Le date
Programma di sala: a cura di Edgar Vallora
HAYDN – SINFONIA n.44
Come è noto, l’immenso corpus delle Sinfonie haydniane generalmente viene – proprio perché immenso – suddiviso in blocchi (o periodi): che, a parte la scannerizzazione cronologica, rispecchiano differenti moods e stili compositivi (con le “scorrettezze” proprie delle categorie, essi vengono così indicati: periodo italiano, barocco, romantico, classico, francese, inglese). Come è evidente anche a prima vista, sottolineano la localizzazione geografica relativa ai soggiorni del compositore in paesi straniere.
Sono una ventina le Sinfonie accorpate nel “periodo romantico”, e fra queste la n.44, eseguita questa sera, che risale al 1771.
Dicono che lo Sturm und Drang haydniano permei le opere nate negli anni 1771-72: uno spirito davvero innovativo che, unendosi alla superba padronanza tecnica ormai raggiunta dal compositore, fa decollare questo gruppo di Sinfonie (soprattutto quelle comprese fra la n.42 e la n.65), elevandole nell’empireo delle pagine “più perfette e avanzate dell’epoca”. Licenziato il clavicembalo, prima comprimario delle Sinfonie haydniane, è l’orchestra ad assumere una fisionomia più marcata e personale, con la valorizzazione dei fiati, non più utilizzati al solo scopo ornamentale ma oramai espressivo. In altre parole: una nuova veste strumentale al servizio di un contenuto apertamente drammatico. Si tratta di Sinfonie “di carattere”, contraddistinte da Allegri ribelli, da Finali impetuosi, da Adagi introspettivi (in uno spettro completo, dal melanconico al triste, al funereo. Non peraltro il sottotitolo della Sinfonia n.44 è proprio “Funebre”): al punto che molti commentatori, al cospetto di tanta tensione (come nel primo tempo della n.42 o della n.44), avvertono “l’insostenibilità” che sarà propria di “certe” pagine di Beethoven. Modulazioni e cromatismi ormai gettano ombre di inquietudine, come a voler mettere a soqquadro la cornice di un Settecento idillico e inoffensivo.
Venendo alla Sinfonia n.44, non si conosce né l’occasione mondana per cui fu composta, né l’inventore del sottotitolo (non di certo l’autore), né il motivo per cui tale attributo fu appioppato ad un’opera, impegnata sì, ma tutt’altro che funerea o lugubre. Probabilmente il “fregio” è cda collegarsi ad un dato biografico: molti anni dopo aver composto la Sinfonia, pare che Haydn avesse ricordato l’Adagio “con commozione e nostalgia” ed espresso il desiderio di “volerlo come accompagnamento ai propri funerali”. Il desiderio non fu realizzato, ma se ne tenne conto nel settembre del 1809, a Berlino, quando tale Adagio fu inserito fra le opere scelte per un concerto commemorativo, pochi mesi dopo la morte del compositore.
La Sinfonia si apre con un Allegro, dove la grinta e la potenzialità espressiva lanciano i primi ponti verso il sentire beethoveniano. Il motivo d’apertura – quattro note fiere e determinate – è volontariamente disadorno, come “il frontespizio di un poema musicale che non appartiene più al razionale Settecento ma al secolo del sentimento”. Quindi Haydn inserisce – eccezione alla regola – un Allegretto in seconda posizione (in realtà un vero e proprio Minuetto, trattato come canone all’ottava, affidato – a distanza di una battuta – agli archi e poi ai violoncelli): evidentemente per meglio bilanciare l’opera, separandone i centri emotivi con una zona di respiro. (Scelta singolare: che stupì non poco perfino gli editori che, scambiandola per svista, ripristinarono l’opera nell’assetto della tradizione). A questo punto appare il movimento lento, uno dei primi grandi Adagi haydniani, riflesso di un animo triste ma al contempo non privo di speranza e fiducia. La melodia di base conquista l’ascoltatore per la sua purezza metafisica, di profumo haendeliano (che va a rafforzare altre compiacenze arcaiche: come i ritmi puntati e le continue terzine); ma un progressivo crescendo la rapisce, per riportarla infine nello stato di grazia iniziale.
Contraltare del primo tempo è un “furibondo” Finale (aggettivo dello stesso Haydn), che rimarca la tensione del primo movimento attraverso un serrato svolgimento tematico (su di un solo motivo ma accompagnato in funamboliche evoluzioni). Non solo gli archi sono impegnati in questa tenzone: anche gli oboi e i corni concorrono a sostenere l’incandescente temperatura, conferendo alla pagina uno spessore ignoto ai garbati Finali delle prime Sinfonie.
BEETHOVEN – CONCERTO n.2 per pianoforte e orchestra OP.19
Se numericamente il Concerto Op.19 risulta essere il secondo Concerto per pianoforte (dopo l’Op.15), in realtà fu il “primo” ad essere stato composto. Le tappe dell’elaborazione dell’Op.19 sono comunque complesse e diluite nel tempo, anche perché collegate all’attività concertistica che Beethoven affrontava parallelamente: il compositore decise infatti di scrivere dei Concerti ogni volta che gli si presentarono concrete occasioni di intraprendere la carriera di solista (così, se Mozart aveva composto una valanga di Concerti, quelli di Beethoven seguirono invece una strategia “prudente”, “necessaria” ed “esattissima”).
IL Concerto fu iniziato nel 1794 e terminato nel 1795. Venne presentato al Burgtheater nel marzo di quell’anno sotto la direzione di Antonio Salieri e con l’autore al pianoforte; mentre nel dicembre 1795 il concerto, grazie al successo raccolto, fu replicato, e questa volta con Haydn sul podio (innesti dal sapore sbalorditivo!).
Poi la seconda tappa del Concerto. Due anni dopo, nel 1798, durante il soggiorno del compositore a Praga, la partitura subì un pesante rimaneggiamento, con l’integrale sostituzione dell’ultimo movimento; e nel 1801, in aprile, apparve infine la stesura definitiva (quella che ascoltiamo oggi, differisce dunque dalla versione originaria). In questa nuova veste il Concerto venne eseguito a Praga e dedicato a Nicklas Edler von Nickelsberg, funzionario della corte imperiale.
La terza ed ultima tappa riguarda la stesura delle cadenze. Inizialmente lasciate all’improvvisazione dell’esecutore, le cadenze furono poi “fissate su carta” (Beethoven) in un tempo ancora successivo, tra il 1808 e il 1809.
Venendo all’aspetto musicale di quest’opera, va detto che tutti i “testi sacri” sottolineano l’influenza di Mozart e degli epigoni mozartiani. Se esistono – come è logico – inconfondibili tratti beethoveniani (la condotta degli sviluppi, le modulazioni già ardimentose, le prime tempeste emotive) inequivocabilmente mozartiana appare ancora la struttura dell’Allegro d’apertura, ubbidientemente diviso tra un primo tema ritmico e un secondo melodico. Lo stesso vale per il movimento che segue, un Adagio in forma sonata, che risente degli influssi di un classico lento mozartiano: un brano di autentico lirismo nel quale, però, il pianoforte incarna ancora una funzione “decorativa”, senza l’imperioso dominio che agguanterà nelle successive partiture solistiche. Solo il Rondò definitivo (composto, così vuole la leggenda, un una sola notte), pur nella sua impareggiabile semplicità, presenta aspetti brillanti e seduttivi, mescolati a graffi di humor ancor sconosciuti; e preludia quella che sarà l’impronta dei finali beethoveniani.
(Il Rondò ripudiato fu invece pubblicato come pagina isolata nel 1825: la revisione venne affidata al compositore-pianista Carl Czerny, il quale riscrisse completamente la parte del pianoforte. Questo Finale viene a volte eseguito come pezzo isolato).
Chiosa del critico Tranchefort: “ Il Concerto Op.19 rimane il meno amato fra i cinque fratelli: il meno maturo, il più esitante. Ma ha un suo invidiabile carattere vincente: il naturale contrasto fra certezze esteriori e un sentimento di contemplazione più interiore e interrogativa”.
L’immancabile aneddoto. Secondo l’allievo Wegeler il Concerto fu terminato a poche ore dal debutto, per cui nell’anticamera dell’appartamento di Beethoven stazionavano ininterrottamente quattro poveri copisti ai quali l’autore porgeva (“gettava”) il manoscritto, foglio per foglio. E, sempre secondo la leggenda, Beethoven dovette suonare la propria parte trasportandola seduta stante in Do diesis maggiore: essendosi accorto durante “la” prova che il pianoforte era accordato un mezzo tono sotto.
MOZART – SINFONIA n.29 – K201 (K 186a) – Sinfonia “a mezza orchestra”
Il periodo salisburghese, compreso fra il marzo 1773 e il dicembre 1774 (che coincide con la data di inizio del viaggio a Monaco) non offre notizie biografiche che aiutino a far luce sull’evoluzione del percorso artistico di Mozart; ancora una volta è l’analisi delle composizioni a delineare i contorni della sua maturazione artistica e del sentiero da lui seguìto. Dopo il gruppo delle Sinfonie salisburghesi (così riordinate cronologicamente: K184, K199, K166, K.181, K.181, K.182 e, gemma isolata, la K.183) appare nel 1774 un nuovo terzetto di composizioni sinfoniche.
Incastonata fra due compagne dalla personalità più sbiadita, la Sinfonia K201 riprende le conquiste stilistiche della K.183; ed è considerata dalla critica – grazie alla sua variegata offerta di elementi scontrosi, estrosi, tenebrosi – un significativo “segnale di transizione” fra lo stile haydniano e quello “galante”, che caratterizzerà le opere di Mozart sino alla partenza per Parigi.
Suggestiva l’immagine di Giorgio Pestelli: “In quest’opera lo stile galante è superato, ma dall’interno, con tecnica omeopatica, spingendolo a estremi di squisitezza melodica, di sofisticazione tematica e di fascinosa sensualità di combinazioni”. Si noterà, fin dal primo all’ascolto, come Mozart punti sullo sviluppo del materiale tematico senza lasciarsi assorbire, come nel periodo italiano, dall’imperturbabile bellezza delle melodie.
Quanto all’impalcatura della Sinfonia è interessante prestare attenzione al legame (affinità spirituale e parentele tematiche) che collegano, pur all’interno di un’omogenea volontà costruttiva, il primo e l’ultimo movimento, e il secondo con il terzo.
Un cenno all’impronta unica e inconfondibile dell’Allegro, così ricco di trapassi di tonalità: il cui tema (quel singolarissimo profilo che ricorda, trasportato in grafica, il tracciato di un elettrocardiogramma) è giustamente divenuto popolare, uno dei simboli della musica di Mozart. Un cenno all’Allegro finale, pagina dal tono sereno, a tratti parodistico, che corre verso una coda impetuosa (chiusa da un arpeggio che, alla moda di Haydn, resta sospeso nel vuoto).
Ma dove l’attenzione emotiva di Mozart sembra concentrarsi è nel binomio centrale: nell’Andante che, per qualità del materiale tematico – un continuo sbocciare di controcanti, talvolta così rilevanti da acquisire l’importanza di soggetti indipendenti – ha lo spessore un grande Adagio contemplativo; e nel terzo movimento, uno dei Minuetti più personali e meno “cortigiani” di Mozart. Anche la conclusione di questo brano è unconventional: una burbera fanfara dei corni e degli oboi, sul tema del Minuetto ormai ridotto alla sua ossatura ritmica.
Nonostante il padre Leopold considerasse queste Sinfonie con il metro salisburghese (“Per quanto tu possa essere stato contento scrivendole, (…) io sarei ben lieto che nessuno le avesse ascoltate e che nessuno le ascolti mai”… Complesso di Laio?!), si suppone che Mozart non fosse stato sbilanciato da questo infelice commento. Si sa con certezza che, ancora nel periodo viennese del 1781, Wolfgang le proponeva a cuor leggero nelle sue Accademie.
Il Cast
Direttore: Stefan Solyom
Pianoforte: M° Stephen Kovacevich
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali