Ciclo Beethoven - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 29 novembre 2007
Ore: 21:00
sabato 01 dicembre 2007
Ore: 17:00

Il Concerto:
a cura di Edgar VALLORA

ROSSINI – IL BARBIERE DI SIVIGLIA
– Ouverture
Considerata coralmente l’opera più “intrigante” di Rossini (per lo meno una delle più eseguite nella vita dei teatri), insuperabile capolavoro del melodramma italiano, il “Barbiere di Siviglia”, a conferma della sua storia “mista” – miracolosa nella genesi, tormentata nel suo affaccio al mondo, straordinaria nel segno votato all’eternità – riserva un retroterra di insolita complessità. Eccone il tratteggio per sommissimi capi. P.A.Caron Beaumarchais, in pratica “l’inventore del Barbiere” (un incredibile androide: geniale orologiaio, disinvolto faccendiere-imprenditore, diplomatico, drammaturgo, filosofo) era anche musicista, professore d’arpa e compositore. Ispirato durante un viaggio in Spagna dal colore locale, al punto da voler creare una “Tonadilla a sua misura”, compose una sorta di opera comica (“Arie sulle mie parole e parole sulle mie Arie”); poi dovette ricredersi sulle sue ambizioni letterario-musicali dopo un fallimentare debutto alla Comédie francaise nel 1775 (pare che fossero stati soprattutto gli “italiani” a non gradire questo pastiche spagnolo del Beaumarchais). Ma dopo il fiasco leggendario, come spesso accade, l’escalation del “Barbiere” sembrò non aver più fine; e nel giro di pochi anni una folla di compositori rimase stregata da questo curioso soggetto (per ricordarne alcuni, più o meno giustiziati dalla storia: Ludwig Benda, Elsperger, Peter Schultz, Nicolo Isouard, Francesco Morlacchi).
Sopravvivono, al giorno d’oggi, solamente il “Barbiere” di Giovanni Paisiello e quello, di poco successivo, di Gioacchino Rossini. Scritturato dal direttore del Teatro Argentina di Roma, fu nelle famose “giornate napoletane” (assistito dalla cantante Isabella Colbran, prima donna del “San Carlo” e maitresse en titre del suo cuore) che Rossini – con celerità e compattezza miracolose (chi dice in due mesi, chi addirittura in tredici giorni) – riuscì a completare quest’opera mirabolante. Rossini provò forti scrupoli a “metter le mani” sull’opera già musicata da Paisiello, al punto che si abbassò a scrivergli una lettera, per “palesargli la sua ammirazione”, per sottolineare “la purezza delle sue intenzioni”: il tutto accompagnato dalle “scuse più umili” per questa indebita interferenza. Non solo intitolò l’opera, onde uscire dalla concorrenza, “Almaviva o la precauzione inutile”, ma redasse perfino un Avviso da distribuire al pubblico, per convincerlo dei “sentimenti di rispetto e venerazione che animavano l’autore nei confronti del grande Paisiello”. Dopo un fiasco crudele al debutto, il 20 febbraio 1816 (a detta di molti frutto delle cabale diaboliche del furibondo Paisiello), un vero sfacelo da opera buffa – corde che saltano nella chitarra del Conte d’Almaviva, sangue da naso di Don Basilio, gatto nero che fende il palcoscenico – l’opera ebbe un riscontro più caloroso fin dalla seconda replica (assente Rossini, per quanto impassibile), seguito da un successo con crescita esponenziale. L’opera, che i critici della prima ora avevano dato per “spacciata per sempre”, iniziava il suo spericolato cammino. A ragione considerata come la più ammaliante fra le Ouvertures di Rossini (la sola che rivaleggia, secondo alcuni, è quella del “Guglielmo Tell”), fu inizialmente composta per un’altra opera, l’”Aureliano in Palmira” (la solita diceria racconta che Rossini, a poche ore dal debutto, avesse perduto le pagine d’apertura, per cui ricorse con proverbiale disinvoltura ad un felice répechage). Non solo: riproposta ne “Elisabetta, regina d’Inghilterra”, ripercorsa ne “La scala di seta, ne “Il Signor Bruschino”, e ne “L’Italiana in Algeri”. Spesso Rossini, pigro di natura oltre ché sedotto dalle sue composizioni più felici, riprendeva temi, brani, Ouvertures.

In effetti questa pagina è un miracolo di vivezza, luccichio, concisione, ironia, estrosità: una melodia “da monello scherzoso” – come è stata definita -, melodia che corre con spensieratezza verso l’apertura della scena.

BEETHOVEN – CONCERTO per pianoforte e orchestra WO4
La sigla WO sta ad indicare la numerazione di opere non comprese nel catalogo ufficiale di Beethoven (Werke ohne Opuszahl, ovvero opere senza numero di catalogazione), elenco redatto in un’epoca successiva. Questo “catalogo secondario” comprende n.205 composizioni, per lo più brevi ed innocue (come canoni o trascrizioni di “canzoni” popolari), in cui emergono brani più significativi (soprattutto nel campo dei Lieder e dei pezzi isolati per pianoforte).

Le prime composizioni di Beethoven furono realizzate – dal 1882 al 1884 – sotto la guida del suo maestro C.G.Neefe (una serie di Variazioni su una Marcia di Dressler; tre piccole Sonate per pianoforte dedicate – come di prassi – al Principe Elettore; numerosi Lieder e pagine sparse per pianoforte). Se i brani per pianoforte ed ancor più i Lieder fecero scalpore presso i musicofili di allora e furono prontamente pubblicate (prima di tutto per l’affettuoso riscontro dei dilettanti di musica da camera, ma ancor più per la precoce età dell’autore, quattordici anni), la partitura di questo Concerto rimase avvolta dalla polvere fino al secolo scorso. Seguendo il giudizio della critica militante, va segnalato che nessuna composizione del periodo di Bonn raggiunge una significativa incisività nello sviluppo delle forme musicali: limite che viene avanzato anche per questo Concerto, chiaro esempio di imitazione dello stile dei compositori contemporanei (in particolare del mondo classico di J.Ch.Bach e dei musicisti tedeschi). Particolarmente intransigente è il grande critico beethoveniano Solomon, che liquida quest’opera in due parole: “Eccessivamente estesa dal punto di vista formale, è melodicamente poco interessante”. Si apprezzi invece – a nostro avviso – la schietta semplicità, il candore della condotta melodica, la freschezza “fanciullesca” (è ovvio), l’esplosione di buonumore popolare nel movimento conclusivo.
Si fa presente che non esiste manoscritto originale del Concerto, ma una manciata di pagine che riportano la sola parte del pianoforte, qualche frammento degli archi e rade “schegge” orchestrali. Sulla base di queste annotazioni, Willy Hess, uno dei più accreditati revisori del catalogo, riuscì comunque a ricostruire la partitura del Concerto.

Due parole sul maestro Neefe, compositore, direttore d’orchestra, organista di corte a Bonn. Nel 1780 divenne insegnante di composizione del piccolo Ludwig e rimase il suo unico maestro sino a che il giovane non lasciò la città, novembre 1790. Lo preparò a diventare assistente-organista; anzi, nel giugno 1782 gli affidò temporaneamente il suo incarico; mentre qualche mese dopo cedette all’allievo dodicenne la propria carica di “maestro al cembalo” (che comportava la direzione d’orchestra dalla tastiera con lettura a prima vista della partitura). Neefe sperava logicamente di contribuire alla scoperta di un secondo Mozart; e non per altro il perdurare della sua fama poggiò in parte sulla protezione accordata a Beethoven. Grazie alle sue qualità intellettuali e morali, ancor più che musicali, Neefe era una delle poche persone che il giovane, in un momento delicato della sua vita, poteva ammirare ed avere a modello.

HAYDN – SINFONIA N.45 (Gli addii)
Se, spesso, le condizioni della vita di Haydn non erano oggettivamente brillanti (contrariamente a quanto si presume, grazie anche all’ottimismo profuso della sua musica), i destini della sua carriera a volte gli procuravano delle situazioni “ideali” (aggettivo adottato dal compositore stesso) per sviluppare i suoi poliedrici talenti. Nel caso di Haydn – genio ancora incompreso in tutta la sua rivoluzionaria ironia – il modo di comporre rivela un processo lontano dai “deliri romantici”: metodo quasi scientifico, altamente elaborativo, che all’intuizione fulminante univa un rigoroso senso del metodo. Procedeva, come in un laboratorio alchemico, con meticolosa sistematicità, sconosciuta ad altri compositori: sperimentava, aggiungeva, tagliava, studiava dal vivo l’effetto sul pubblico, per poi ritentare altre soluzioni (perfino la scansione regolare della giornata – dalle 7 a mezzogiorno, la composizione; nel pomeriggio la revisione; alla sera concerto – sottolinea la volontà metodicità del suo procedere creativo).

Toccheremo con mano, nel nostro caso, la benefica influenza del soggiorno presso i protettori Esterhàza. Un centinaio di Sinfonie composte nell’arco di un trentennio; un grande numero, fra queste, arricchite (o impoverite) da un soprannome ricevuto nel corso della vita terrena, quasi mai conferito dall’autore (e pertanto fonte di confusione in quanto spesso non corrispondenti alle intenzioni originali). E’ il caso delle tre Sinfonie concatenate (n.44, n.45 e n.49), riunite da sempre in una trilogia simbolica: composte a breve distanza l’una dall’altra, impostate tutte e tre in una tonalità minore, affini come spirito generale, accompagnate da un sottotitolo. Individualizzate, certo, ma come racchiuse in uno stesso imballaggio.
Sul piano della fabula, la n.45 – ricordata da sempre come la “Sinfonia degli addii” – riposa più di altre compagne su di un apparato leggendario di grande fascino e comunicazione. Lasciamo raccontare da uno dei più vecchi biografi di Haydn: “Il principe Esterhàza, in estate, aveva l’abitudine di spostarsi in un castello da lui fatto costruire, che amava più di ogni altra residenza; e la corte, al completo dei musici fidati, doveva accompagnarlo in questa colta ed amabile vacanza. Ma il castello, in quegli anni, non era ancora terminato e per di più arredato in modo approssimativo; non adatto ad una confortevole sistemazione dei musicisti. Giovani, irrequieti, lontani dalle loro spose, questi orchestrali passavano i mesi estivi con la sola “fissa” di arrivare all’ultimo mese, all’ultimo giorno, all’ultima ora. Nel 1771 l’egoismo bulimico di Nikolaus lo spinse a richiedere un prolungamento del soggiorno di due mesi. Un ordine che gettò i giovani nello sconforto, nell’irritazione; ordine che fu ribaltato, per ottenerne la “grazia”, al direttore-compositore Haydn. Come dice l’Adagio “L’uomo di talento sa uscire – magari attraverso soluzioni di spirito – da qualsiasi empasse”, Haydn accettò la sfida e, chiesto aiuto alla “musa del buon soccorso”, si mise a scrivere una nuova Sinfonia per il Principe”.
Nel corso della serata di presentazione, Nikolaus sorseggiava con gioia sopraffina quest’ultima-nata; quando si arriva ignari al movimento conclusivo. Nel bel mezzo del brano, ecco che un orchestrale raccoglie note, strumento e partitura; spegne la candela che illumina il leggio e in silenzio se ne esce dalla sala. Poche battute e un secondo musicista termina di suonare, stessi gesti ed esce guardingo. E’ la volta di una terza parte; e via così: tutte le candele si spengono e tutti i musicisti, uno dopo l’altro, strumento sotto braccio, “fanno i fagotti”. Immaginabile lo stupore del principe e dei suoi invitati. La penultima persona che lascia il leggio è Haydn in persona; per cui resta un violinista, la spalla, certo Luigi Tommasini, a chiudere da solo il movimento. Trovata geniale. Ed eccoli tutti in anticamera, tra commenti, mezzi-sorrisi, sguardi d’intesa. Qualche ombra di sospetto; allorquando il principe, sornione, dice ad Haydn: “ Ho capito, ho capito: i ragazzi possono partire domani…”

La storia, per piacevole che sia, è probabile abbia tasselli di fantasia o suggestione. Ma resta comunque, per l’eternità, l’appellativo abbastanza azzeccato di “Sinfonia degli addii”, conferitole proprio in onore di quella strampalata “soluzione teatrale”.
Dal punto di vista della struttura e dell’inclinazione d’umore, la Sinfonia si apparenta con le sorelle coeve. Quattro i movimenti. Un Allegro d’apertura (privo dell’Adagio introduttivo tanto caro ad Haydn), tramato in una tonalità minore – un minore comunque temperato e non desolato – caratterizzato da un tema acceso (profilo singolare: come attirato verso il basso dalla forza di gravità), che ricorda la vivezza di certe pagine sinfoniche del giovane Mozart. Si fa notare che non esiste praticamente il secondo-tema: dopo lo sviluppo, il materiale che si affaccia – sospiri e “suppliche” dei primi violini, pause, poi un tema a due voci “romanzato” – non ha la fisionomia di un vero secondo-tema; e la conseguente ripresa dell’inizio ri-sottolinea la volontà dell’autore di economizzare il secondo spazio di coscienza. La Sinfonia procede con un Adagio soave (incantevoli le sonorità dal sapore quartettistico), nel quale si annida, tra tanti punti di sospensione, il profilo di un canto gregoriano Incipit lamentio (un “gregoriano” comunque affettuosizzato, alla Haydn; rincuorato dal soffio tiepido dei corni); procede attraverso un Minuetto beffardo, che si concede qualche “stonalità” sarcastica. E si chiude col famoso Finale: un Presto caratterizzato in tutto il suo corso da convinti unisoni degli archi, espediente che infonde un’impronta di forza e benessere.
Poi il dialogo degli strumenti che si salutano mentre, poco a poco, si spengono le candele.

SINFONIA-OUVERTURE DA “LO SPEZIALE” di Joseph HAYDN
Nel mare delle sinfonie haydniane (che superano il centinaio) convivono alcune esperienze teatrali: decisamente “minori” – forse anche per la loro destinazione più mondana ed effimera – quanto a genio, innovazione, ironia. Quasi tutte giustiziate dalla storia: rimangono, ancora eseguite, seppur raramente, “Il mondo della luna”, “Le pescatrici” e “La fedeltà premiata”. Prima delle tre esperienze goldoniane di Haydn, “Lo speziale” venne corredato di musica in una forma assai mutata rispetto al libretto di Goldoni Un anonimo drammaturgo locale (forse quel Carl Friberth autore, sette anni più tardi, del libretto per l’”Incontro improvviso”) scarnificò il dramma originario, arrivando ad eliminare tutte le parti serie – ben tre su sette protagonisti -, forse anche per i limiti oggettivi della compagnia orchestrale a Esterhàza: riuscendo comunque a lasciar intatta la fresca impronta del testo goldoniano e la vivace scorrevolezza dei dialoghi (classica commedia degli equivoci e delle seduzioni – Grilletta ambita da più spasimanti – con il corredo tipico di turchi-mascherati e notai-smascherati).
La scena (per quanto riguarda la composizione) si svolge in Ungheria nell’autunno del 1768; nello scenario di un casino di caccia a Fertod, di proprietà della famiglia Esterhàzy. Il principe Nicola aveva in programma di ricevere notabili ungheresi e viennesi, invitati a prender parte all’inaugurazione di questa “piccola Versailles ungherese” (residenza stravagante e ancor più stravagantemente restaurata, che comprendeva un piccolo teatrino d’opera). E’ noto che il Kapellmeister Haydn era al servizio (“servizio illuminato”) presso questa famiglia; e a lui fu affidata l’ideazione di un dramma giocoso per illuminare quella brillante occasione. Contento Haydn (“ Nessuno mi creava dubbi e tormenti; per questo ho potuto diventare originale…”); contento il Principe Nicola (“Mai una delusione dall’amico Haydn”); contenta perfino la difficile Maria Teresa (“Quando ho voglia di ascoltare un’opera bella, vado di corsa a Esterhàza”).

Ma come molte opere di Haydn, anche “Lo speziale” non ebbe uno stabile riscontro di successo e di box-office appeal. Solamente sei recite nell’ambito delle feste degli Esterhàzy; due proposte in Germania con testo tedesco; poi la polvere, per tutta la durata della vita del compositore. Influì anche il fatto che l’opera – già a quei tempi – era sopravvissuta in forma incompleta (e ancora oggi parte del terzo atto non risponde all’appello).
L’opera imbocca la strada dell’operina graziosa e buffa, tutta “smorfie, grazie e brio” (sic). In qualche brano prende quota: più ancora che nelle Arie solistiche, la si ricorda per qualche esilarante escursione nel mondo (musicale e lessicale) della “turcherie” in voga (vedi l’Aria “Salamelica, semprugna cara, Constantinupola”); diventa vibrante nei Finali a più voci; e soprattutto riluce nella Sinfonia-Ouverture che ascoltiamo in questa sede. Dignitosissima annunciatrice dello spettacolo, l’Ouverture proietta l’ascoltatore in medias res: festosa, scintillante, bella “piena” (nonostante l’organico abbreviato, quello tipico delle “corti”; anche se Haydn, pare, avesse chiamato a raccolta tutti le voci e gli strumentisti disponibili, perfino i fiati della banda locale!). Qualche inoffensivo rannuvolamento non turba l’imprinting positivo: un incedere effervescente da vera Ouverture, che racchiude al suo interno, a conchiglia, una melodia dal respiro soave e cullante di un’aria vocale.

Si segnala che “Lo speziale” è stata la prima opera di Haydn ad essere rappresentata in tempi moderni: nella versione tedesca venne diretta con successo da Gustav Mahler all’Opera di Vienna nel 1899.

Il Cast

Direttore: Michele Mariotti*
Pianoforte: Luca Buratto*
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali