Le date
OVVERO DELL’AMBIVALENZA MUSICALE
a cura di EDGAR VALLORA
“Non stiamo parlando del contrapporsi violento (e nitido) di “blocchi” sonori, emotivi, psicologici. In certe creazioni musicali stupisce ben di più il sottile, sommerso confluire-defluire delle tonalità emotive: quando trascolorano, si rinnegano, mutano, senza apparente cesura o conflitto. Fino a sovrapporsi, a subentrare l’una all’altra. Senza confini, senza limiti, senza cornici: un oscillare ambivalente”.
G. Field
FRANZ SCHUBERT – OUVERTURE D 591 “nello Stile italiano”
Accanto alle grandi opere sinfoniche – colossi come la Terza o (il primo movimento della) Sesta – nascono (appartate, brevi, poco conosciute, eppure incisive nel loro valore musicale) alcune Ouvertures (composizioni non forzatamente collegate al mondo dell’opera teatrale; che possono porsi, come suggerisce il termine stesso, quale semplice “musica d’apertura o di introduzione”).
Si allude al gruppo delle quattro Ouvertures composte da Schubert nel biennio 1816-1817; comunque legate, per lo meno nello spirito, alla polvere del palcoscenico (Einstein, grande studioso di Schubert, scrive che non si potrebbe “immaginare nulla di più adatto agli Zauberstucke – “pezzi di sortilegio teatrale” – di un compositore come Ferdinand Raimund).
Si era appena aperta l’era rossiniana; e, secondo una confidenza di conoscenti, pare che dopo una rappresentazione del Tancredi Schubert avesse lanciato una sfida agli amici rossinofili dichiarandosi capace di comporre – “ma, attenzione, con le mani in alto”! – delle Ouvertures di pari fattezze e complessione (non per altro, nella prima delle due appare, come in uno specchio convesso, l’aria rossiniana “Di tanti palpiti”).
Quattro Ouvertures dunque: D 470, D 556, seguite dalle due Ouvertures D 590 e D 591, programmaticamente composte “nello stile italiano”.
Venendo al brano eseguito in questo concerto, vi troviamo una struttura “fisica” semplice e naturale: un’introduzione lenta seguita da una pagina in forma-sonata, ma priva della parte centrale (lo sviluppo): un innesto, dunque, di esposizione e ricapitolazione. Sotto il profilo psicologico e musicale, invece, sette minuti di musica concentratissima: un ininterrotto sgorgare di temi, senza cesure, senza mai flessioni; temi che, non contrapponendosi, si concatenano in un’ambivalente fluttuazione.
Da apprezzare come la sublime “cesellatura del particolare”, prettamente schubertiana, conviva con il respiro generale, di profondità inusuale per un’Ouverture.
Schubert cavalcò l’onda del momento: nel corso di un concerto – marzo 1818 – presentò in prima assoluta le due Ouvertures italiane, “pagine tutte nuove”. Pare che soprattutto la D 591 abbia incantato il pubblico; benevola la critica sui giornali: “Di sicuro gusto italiano, riecheggiante il modello rossiniano”.
LUDWIG VAN BEETHOVEN – CONCERTO n.3 per pianoforte e orchestra Op.37
Terzo dei cinque Concerti per pianoforte (in ordine: Op.15, Op.19, Op.37, Op.58, Op.73), questo Concerto costituisce un capitolo basilare nella letteratura beethoveniana: non tanto per l’intrinseco valore musicale (valore spesso discusso: “un capolavoro mancato”, per esempio, nella valutazione di Carli Ballola), quanto per il significato che assume nella vita e nella poetica del compositore.
L’opera fu condotta a termine con molta lentezza, in un arco di due anni (Beethoven era ormai avvezzo a “portar avanti” più di una partitura contemporaneamente): i primi schizzi risalgono ai primi dell’anno 1800; mentre un annuncio del fratello del compositore, sulla Gazzetta viennese del novembre 1802, conferma che “il terzo Concerto era pronto per il pubblico” (e, sottinteso, per la vendita!).
Il Concerto crebbe dunque – passo dopo passo – accanto alla seconda Sinfonia Op.36, tanto che i critici della prima generazione lo hanno pittorescamente descritto come il fratello “scuro” della Sinfonia “chiara”: entrambi leggibili come metafora artistica – doppia, bifronte, ambivalente – di uno dei periodi più scoraggiati della vita del compositore (entrata silenziosamente, la sordità stava ormai aggredendo fisico ed anima del musicista).
La posizione che l’Op.37 occupa all’interno del ciclo dei Concerti per pianoforte – posizione geometricamente centrale – rafforza quel “ruolo di cerniera” considerato fondamentale dalla critica di ogni tempo: materialmente e spiritualmente. Alle spalle i due Concerti della giovinezza, nei quali, risolvendo insidiose dipendenze musicali, Beethoven aveva nobilmente liquidato il passato; a venire i due Concerti della maturità, nei quali si verrà ad affermare lo stile “personale” del nuovo concerto beethoveniano.
Prima d’ogni altra considerazione, va sottolineato che è l’unica opera solistica di Beethoven impostata in una tonalità minore; scelta che comporta un inevitabile confronto con i due Concerti “drammatici” di Mozart (il K466 e il K491). Beethoven ammirava questi capolavori mozartiani; con un “debole” per il K466, opera che eseguì in pubblico, come solista, innumerevoli volte e per il quale compose più di una cadenza. Ma proprio là dove i due geni sembrano apparentarsi, nella scelta comune di una tonalità ben mirata, appaiono le radicali differenze tra le due personalità.
E’ bene, a tal riguardo, non lasciarsi fuorviare dalla tonalità oscura di Do minore, né dalle intimorenti ambizioni: Beethoven, in realtà, proietta in una dimensione drammatica un concerto relativamente tradizionale, senza modificarne (come avverrà invece nei due ultimi Concerti) l’impalcatura formale o il contenuto intrinseco (e senza raggiungere quel miracolo d’equilibrio che aveva contraddistinto l’avventura di Mozart nell’Ombra). E’ soprattutto il rapporto solista-orchestra a subire importanti modifiche, destinate a lasciare frutti: abbandonati i parametri mozartiani, Beethoven trasporta la voce del solista in una scala sinfonica per contrapporla all’orchestra in modo nuovo e dialettico.
L’Allegro d’apertura incarna una fisionomia “militare” (impronta assai amata all’epoca) unita alla retorica drammatica dei vecchi Concerti di questo genere (tanto da esser stato definito, da un critico ottocentesco: “un concerto militare drammatizzato”!). Tra i due temi – il primo più enfatico, il secondo più dolce-cantabile – non esiste l’impegno costruttivo di altre pagine beethoveniane; e l’elaborazione drammatica, pur carica di spunti sostanziosi, stenta a spezzare le catene di una certa superficialità.
Uguali riserve per il Finale, pagina piacevole, brillante, narrata sotto forma di Rondò; pagina che non oltrepassa – sempre ascoltando la critica ufficiale – la cornice del genere pittoresco con inflessioni tzigane (divertente la notazione di Velly: “Un rondò umoristico in Do minore! Humor nero assolutamente diabolico!”).
Dove invece il Concerto si libera dai lacci terrestri e raggiunge l’aura dei capolavori “esatti” è nel Largo (perfino il salto tonale dal Do minore al Mi maggiore – una rarità per Beethoven – sembra sottolineare il balzo di qualità). Illuminato dal fascino di una scena vocale di grande respiro, il brano si dispiega con insolita ampiezza e libertà psicologica, sopra un accompagnamento armonico fluttuante (da molti definito “ambivalente”: ecco il sottotitolo di questo programma). Pagina d’estasi, che conquista l’ascoltatore non solo per il nobile declamato del pianoforte, mistico come un inno religioso, ma soprattutto per la strumentazione di eccezionale raffinatezza e preziosità. Il tema viene ripetuto un’infinità di volte; ogni volta più assorto, più attutito, più rarefatto: sino alla completa disincarnazione. Brano ritenuto, al giorno d’oggi, “straordinario per l’epoca”.
Il Concerto fu dedicato al re Luigi Ferdinando di Prussia, compositore di talento e convinto ammiratore di Beethoven; a sua volta ammirato da Beethoven, che un giorno ebbe a dirgli: “Voi non suonate come un principe ma come un vero musicista!”
La prima esecuzione ebbe luogo la sera del 5 aprile 1803 al Theater an der Wien, teatro in cui viveva l’impresario Schikaneder (quel geniale-astuto impresario teatrale già conosciuto ai tempi del Flauto magico di Mozart), teatro che egli stesso aveva fatto costruire. Il concerto (il cui programma contemplava ubbidientemente la seconda Sinfonia, sorella del Concerto Op.37) vide lo stesso Beethoven al pianoforte, con una partitura incompleta sul leggio (azzardo che causò non poche ansie all’allievo volta-pagine). Dopo quell’esecuzione, per colpa della sordità che andava drammaticamente peggiorando, il Concerto fu presentato in pubblico solamente dall’allievo Ferdinand Ries.
JOSEPH HAYDN – SINFONIA n.98
Per un trentennio Haydn aveva sperimentato la forma sinfonica, in tutte le sue trame e sfumature; favorito dal fatto di essere stato al servizio dei principi Esterhazy che disponevano di una compagine orchestrale a sua completa disposizione. Proprio per tale orchestra Haydn aveva composto la maggior parte delle sue Sinfonie; passando da una forma iniziale, affine alla Suite e ad altri generi semplici (come i divertimenti e le cassazioni) ad una struttura più essenziale-concentrata, adatta a trasmettere contenuti più toccanti; sino a giungere alla cartesiana oggettività della struttura in quattro movimenti, quella che verrà definita la “classica sinfonia haydniana”, presa a riferimento da altri grandi viennesi (non ultimi gli stessi Mozart e Beethoven!).
Se un approfondimento della ricerca, soprattutto timbrica, lo si può già notare nelle Sinfonie composte per il pubblico parigino, è con le due serie di Sinfonie “londinesi” (dal n.93 al n.98 e dal n.99 al n.104) che Haydn raggiunge l’apice nella sapienza orchestrale. Il disegno formale, la concezione spirituale di ogni singola Sinfonia, la cura della strumentazione (che lascia spazio ad episodi di solismo concertante) sono gli attestati di una maturità compositiva che giustifica quel “padre della sinfonia moderna”, epiteto da allora attribuito all’autore.
La n.98 è la penultima delle Sinfonie che Haydn compose nel viaggio-soggiorno a Londra per i concerti che si dovevano tenere nella Hannover Square Room, organizzati da Peter Salomon (in effetti la Sinfonia n.97 – pagina solare, evocativa di fasti regali – fu scritta ed eseguita successivamente alla n.98). Siamo nel febbraio 1792. Dopo i trionfi dell’anno precedente, prende l’avvio la seconda stagione dei concerti-Salomon con le nuove pagine composte da Haydn per il pubblico inglese (concerti ogni venerdi sera, da febbraio a giugno). Feroce la concorrenza: rappresentata dalla stagione alternativa, diretta da Wilhem Cramer; particolarmente agguerrita quell’anno in quanto Cramer aveva scritturato niente meno che Ignaz Pleyel, il migliore allievo di Haydn. Gonfiata dalle Gazzette e dai pettegolezzi, la gara assunse i colori e la tonalità di un “parricidio psicanalitico”, il vecchio maestro contro il giovane allievo.
Suggestivo questo acquerello di Andrea Lanza: “E’ la Londra concitata di Fielding, di Hogart, di Blake, una tumultuosa megalopoli di un milione di abitanti dove si incontrano tutti i mestieri e tutte le idee, alimentate da immigrati di ogni provenienza, soprattutto italiani e francesi. Il chiasso delle strade è tale da costringere Haydn a cambiare spesso appartamento in cerca di pace.
In campo musicale Londra offre ben quattro teatri d’opera e una miriade di società concertistiche che si contendono ferocemente un mercato che il tramonto dell’egemonia ha lasciato libero. Se re Giorgio, nella sua maniacale demenza, non vorrebbe ascoltare altro che Haendel, il pubblico londinese è invece affamato di novità e, volubile e bizzoso, costringe gli impresari a continui rilanci se non vogliono soccombere alla legge spietata della domanda e dell’offerta”.
Haydn – ormai un anziano provincialotto, ma consumato ad ogni tenzone – non si lascia impressionare. Curioso di tutto, riempie i diari di curiosità da tramandare agli amici; sa fiutare gli umori del nuovo pubblico; e, nella stupefacente, continua metamorfosi del suo stile, ha ben chiari i confini fra l’effimero e le verità dell’arte. L’”armonica battaglia” con Pleyel lo turba, ma non lo spaventa. Ben più allarmato è invece Salomon, che nell’impresa-Haydn ha investito fatiche e capitali del tutto speciali (al punto da convincere Haydn ad inserire, proprio nella Sinfonia n.98, una piccola “scheggia” pianistica, onde “stregare il pubblico con effetti speciali!”)
La Sinfonia si apre – alla maniera haydniana – con un’Introduzione lenta, segnata da un gesto severo, di imperio beethoveniano, e conduce nell’Allegro: pagina ambivalentemente “mista”, dove motivi di fanfara si innestano su plaghe di solenne gravità, dove stringate accelerazioni si allentano in affettuosi ristagni. (Si fa notare come in questo movimento non esista un “secondo tema” bensì una variante del tema stesso: lo sviluppo, in pratica, è confinato tra gli elementi del tema principale). L’atmosfera ambivalente – quell’alternanza intederminata di sapienza contrappuntistica e leggerezza melodica – si propaga anche nell’Adagio, dove il tema (impressionantemente simile all’inno God save the King) subisce mutamenti iridescenti: frutto dell’oscillare continuo fra rannuvolamenti, parentesi di melodia rassicurante, contro-canti cromatici.
L’impronta ambivalente si mantiene nel Minuetto, dove il piglio beffardo dell’avvio si presta poi a sorprendenti modulazioni armoniche e formule contrappuntistiche; e perdura nella farandole del Finale.
Tre sorprese in questo brano di chiusura, da togliere il fiato: un a solo del violino, all’ultima ripresa dello sviluppo (dove incanta l’inattesa, sorprendente tonalità di La bemolle maggiore!); il tema ripresentato per l’ultima volta au ralenti, quasi sillabato; e infine quel cammeo incastonato nella Coda: pochi attimi prima dalla chiusa, poche battute di pianoforte (anche eseguito, nelle formazioni orchestrali di oggi, da una sorta di Glockenspiel).
La prima esecuzione, diretta dallo stesso Haydn, ebbe luogo il 2 marzo 1792. Il compositore-direttore interpretò anche le dieci battute del pianoforte e raccolse – come in tutte le apparizioni del suo soggiorno londinese – un invidiabile successo (egli stesso annotò sul suo diario che tre movimenti su quattro dovettero “essere bissati per il delirio del pubblico)”. Merito anche della mastodontica orchestra di Salomon (grande soprattutto per l’epoca, assolutamente superiore all’organico delle “orchestrine” fino ad allora dirette da Haydn: 16 violini, 4 viole, 6 violoncelli ecc. ecc.). Merito dei multiformi programmi (interminabili per le consuetudini di oggi): dove le arie di Madame Mara si alternavano agli a solo del Signor Bruni; dove Viotti in persona presentava i suoi Concerti per violino, magari alternati a un quartetto d’archi. Pare comunque che il “pezzo forte” dei concerti di quelle felici stagioni fosse sempre una Sinfonia di Haydn.
Haydn: ai tempi il compositore più importante ed acclamato. Oggi, un genio ancora troppo poco amato.
Il Cast
Direttore e pianoforte: Maurizio Zanini
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali