Le date
Franz Schubert (Lichtenthal, Vienna, 31 gennaio 1797 – Vienna, 19 novembre 1828)
Ouverture in re maggiore dalla commedia con canto “Der Teufel als Hydraulicus”, D.4
Allegro
Kurt Weill (Dessau, 2 marzo 1900 – New York, 3 aprile 1950)
Concerto per violino e orchestra di fiati, op. 12
I – Andante con moto
II – Notturno – Allegro un poco tenuto
Cadenza – Moderato
Serenata – Allegretto
III – Allegro molto, un poco agitato
Franz Schubert
Sinfonia n.6 D.589 in do maggiore
Adagio – Allegro
Andante
Scherzo. Presto – Più lento
Allegro moderato
Note di sala a cura di Andrea Dicht
Kurt Weill fu un musicista di grande fama e valore che, pur non appartenendo ad alcuna delle scuole definite dalle storie, è e rimarrà un personaggio centrale nel Novecento musicale e teatrale. Questa sua eccezionale posizione è dovuta a fattori storici ed estetici che obbligarono il compositore a crearsi una propria concezione dell’arte musicale, indipendentemente dalla tradizione e dalle avanguardie che, nei primi trenta anni del secolo scorso, si imponevano in maniera esclusiva e totalizzante.
La formazione di Weill fu eccellente e, oltre a studi più o meno regolari presso la Hochschule di Berlino, essa si svolse in maniera decisiva sotto la guida di Ferruccio Busoni. In Italia Busoni è conosciuto come un virtuoso del pianoforte e la sua musica non è così presente nella programmazione concertistica. In realtà egli fu un personaggio di primo piano nei primi anni del Novecento, grazie ad una solida concezione musicale improntata ad un’oggettività che rifiutava tanto la tortuosa espressività del tardo romanticismo quanto un certo espressionismo di maniera, che altro non era se non un romanticismo corrotto e di scarso valore estetico. La scuola di Busoni era ferrea, tutta volta alla chiarezza e concisione formale, scevra da ogni dipendenza letteraria, secondo una visione autoreferenziale della musica che si riversava in una concezione del teatro musicale ove la musica fosse in primo piano ed utilizzata per descrivere laddove la parola incontra un limite.
Weill conobbe il successo in tempi abbastanza brevi ma, si sa, l’appartenenza religiosa in Germania, negli anni ’30, poteva essere un problema ed il fatto di essere il figlio del primo cantore della sinagoga della sua città natale pose Weill nella posizione, comune a molti altri intellettuali e musicisti, di dover cercare asilo all’estero, lasciando alle sue spalle un radicamento nella sua terra difficile da dimenticare. Weill si rifugiò dapprima in Francia, poi in Inghilterra, per approdare infine negli Stati Uniti, una nazione che seppe riconoscere il talento del compositore, gli permise che trovare agio e fama, ma che lo costrinse in un personaggio che non rende merito della sua statura intellettuale. Oggi conosciamo Weill per L’opera da tre soldi, per la sua collaborazione (solo triennale, sic) con Bertolt Brecht, per i suoi musicals che fecero cassetta a Broadway e a Hollywood. Per comprendere però appieno la poliedricità della sua arte il Concerto per violino e fiati si propone come un esempio della capacità del compositore di assorbire uno stile, di metabolizzarlo e di creare qualcosa di nuovo e personale. Il Concerto, che prevede un’inusuale orchestra composta da 2 flauti (con ottavino), un oboe, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, tromba, percussioni e contrabbassi, è un lavoro di ampie dimensioni e di grande impegno per il solista quanto per l’orchestra.
Weill aveva passato il marzo 1924 a Milano, Firenze, Bologna e Roma. Alla Scala di Milano aveva assistito ad una recita operistica diretta da Arturo Toscanini. “Anche solo per questo è valsa la pena intraprendere il viaggio,” scrisse a Busoni; “Non pensavo che fosse possibile suonare un’orchestra con tanta libertà, con rubati così capricciosi.” Verso la fine del suo viaggio scrisse al suo insegnante Busoni che “queste due settimane al sole del meridione hanno svelato cose che erano da tempo assopite dentro di me; alla fine sento una grande spinta verso l’attività e sono pieno di progetti.”
Tornato a Berlino alla fine di marzo, Weill compose il suo Concerto op.12 per violino nei mesi di aprile e maggio. Il lavoro consiste in tre movimenti, il secondo dei quali diviso a sua volta in tre brani. Sebbene questa struttura rispecchi l’impianto formale della Settima Sinfonia di Mahler, nel linguaggio musicale il Concerto mostra somiglianze con Stravinsky, specialmente l’Histoire du Soldat, la Sinfonia per fiati e l’Ottetto. Al di là di questi possibili accostamenti – e lo stesso Weill aveva a più riprese sottolineato la sua affinità con Stravinsky – il Concerto non è di sicuro una creazione costruita sull’imitazione di uno stile; con la sua unica combinazione di chiarezza e purezza di suono (di ascendenza busoniana) unite ad un tessuto sempre fittamente polifonico, si tratta di un’opera tutta di Weill e della peculiarità irripetibile del suo genio. Il Concerto fu l’ultimo lavoro puramente strumentale che Weill compose in Germania; il successivo fu la Seconda Sinfonia (uno dei pochi brani non teatrali oggi eseguito), composta nel pericoloso 1933, già in esilio.
Il tradizionale confronto drammatico del solista contro l’orchestra si esprime compiutamente nello spigoloso primo movimento, ma viene meno nel luminoso e composito secondo tempo. Nel terzo movimento ogni sezione permette alla linea melodica cantabile del violino di elevarsi su un più animato e ritmicamente irrequieto accompagnamento. L’atonalità libera che qui Weill impiega nasce da un impulso immaginativo che obbedisce solo all’orecchio interiore. La stessa orchestrazione del Concerto è l’esempio più evidente nella sua opera della sottigliezza e della “angolosità” della sua immaginazione sonora interiore. Weill non utilizzò mai la dodecafonia della Scuola di Vienna. La chiarezza e la varietà di suoni che egli ha saputo ricavare da un apparato piuttosto contenuto di strumento è davvero ammirevole.
Il Concerto per violino fu eseguito per la prima volta l’11 giugno 1925 a Parigi da Marcel Darrieux, diretto da Walter Straram, ma conobbe un vero successo solo quando fu presentato a Zurigo nel giugno 1926, suonato da Stefan Frenkel. Su Die Musik Adolf Weissmann scrisse: “Il Concerto per violino di Weill è stato il pezzo più interessante della serata, per come l’originalità del suono sia legata ad una totale originalità di struttura. A qualcuno potrà ricordare Stravinsky, ma io credo che Weill si regga benissimo sui suoi soli piedi, con i suoi contrasti tra solista ed un’orchestra, nella quale l’unico strumento a corda è il contrabbasso.”
A soli 24 anni Weill era un uomo di successo. Era già entrato in contatto con gli intellettuali legati ai circoli iespressionisti del tempo, in particolare con il Novembergruppe di cui facevano parte Jarnach, Eisler, Vogel e Brecht, e che promosse nella Berlino degli anni Venti un’ampia attività culturale di concerti, letture pubbliche, mostre e prime di film. Il 1924, l’anno di composizione di questo Concerto, fu un periodo fecondo: conobbe il drammaturgo Georg Kaiser con il quale collaborò fino a quando dovette lasciare la Germani, ed il primo successo della loro collaborazione fu l’opera in un atto Der Protagonist (Dresda, 1926). Fu l’anno in cui una giovane attrice e ballerina di Zurigo di nome Karoline Wilhelmine Blamauer chiese ospitalità alla famiglia Kaiser, per poi assumere il nome d’arte di Lotte Lenya e diventare la moglie di Weill nonché la protagonista dei suoi lavori teatrali e la principale custode dell’eredità artistica del marito (è a lei che dobbiamo la riscoperta del repertorio weilliano precedente gli anni americani).
La difficile storia della Germania pre-nazista è difficile da percorrere senza che gli anni di Hitler gettino un’ombra anche su quelli precedenti. Gli storici hanno spesso mostrato quanto negli anni Venti e Trenta nella società tedesca fossero già presenti i semi di quell’odio razziale che ha privato l’Europa delle sue migliori menti ed immaginazioni artistiche. Al di là di ogni considerazione di ordine socio-politico, il primo trentennio del Novecento fu un epoca densa di attività creativa, pieno di intelletti liberi ed ansiosi nella ricerca di nuovi modi di espressione. È in quest’ottica che Weill deve essere considerato, anche per ciò che attiene alla sua produzione “leggera” americana. In fondo la marcia in più che permise al compositore di guadagnarsi la fama oltreoceano proveniva proprio da quella speciale commistione tra solidità tecnica e libertà di pensiero che la sua Germania gli aveva saputo offrire.
L’Ouverture di Schubert che stasera apre il concerto è un dei brani più giovanili del compositore e, con molta probabilità sebbene il suo catalogo sia ancora lontano da una classificazione stabile, la prima opera completa per orchestra. Schubert ha quindici anni quando compone questo brano, ed una certa “freschezza” è avvertibile sin dalle prime battute. La sua esperienza è solo limitatamente polifonica: sino al 1812 i suoi lavori sono consistiti in musica da camera, qualche brano per voce accompagnata da pianoforte, della musica sacra di non grande impegno. Eppure, nonostante la giovane età, quest’ouverture è solidamente orchestrale, composta in uno stile trasparente ma chiaramente sinfonico. Si tratta di un breve Allegro destinato a fungere da apertura ad una bizzarra commedia dell’altrettanto eccentrico commediografo e medico Johann Ernst Friedrich Albrecht, intitolata “Il diavolo fa l’idraulico”.
Ben altra solidità mostra invece la Sesta Sinfonia di Schubert, stasera a conclusione del programma. Scoperte ed apprezzate dal pubblico solo qualche decennio dopo la morte del loro creatore, le sinfonie di Schubert hanno conosciuto il successo che meritavano grazie in particolare alle geniali melodie che le informano e ad un ritmo delle emozioni che ne conseguono molto delicato ma sempre convincente. In realtà, ridurre a queste categorie l’abilità ed il talento di questo compositore così stupefacente vuol dire davvero rendergli poco onore, e la Sinfonia che conclude il concerto di stasera ne è un esempio notevole. Un bel tema è poco o nulla se non è inserito in un’architettura adatta, e Beethoven, di una generazione più anziano di Schubert e suo idolo sin dal tempo degli studi, lo aveva capito ben presto, corredando la forma dei suoi lavori sinfonici con sviluppi molto saggiamente relazionati ai temi, e concependo per primo la forma della sinfonia come un mondo autoreferenziale ed unico. Schubert imparò subito la lezione di Beethoven e sin dai suoi primi esperimenti sinfonici si situò nell’alveo di un’estetica della sinfonia che non era ancora una tradizione ma che avrebbe dettato legge su più di una generazione a venire. Ciò che, però, rende unico Schubert è una dote che, seppur innata, egli saprà raffinare durante il corso della sua breve vita, ovvero la capacità di mantenere sempre vivo il discorso musicale conferendo allo svolgimento delle idee musicali un ritmo interno inarrestabile indipendentemente da ogni intenzione espressiva decisa a priori. La Sesta Sinfonia ne è una testimonianza particolarmente eloquente. Per capire quanto a Schubert stesse a cuore il problema di una buona conduzione armonica del materiale musicale (prima forza propulsiva di ogni linguaggio musicale tonale), notiamo che in questa Sinfonia anche la forma bitematica, cioè quella dei due temi dialetticamente contrapposti, entra in crisi per dar luogo a vere e proprie famiglie di melodie contenenti già al loro interno uno svolgimento degli “affetti” da esse espressi. Certo, anche il primo movimento della Sesta ha il suo primo tema seguito a non grande distanza da un secondo, ma il tessuto musicale connettivo, quelle aree non sempre ben definibili che collegano i punti saldi della forma-sonata, è pieno di altre idee, secondarie certo, ma dall’impatto non meno significativo.
Dopo la parentesi “mozartiana” della Quinta Sinfonia, Schubert torna ad aprire il primo movimento con un’introduzione lenta, Adagio, stavolta non più con intenti teatrali di mera preparazione celebrativa, bensì conferendo alle prime battute sottili rimandi al materiale musicale che informerà l’Allegro successivo. I collegamenti sono esili, e sicuramente difficili da assaporare, ma essi lavoreranno in uno strato sotterraneo della coscienza, in un’area da sempre eletta da Schubert, un compositore che ha sempre preferito suggerire piuttosto abbandonarsi all’eloquenza, pur non mancando mai in termini di assertività delle sue idee. L’Allegro è un movimento davvero geniale, e nasce da un primo tema di semplicità infantile ma di forte carica espressiva. E’ in un brano come questo che possiamo realmente assaporare la capacità di Schubert nel concatenare una messe di idee musicali sostanzialmente sempre riconducibili ad una melodia accompagnata, facendo così a meno di strutture contrappuntistiche meno “spontanee”. La naturalezza con cui ci troviamo nel secondo tema è sorprendente, e lo è altrettanto il fatto che in questo nostro scivolare tra questi due poli siamo passati attraverso idee musicali tutt’altro che di importanza secondaria, momenti che troveranno la loro ragion d’essere sia nello sviluppo che nella stessa ripresa. Sono quindi “famiglie” di temi, secondo un procedimento che vedremo applicato in maniera programmatica da Bruckner nei suoi ampi lavori sinfonici, e la dinamica psicologica non sarà più affidata alla contrapposizione tra temi quanto al ritmo dei temi stessi, il movimento come significante più che come risultato.
Ad un primo movimento caratterizzato da forti scarti dinamici legati ad una strumentazione molto varia, segue un Andante piuttosto concentrato sull’espressione melodica più che su una costruzione formale particolarmente interessante. Il tema su cui si basa l’intero brano è una melodia di natura vocale-italianeggiante, molto delicata, affidata agli archi cui rispondono i fiati. E’ in questo tipo di brani, intimistici e dalle dimensioni contenute, che si può leggere più facilmente il genio di Schubert: la forza delle armonie e dei passaggi tra le diverse tonalità, il profilo della melodia principale e l’eleganza delle variazioni a cui sarà sottoposta, un uso dell’orchestra raffinato (cameristico) per scelta ed unione di timbri, fanno di questo Andante un vero capolavoro. Il genio di Schubert è indiscutibile, ma è difficile non avvertire in questi piccoli lavori di cesello una spontaneità ed un amore che forse mancano o sono più celati nelle forme più ampie.
Per la prima volta in una sinfonia di Schubert l’antiquato Minuetto cede il passo ad un più moderno Scherzo, un Presto in do minore, nel quale avvertiamo rimandi più che evidenti al beethoveniano Scherzo della Settima Sinfonia. Questo tipo di scelta è assai significativo ai fini di una collocazione di questa sinfonia all’interno del corpus complessivo delle sinfonie di Schubert: la Sesta è un ponte che da una riva certa si protende verso l’ignoto, un momento di sperimentazione che, cronologicamente, spiega il tempo che separa le prime cinque sinfonie (composte tra il 1813 ed il 1816) da questa (conclusa nel febbraio 1818) e dalle due ultime conosciute (1822 e 1825-1828, anno della morte del compositore). Schubert sente chiaramente la necessità di allontanarsi da moduli espressivi ormai divenuti fin troppo familiari, e non può accettare che le cinque sinfonie scritte prima di arrivare ai vent’anni siano il suo contributo più originale a questa forma. Oggi sappiamo che la Sinfonia “Grande” sarà l’approdo di questo ponte, ma ascoltando questa Sesta Sinfonia si sente chiaramente quanto alla base vi sia uno sforzo di ricerca ed una tendenza all’esplorazione di un mondo espressivo e formale fertile quanto oscuro.
Il Finale, Allegro moderato, ci riporta invece ad una dimensione di Schubert più al passo con la sua epoca, il periodo del grande successo viennese (se non europeo) di Rossini e di un’estetica che attraeva e respingeva le menti creatrici austriache pur dilettando senza dubbio il pubblico dei teatri d’opera. Schubert, nonostante le maldicenze, ammirava il genio di Rossini, e questo non ci meraviglia se pensiamo alla vitalità di certi suoi concertati o di alcune Sinfonie d’opera, e ad una spontaneità tutta italiana nel taglio delle melodie. E in particolare la vis ritmica a destare l’interesse del viennese Schubert, e questo Finale ne è un esempio ben adatto. E’ una ronda, un divertissement, una corsa gioiosa ed inarrestabile ciò che guida questo brano verso una conclusione serena ed ottimistica, forse la voglia di vivere di un giovane che ha finalmente avuto il coraggio di affrancarsi da un padre scarsamente incoraggiante (quale era quello di Schubert) e si trova a vivere una nuova vita condividendo uno squallido appartamento con i suoi migliori amici, finalmente dedicandosi notte e giorno alla composizione, al vino, alle donne e alle Schubertiadi.
Non possiamo non rilevare, a questo punto, che la Sesta Sinfonia di Schubert fu la sua prima sinfonia ad essere eseguita in un concerto pubblico; avvenne, però, in un contesto doloroso: a circa un mese dalla morte del compositore la città di Vienna comprese il peso della perdita di questo suo musicista tanto serenamente ignorato, e la Società degli Amici della Musica di Vienna decise di organizzare un concerto commemorativo basato solo su sue musiche. Era stato deciso di eseguire la Sinfonia “Grande” ma, giudicata troppo difficile dagli strumentisti dei Wiener Philharmoniker (sic), fu sostituita dalla “Piccola” Sinfonia in do maggiore che abbiamo ascoltato stasera.
Il Cast
Direttore: Hansjörg Schellenberger
Violino: Markus Placci*
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali