Ciclo Beethoven - I Pomeriggi Musicali - Teatro Dal Verme

Le date

Sala Grande
giovedì 10 gennaio 2008
Ore: 21:00
sabato 12 gennaio 2008
Ore: 17:00

a cura di Edgar Vallora

BEETHOVEN – SINFONIA n.1 Op.21
La fama universal-popolare di Beethoven è soprattutto legata al corpus, trasformatosi col passare dei secoli in una entità quasi mitologica, delle nove Sinfonie. Fu in effetti attraverso questo monumento, considerato nella coralità di opera ciclica più che nell’individualità delle singole opere, che si impose il rivoluzionario messaggio beethoveniano nella sua forma più vistosa e incisiva. L’affermazione di un’inedita posizione di compositore “impegnato” non avvenne – questo è chiaro – attraverso la palestra delle prime Sinfonie, ancora sensibili ad una texture, psicologica e compositiva, tradizionale (a volte perfino in regressione rispetto a creature ribelli come la Sonata per pianoforte Op.10 o la “Patetica” Op.13). Solamente a partire dalla Terza, la simbolica “Eroica”, la sinfonia divenne il “veicolo espressivo per eccellenza dell’arte beethoveniana, la forma artistica ideale nella quale – così scrive Carli Ballola – si potevano incarnare quegli ideali di universalità umanitaria e di redenzione spirituale” che Beethoven, da sempre, ha tentato di esprimere.

Beethoven attese molti anni prima di affrontare il campo sinfonico (esistono abbozzi, è vero, della cosiddetta “Sinfonia di Jena”, risalenti agli anni 1794-‘95 e scoperti solo nel Novecento, ma si tratta di un saggio non significativo): un genere, quello sinfonico, considerato terreno di sperimentazione più stimolante e avventuroso che non il concerto per pianoforte, associato ad un intrattenimento più frivolo e salottiero. L’autore iniziò la sua prima Sinfonia nel 1799 e la completò nel corso dell’anno 1800 (raramente le composizioni di Beethoven nascevano compatte, quanto a concezione e stesura, ma venivano perfezionate in tempi sensibilmente separati).

La critica, in genere, si è infervorata nel sottolineare il “peso dei debiti” che Beethoven contrasse nei riguardi dei maestri viennesi, in particolare di Haydn e Mozart (a partire dal tranchant giudizio della Allgemeine Musikalische Zeitung, rivista viennese del tempo: “In fondo si tratta di Haydn, spinto dalla bizzarria fino alla caricatura, ma sempre di Haydn si tratta!”); mentre solamente nel Novecento è stato messo a fuoco quanto oggettivamente Beethoven attinse e assimilò dalla tradizione sinfonica. L’affermare infatti, come la critica dell’Ottocento ha sempre sostenuto con disinvolta faciloneria, che Beethoven abbia creato tali opere “all’ombra di Haydn e di Mozart” suona limitato e riduttivo. In realtà il compositore, rendendosi conto che la perfezione di quei modelli era difficilmente raggiungibile, tentò nuove strade, irte di insidie: una delle ragioni del ritardo nell’affrontare la sinfonia dopo aver padroneggiato, attraverso il pianoforte, ben altre arditezze.

La Prima può esser comunque considerata un inchino – più o meno pilotato – al mondo di Haydn: dalle prime battute dell’Adagio d’apertura, minuscolo capolavoro di “tattica preparatoria” (tecnica amata e utilizzata da quel maestro), al ruvido e vigoroso tessuto tematico dell’Allegro; dalla serena corposità dell’Andante (le cui figure ritmico-ostinate sembrano ammiccare alla Sinfonia “L’orologio”), alla vitale giovialità dell’ultimo tempo. Con il suo timbro di impazienza ed esuberanza, con i suoi tratti estroversi e comunicativi, anche nel Finale appare un omaggio al maestro viennese: omaggio che si palesa nell’adozione di un altro breve Adagio quale eccentrica introduzione alla Finalmusik. Quanto al Minuetto – incastonato tra Adagio e Finale – è ritenuto il punto più nuovo e personale della Sinfonia, non soltanto per l’invenzione melodica ma per i procedimenti strutturali che già lo rendono simile ad uno Scherzo romantico.

In conclusione: se innegabile appare l’assimilazione del linguaggio classico viennese, è indubbio che, già in questo primo saggio, prendono forma alcuni tratti che caratterizzeranno le Sinfonie giovanili: il rassicurante impianto tonale, l’assenza di sperimentalismi troppo spinti, la ricerca dell’ampliamento armonico negli sviluppi, l’estensione dei movimenti, l’accentuazione rustica di certi incisi, l’attrazione per alcuni effetti appariscenti.

La Sinfonia venne dedicata al barone Van Swieten, l’appassionato musicofilo che abbiamo già conosciuto nella storia di Mozart. In realtà l’Op.21 era stata concepita per il principe elettore Max Franz, che aveva generosamente aiutato il compositore; poi, dato che prima del completamento dell’opera l’elettore morì, Beethoven cambiò l’intestazione della dedica a favore del barone Van Swieten, una delle più influenti conoscenze viennesi, amico di Haydn e Mozart, direttore della Biblioteca Imperiale.

La Sinfonia venne eseguita per la prima volta il 2 aprile 1800, alla simbolica presenza del vecchio maestro e amico Haydn.

CARTER – DIALOGUES per pianoforte e orchestra
Grande compositore statunitense, Elliott Cook Carter Jr. è nato a New York nel dicembre del 1908: e il 2008, dunque, è l’anno del suo celebratissimo centenario.

Seguendo l’incoraggiamento di Charles Ives, Carter iniziò gli studi di composizione presso l’Università di Harvard (insegnanti Walter Piston e Gustav Holst); quindi scelse Parigi sotto la guida sapiente di Nadia Boulanger. Rientrato negli Stati Uniti nel 1935, ottenne una prima carica quale direttore di una compagnia di balletto (il famoso Ballet Caravan); dedicandosi in seguito – tutti i geni sono “speciali” – all’insegnamento, ma alternando cattedre di musica e fisica, di matematica e… greco antico! Negli anni a venire si snoda una serie di cariche da far impallidire: docente di composizione presso il Peabody Conservatory (1946-1948), la Columbia University, quindi il Queens College di New York (1955-1956), la Yale University (1960-1962), la Cornell University (dal 1967 in poi), per finire alla leggendaria Juilliard School (dal 1972).

Membro dell’American Academy of Arts and Letters, nel 1960 e nel 1973 gli venne assegnato il Premio Pulitzer.

I primi lavori di Carter denunciano chiare influenze di Igor Stravinskij e possono dunque rientrare nella cosiddetta “estetica neoclassica”. Lunghi e severi studi contrappuntistici lo accompagnarono dalla polifonia medioevale fino al linguaggio stravinskijano; e questo lo si può notare soprattutto nei lavori giovanili, come nel Balletto Pocahontas (1938). Le composizioni nate nel periodo della seconda guerra mondiale sono chiaramente diatoniche, e si concedono parentesi distensive di ampio lirismo, che può ricordare quello di Samuel Barber (nelle pagine vocali è sempre garantita una perfetta intelligibilità del testo cantato, all’interno di una struttura “semplice”). La musica composta dopo il 1950 (curioso che Carter abbia liquidato il neoclassicismo più o meno nello stesso periodo in cui lo superò Stravinskij) è invece tipicamente atonale, caratterizzata da un’alta complessità ritmica (fu proprio a proposito di questa personale struttura che venne coniato il termine “metric modulation”, ad indicare le ostinate mutazioni di ritmo).

Tra i capisaldi della produzione di Carter vanno ricordate le Variazioni per orchestra (1954-1955), il Doppio concerto per clavicembalo, pianoforte e due orchestre da camera (1959-1961), il Concerto per pianoforte (1967), nato come omaggio per l’ottantacinquesimo compleanno di Stravinskij, la Sinfonia per tre orchestre. Fondamentali i cinque quartetti per archi (due dei quali ottennero il Premio Pulitzer); e la Sinfonia “Sum fluxae pretium spei” (1993-19965), il suo lavoro orchestrale più complesso, affascinante per l’aperto contrasto fra i livelli timbrici strumentali, dagli impalpabili assolo dei fiati ai laceranti fortissimo con percussioni in primo piano.

Venendo a Dialogues, la composizione presentata in questa sede (composta a New York lungo l’anno 2003), si tratta di una sorta di “conversazione” tra pianoforte solista – “virtuoso and versatile” – e la compagine orchestrale: entità che si rispondono, dialogano, si interrompono, discutono. Con la partecipazione di tutti: da un fagotto “gradasso”, agli archi infiammati, al corno inglese col suo respiro lirico-melanconico. Eccelsi i momenti in cui le armonie proposte dal pianoforte vengono riprese “ad eco” dall’orchestra, superba l’accesa àcme del finale.

Come è abitudine nelle scelte compositive dell’autore, il la costruzione del brano ha origine da un piccolo nucleo di armonie e ritmi: quasi sempre, nel mondo cartesiano, l’edificio poggia le basi su di un solo accordo-chiave o una serie di accordi.

L’opera fu commissionata dalla BBC, e vide la prima esecuzione con Nicolas Hodges al pianoforte e Oliver Knussen sul podio.

BEETHOVEN – MEERESSTILLE UND GLUCKLICHE FAHRT (Bonaccia e viaggio felice) Op.112
La Cantata – importante soprattutto perché costruita su un testo di Goethe (in realtà due poesie staccate) – risale al 1815, periodo del Congresso di Vienna; venne eseguita nel giorno di Natale dello stesso anno, in un programma che comprendeva anche l’Oratorio “Cristo sul Monte degli ulivi” Op.85 e l’Ouverture Op.115.

Si tratta di un “brano pittoresco” attraverso il quale Beethoven descrive una “bonaccia” che impedisce la partenza per mare, fino al levarsi di una brezza portafortuna, al ché il viaggio può felicemente iniziare. Attento agli elementi descrittivi suggeriti dal testo (“la tranquillità delle acque – specifica Herriot –, l’oceano che dorme, la tempesta in agguato, gli squarci delle nubi, il cielo che si illumina, la terra intravista”), Beethoven non trascura fenomeni più astratti e metafisici: esempio ne sono gli insistenti accenti del coro sulle note tenute dagli archi, quale espressione della opprimente assenza di vento; o, nella seconda parte, la rapida barcarola che vuol suggerire l’idea del viaggio in mare, facendo da contrappunto alla staticità del primo episodio.

Interessante il commento di Solomon, grande critico beethoveniano: “Si tratta di un piccolo capolavoro di pittura sonora, che tratta uno dei soggetti preferiti da Beethoven – tranquillità permeata da agitazione bloccata, che si dissolve alla fine in un tripudio gioioso –, e che ricorda, nei timbri e nel carattere, il Finale della Nona. Ci è utile per dimostrare come le opere del periodo del Congresso non avessero intaccato il nucleo dell’integrità musicale beeethoveniana”.

La Cantata vede la luce due anni dopo l’incontro di Beethoven e Goethe a Teplitz, incontro all’inizio pieno di esaltazione, poi sbriciolatosi nel nulla. Il rapporto fra i due grandi, infatti, non ebbe seguito fino al 1823, quando Beethoven, ormai malato e fortemente angosciato, scrisse un’accorata lettera a Goethe. Uno stralcio può essere illuminante per indagare la non-facile psicologia del nostro, aggressiva di fondo ma spesso “servile” coi potenti

“Eccellenza! Vivendo ancor oggi, come negli anni della giovinezza, accanto alle Sue opere sempre giovani e immortali, e non potendo dimenticare le ore felici passate accanto a Lei, sento il bisogno di richiamare la mia figura alla Sua memoria. Spero che Sua Eccellenza abbia ricevuto e gradito la dedica di Meeresstille e di Gluckiche Fahrt, da me musicate. Quanto ci terrei a sapere se, a Suo giudizio, ho unito bene la Sua alla mia armonia! Il Suo giudizio lo considererei come verità assoluta! (…) L’ammirazione, l’amore, l’altissima stima che nutrivo fin da giovane per l’immortale, unico Goethe, sono rimaste intatte: sentimenti che non possono essere espressi a parole, specialmente da un imbrattacarte par mio, uno che non ha saputo pensare ad altro se non a conquistare dei suoni. Ma un sentimento mi spinge a rivolgermi a Lei. Sono certo che non mancherà di adoperarsi per un artista che ha vissuto sapendo quanto il guadagno sia lungi dall’arte. La visione del bene è sempre dinanzi ai nostri occhi, e sono sicuro che Sua Eccellenza non respingerà la mia preghiera di aiuto. Una Sua parola darebbe all’animo mio un senso di completezza e beatitudine. Con la più illimitata stima, Beethoven”.

Goethe non si degnò nemmeno di rispondere.

Ed ecco uno stralcio dalle due liriche di Goethe.

“Calma fonda sopra l’acque,

senza moto riposa il mare,

(…) nell’immensa lontananza

non un’onda che si muova.

 

Le nebbie si lacerano

Il cielo si schiarisce (…)

La meta si avvicina,

già la terra è in vista”.

 

BEETHOVEN – FANTASIA per pianoforte, coro e orchestra Op.80
Singolare. Singolare per il sottotitolo (Fantasia, lusinga amichevole”), per l’organico (dal programma originale: “Fantasia per pianoforte che termina gradatamente con l’intervento dell’orchestra e, nel Finale, del coro”); singolare per la concezione sperimentale (unione di musica e di testo cantato) e per il suo particolare messaggio (l’idea della “collaborazione” capace di trasformare il mondo attraverso la simbolica, progressiva entrata degli strumenti).

La Fantasia fu composta nel corso dell’autunno 1808 (immediatamente dopo la “Pastorale”, terminata alla fine di quella estate) e concepita espressamente per l’importante concerto che si doveva tenere a Vienna il 22 dicembre. Pare che, all’atto di mettere a punto il programma, Beethoven avesse deciso di spostare l’esecuzione della Quinta nella prima parte del concerto, determinando in tal modo un “vuoto” nella seconda parte della serata. Per questo – è l’allievo Czerny a testimoniarlo – il Maestro pensò di arricchire la serata con un pezzo brillante: ripescò una vecchia romanza composta anni prima, ne ideò della variazioni, aggiunse una parte corale e, a quel punto, chiamò un poeta a scrivere di tutta fretta le parole.

I versi – sei strofe sul tema dell’Amore e della Forza – furono in effetti apprestati per l’occasione da un poeta viennese, certo Christoph Kuffner, segretario di Corte, violinista dilettante e poeta. Di grande importanza è la conversazione tra Kuffner e Beethoven, riportata nei Quaderni di conversazione, durante la quale i due personaggi si scambiarono le loro opinioni su letteratura, filosofia e politica: dedicando particolare attenzione alla “misteriosa potenza espressiva” del suono.

Non solo la concezione generale ma soprattutto l’elaborazione tecnica procurò all’autore sofferenze fuori dal comune: Beethoven tentava infatti – per la prima volta e di conseguenza in termini sperimentali – di affrontare l’insidioso innesto di un elemento corale su un tessuto sinfonico. Forgiata nell’inevitabile Do minore, la Fantasia si presenta con un’autorevole Introduzione, di grande tensione e di tenebrosa eloquenza (un’eloquenza – puntualizza Carli Ballola – tra funebre e cavalleresca, che fa presagire quasi Listz”). Dopo l’entrata degli archi in punta di piedi, il pianoforte fa ascoltare, nello spirito beethoveniano dell’improvvisazione, il tema delle variazioni (la scelta del répechage di un suo vecchio Lied sta a indicare, non fretta o sciatteria, ma l’interesse dell’autore verso quella pagina specifica: il motivo riapparirà ancora, trasformato, nell’Ode alla gioia” della Nona).

Inizialmente debole e insicuro, il tema si sottopone a un processo di variazioni (cinque variazioni “ordinarie”, cinque “ampliate”), prima in forma concertante tra pianoforte e orchestra, poi concedendosi al flauto, all’oboe, al clarinetto e al quartetto d’archi. Sempre al pianoforte è riservato l’onore di introdurre la pagina corale conclusiva, avvalendosi per l’ultima volta di quel motivo popolare, animato di vapori massonici, così caro a Beethoven. Aiutata a quel punto dalla scansione vigorosa dell’insieme orchestrale, la “piccola” melodia si trasforma nel grande simbolo della musica, “arte sacra ed eccelsa, madre dell’amore dei mondi”.

La Fantasia fu dedicata al re Massimiliano Giuseppe di Baviera ed eseguita nello storico e ciclopico concerto del 22 dicembre 1808 (la vastità del programma, di cui lo stesso Beethoven era l’interprete al piano e sul podio, rappresentava una vera e propria sfida. E’ vero che il pubblico era abituato, in quell’epoca, a concerti ben più lunghi e sostanziosi dei nostri: ma nessun musicista aveva mai preteso un simile impegno dagli ascoltatori e dagli esecutori).

Le difficoltà si manifestarono fin dalle prove, durante le quali Beethoven litigò con la cantante Anna Milder (che abbandonò il teatro e dovette essere sostituita) e poi con l’orchestra, che evidentemente si ribellava ai metodi bruschi con cui il Maestro suppliva la scarsa esperienza di direttore. Il concerto pubblico, poi, sfiorò il disastro. La versione di Beethoven: “Alcuni strumenti avevano contato male le battute d’attesa e, se li avessi lasciati proseguire, avrebbero provocato insostenibili dissonanze. Per questo interruppi coraggiosamente la Fantasia e ripresi da capo”. Mentre l’allievo Siefried, forse più obiettivo, rettifica: “Alle prove Beethoven aveva eliminato il ritornello. Poi, durante il Concerto, troppo preso dalla esecuzione pianistica, ripeté la prima variazione mentre l’orchestra attaccava la seconda: un vero finimondo!”.

Stralcio dal testo:

“Carezzevoli, dolci e amabili suonano

le armonie della nostra vita,

e dalla bellezza s’espandono

fiori che sbocciano in eterno. (…)

Se insieme si fondono amore e forza

La grazia degli dèi premierà l’uomo”.

Il Cast

Direttore: Antonello Manacorda
Direttore del Coro: Marco Berrini
Pianoforte: Llyr Williams
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali
Orchestra: Ars Cantica Choir