieci battute dell’Andante con moto che apre l’op.56. Il lavoro non va però ascritto al filone della musica descrittiva, poiché il paesaggio del musicista amburghese è sempre interiore e si mantiene fedele al motto che Beethoven annotò nella Pastorale: «non pittura, ma espressione del sentimento».

Ne deriva che queste suggestioni rappresenteranno qualcosa di ben più profondo nella sua coscienza, poiché andranno a fondersi con le impressioni del lungo e decisivo viaggio in Italia, simbolo dell’altro polo del suo orizzonte romantico: quello meridionale ed estroverso di una classicità perennemente vagheggiata. Tutto si ricongiunse nel suo sensibilissimo animo poetico e di questa polarità egli avrebbe poi reso esemplare testimonianza con le sue più famose sinfonie: l’Italiana e la Scozzese.

Uno degli elementi che più destano impressione è proprio la lunghissima genesi del brano, rielaborato nell’arco di tredici anni in una continua ricerca di forme perfette. Per mettere ancor più in evidenza la levigata fluidità del dettato melodico, Mendelssohn insisteva nel fare eseguire il proprio lavoro orchestrale senza pause fra i singoli movimenti, ritenendo che in tal modo i contrasti avrebbero acquistato il loro giusto valore. Un ulteriore fattore unitario è costituito dalla parentela di molti elementi motivici con l’atmosfera umbratile dell’introduttivo «Andante con moto». Anche i due temi principali dell’Allegro un poco agitato evocano un paesaggio sonoro che acquista via via un respiro più intenso, fino all’esultanza e ai grandiosi crescendi dello Sviluppo. La sapiente costruzione di questa sezione manifesta un magistero contrappuntistico tipicamente mendelssohniano e fa emergere dall’inquietudine sotterranea aspetti reconditi del materiale melodico. A conclusione del primo movimento, un’esile linea discendente dei fiati approda al motivo udito in apertura, riaffermando quel clima da nebbiose highlands scozzesi, alla cui definizione contribuisce non poco la grande finezza timbrica della strumentazione.

Il seguente «Vivace non troppo» porta ad un cambiamento emotivo, percorso com’è dai suoni di allegre danze popolari scozzesi e di zampogne. Il tema pentatonico, tipico delle canzoni popolari gaeliche, fugge vivace e brioso in un suono di clarinetto. La pagina – rarità per uno Scherzo – è in forma-sonata e seduce per l’orchestrazione trasparente e la varietà ritmica. Il richiamo popolare è comunque stilizzato; già col secondo tema e soprattutto nello Sviluppo le raffinate trame polifoniche si infittiscono e, dopo una breve Ripresa che ne prolunga all’estremo la vitalità ritmica, il movimento va a spegnersi in pianissimo.

Con molto pathos i violini attaccano un «Adagio» raccolto, quasi doloroso, costruito sul contrasto drammatico fra la dolcezza di un tema cantabile e un ritmo di marcia funebre, che si presenta all’improvviso in tutta la sua cupezza, impregnata dal timbro dei fiati che suonano nel registro grave. Con la Ripresa poco a poco inizierà a riemergere il tono elegiaco del primo disegno melodico e la Coda si conclude tranquilla e distesa.

Nell’ultimo movimento, «Allegro vivacissimo», prorompe un’atmosfera gioiosa, con un tema energico e vitale che si dispiega su un ritmo costante, mantenuto nel pianissimo ma vivificato da accenti improvvisi. La seconda idea musicale è affidata ai legni con sapiente contrasto timbrico e sfocia in uno Sviluppo dall’ammirevole tessuto contrappuntistico, della cui raffinatezza l’ascoltatore quasi non si avvede al primo ascolto. La consueta coda tematica è sostituita da un «maestoso» in forma di inno: un’idea cara a Mendelssohn, che spesso la usò nella musica liturgica. Dai suoni cupi delle viole, dei clarinetti bassi, dei corni e dei fagotti emerge una sonorità solenne che sfocia in un’apoteosi trionfante.

Il Cast

Direttore: Giordano Bellincampi
Clarinetto: Fabrizio Meloni
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali