Le date
Il programma di Sala:
a cura di Edgar Vallora
BEETHOVEN – CONCERTO (n.4) per pianoforte e orchestra Op.58
Abbozzato tra il 1802 e il 1803, in parallelo all’infiammata stesura dell’”Eroica” (e per questo intesa da molti critici come la controparte “femminile” di quel ruvido titano), il Concerto Op.58 fu portato avanti nel 1805 e chiuso nel 1806 (anno decisamente più disteso, ricordato per i tre Quartetti “Razumowsky” e per la Quarta Sinfonia, opere che possono essere associate al Concerto in virtù di un simile luminoso marchio espressivo).
Accolto, decennio dopo decennio, da un galoppante favore della critica, nonostante non apporti particolari capovolgimenti formali né rivoluzionari squarci d’espressione, il Quarto Concerto è stato finalmente “piazzato” fra gli indiscutibili capolavori beethoveniani (ma non si dimentichi, a tal proposito, l’acido commento della Gazzetta di Lipsia dell’epoca: “Nel Concerto si trova tutto quello che vi è di più strano, di più sconclusionato, di più astruso”: segnale evidente di una difficoltà emotiva per l’ascoltatore di allora). Merito, invece, del marchio di libera improvvisazione, poco appariscente ma seduttiva, merito dell’affrancamento da ogni vincolo formale, merito dell’incanto di nuove sperimentazioni sulle sonorità, il lavoro attesta la completa maturità psicologico-spirituale dell’autore. Si può pertanto affermare che l’Op.58 chiuda definitivamente l’èra del concerto settecentesco ed inauguri una nuova avventura epocale per il solista: lo stesso prodigio che era avvenuto nelle grandi Sinfonie centrali e nelle Sonate per pianoforte si materializza ora nell’ambito del Concerto solistico.
Ai fini dell’(ormai) indiscussa autorità dell’Op.58, l’impalcatura formale non costituisce l’elemento di punta: lo sono invece l’equilibrata architettura dell’idea complessiva, la temerarietà di certe incursioni armoniche, la prodigalità dei temi, sviluppati “alla moda di una fantasia” (non per altro i vecchi critici sbarrarono gli occhi dinanzi a continui, sconcertanti “inaspettati musicali”); primo fra i meriti, il modo di “trattare” il pianoforte nei confronti della compagine orchestrale. Beethoven non intende più contrapporre solista e orchestra, come due sbarramenti corpo-a-corpo; ma considerare il pianoforte come uno dei suoi elementi integranti. E questa volontà di fusione fra piano e orchestra – inoppugnabile virtù dell’opera – si palesa proprio nella “speciale” omogeneità delle due dimensioni sonore (è sufficiente prestare attenzione all’incipit del Concerto – laddove il pianoforte presenta da solo un’idea tiepida e crepuscolare e viene sorretto, quasi aiutato, dall’orchestra senza il minimo squilibrio sonoro – per renderci conto delle affinità elettive tra questi mondi un tempo distanti anni-luce).
Fin dell’Allegro d’apertura la sonorità introspettiva, malinconica e crepuscolare, sembra essere l’epicentro dell’attenzione (dell’autore e dell’ascoltatore). Il primo tema (affermativo per tradizione) in questo caso è poetico e delicato – vera, grande innovazione -, mentre il carattere più “maschile” è relegato al secondo tema. Da segnalare, in questo movimento, gli inesausti mutamenti d’atmosfera, l’attenzione verso gli strumenti a fiato, soprattutto il lirismo sempre alto del pianoforte, che a volte sembra perfino permettersi impennate chopiniane prima di scivolare verso archetipi incantati.
Non meno innovative appaiono le sonorità del Rondò finale, movimento che chiude il Concerto: luccicanti e pulsanti, i suoi temi sottolineano il riaffiorare della vita dopo l’estasi dell’Andante e contribuiscono a fugare ogni mood saturnino. Lo spirito e la struttura del Rondò rimangono fedeli alla tradizione, ma libera è la condotta tematica e la scelta dei motivi stessi (un primo tema vivo e sincopato, un secondo più cantabile e svagato): due idee che determinano l’“alternanza ciclotimica” propria del nostro autore.
Discorso a parte richiede l’Andante, movimento tanto breve quanto intenso, nel quale Beethoven concentra la massima densità espressiva. In questa parentesi centrale non ritroviamo la levità del primo tempo ma ancora una volta, contrapposti, i tipici “poli” della dialettica beethoveniana: pagina di insuperabile emozione, tramata nel mistero, mai declamata, dove un destino d’addio rappresenta il karma del Concerto; e dove perfino il silenzio incarna un segno eloquente ai fini espressivi.
Isola felice, dunque, appartata dallo stile monumentale delle composizioni della stagione appena trascorsa.
Si può concludere dicendo che non è solo il numero d’opera a legare questo capolavoro pianistico alla Quarta Sinfonia Op.60 e al Concerto per violino Op.61. Se vogliamo dare ascolto ai critici più romanzati questo specifico carattere “dolce-luminoso” (i due aggettivi che più ricorrono nei testi critici) è il riflesso di un amore che per Beethoven si profilava sereno e appagante. Secondo alcuni, Josephine Brunsvik – figura appartata e dai contorni nebulosi – potrebbe essere la simbolica “dedicataria segreta” di queste tre opere leggendarie. Sul piano della realtà il Concerto Op.58 fu invece omaggiato all’arciduca Rodolfo che, proprio in questo periodo, aveva rafforzato l’amicizia e gli interessi musicali versi il compositore.
Dopo un’audizione privata nel palazzo del nobile-protettore Lobkowitz, la prima in pubblico si tenne nel leggendario concerto della vigilia di Natale 1808, al Theater an der Wien: concerto simbolico in quanto costituì l’addio di Beethoven al pubblico nel ruolo di solista.
Un’immancabile curiosità dell’allievo Ries, legata a questo Concerto: “Un giorno il Maestro venne da me portando il suo nuovo concerto sotto braccio, e mi disse: “Bisogna che lo eseguiate sabato prossimo, al Teatro di Vienna”. Feci notare che mancavano esattamente cinque giorni per andare in scena, e che non lo conoscevo affatto; e gli chiesi umilmente se, in alternativa, mi permetteva di eseguire il Concerto in Do minore (Op.37), che già conoscevo. Ovviamente Beethoven si seccò e si rivolse al giovane Stein, eccellente pianista, per quanto non gli fosse particolarmente simpatico. Il ragazzo, decisamente più scaltro di me, ebbe la prontezza di accettare. “Affare fatto”. Poi, quando si rese conto dei tempi folli per metterlo in piedi, alla vigilia del concerto si recò da Beethoven e gli comunicò – decisione ormai inappellabile – che avrebbe eseguito il Concerto in Do. A quel punto Beethoven fu costretto ad accettare…”
HAYDN – SINFONIA Op.104 “Salamon” o “La londinese”
Una delle denominazioni di questa Sinfonia trarrebbe giustificazione dalla parola “Londra”, apposta da Haydn sull’autografo accanto al proprio nome e alla data di composizione (1795). Anche se, nella realtà, tutte le sinfonie del periodo londinese recano sul manoscritto la stessa indicazione; per cui tale epiteto non sta ad indicare nessuna particolare suggestione londinese della Sinfonia. Spesso l’Op.104 viene anche ricordata come “Salamon”, dal nome dell’impresario che convinse Haydn, per ben due volte (e già ad “un’età veneranda, e pericolosa per i viaggi”: 58 anni!), ad affrontare il soggiorno nella capitale inglese. Nel 1790 l’impresario teatrale John Pieter Salamon convinse Haydn a recarsi, per una prima volta, a Londra e a partecipare alla stagione dei concerti da lui indetta, in qualità d’ospite d’onore (successo al di fuori d’ogni aspettativa: dodici i concerti nella sola stagione 1790, pranzi per duecento persone, deliri fra il pubblico, “tableaux vivants”, concerti supplementari, e per finire un’esecuzione leggendaria del Messia: “Haydn personaggio del giorno”). Il secondo soggiorno avvenne nel 1793: in seguito ad una nuova adesione del compositore ad un rinnovato invito di Salamon (ancora inchini della famiglia reale, pranzi a Burckingam Palace, fine-settimana nelle residenze del principe di Galles e dei duchi di York ecc.). Bilancio più che gratificante per un personaggio oramai definito l’”ospite fisso” di Londra: 26 concerti, circa 200 opere composte in Inghilterra, col contorno di un ricavo (tutt’altro che disprezzabile) di 24.000 fiorini…
Il soggiorno si chiuse nel 1795, proprio con la Sinfonia che ascoltiamo questa sera.
Siamo dinanzi all’”ultima fioritura” – così si esprimono i critici. Nelle due serie di Sinfonie “londinesi” (nn.93-98 e nn.99-104) l’apparato strumentale gode di una vistosa rivalutazione sia in termini di estensione (inclusione dei clarinetti, potenziamento delle trombe) sia nel senso dell’individuazione timbrica: i ritorni “di superficie” verso le convenzioni barocche si saldano con apparati della moda inglese, il tutto in linguaggio composito e maturo. Tratto saliente: in tutte le ultime Sinfonie – composte a Londra e per Londra – risulta evidente una vocazione già intravista negli anni ‘70-80, vale a dire l’”umanizzazione della musica” attraverso la semplificazione delle melodie (a volte affiorano frasi di una cantabilità quasi elementare, quasi sempre tratte dal foklore).
Sinfonia importante e simbolica, la n.104, perché fu proprio con quest’opera che Haydn si congedò dal mondo della sinfonia: pagina (frequentemente connotata col termine di) “moderna” ma allo stesso tempo genialmente conservatrice, in cui si controbilanciano i primi fremiti romantici con l’attaccamento ai modelli da lui perfezionati nel corso di cento e più Sinfonie. Lo stesso contrasto appare nelle vene dell’opera stessa: allo slancio innovatore del primo ed ultimo movimento fanno da contraltare la nobile fissità del movimento lento e la “normalità” del Minuetto, pagina che richiama alla ribalta, sebbene trasfigurate, formule collaudate.
Ad un’Introduzione dal valore emblematico, che va ben oltre allo spirito del settecento (non pochi hanno fatto ricorso al nome di Beethoven, maestro delle epigrafi iniziali) segue un Allegro di sostenuto vigore, per quanto prenda spunto da un tema apparentemente inoffensivo (bella l’espressione di Della Croce: “un motivo usato come una clava sonora, che scuote l’intera orchestra”). Importante soprattutto lo sviluppo, uno tra i più avanzati e intriganti della storia della sinfonia pre-beethoveniana, basato sulla trasformazione alchemica di un unico motivo (motivo, a sua volta, tratto dal primo tema). Nell’Andante Haydn si limita invece a riprendere contatti con il genere, stra-collaudato, del tema con variazioni. A tratti spinosa, puntellata di pause, irta di salti e sobbalzi, la melodia appare svagata e triste: come se una lenta melanconia avesse colto di sorpresa l’anziano compositore. Un momento magico: quando il flauto-solo dipana un nastro di struggente intensità, sbriciolando il tema; e quando i corni, opachi, fanno scendere la notte su questa pagina.
A seguire un Minuetto pomposo e ampolloso, che ricorda quelli delle Sinfonie che precedono (n.100 – n.101 – n. 102 – n.103), dove non mancano comunque le sorprese haydniane – un lungo arresto, un trillo generale, un’estrosa serie di cadenze. E’ quindi la volta del Finale, chiusura del mondo sinfonico haydniano: pagina che predilige la seria forma-sonata scavalcando la cornice più soave del tradizionale Rondò (scelta ardita, che lo avvicina ad un primo-movimento più che ad un Finale).
Preceduto da un magmatico pedale di violoncelli e corni, affiora il tema, ricavato da una melodia folkloristica: e l’unicità di questo Finale, il più organico e grandioso mai composto da Haydn, è proprio assicurata dalla presenza di quel singolare tema slavo che rispunta ad ogni pagina, per fare ancora capolino nelle ultime battute. La Sinfonia termina con una perfetta cadenza in Re maggiore: tonalità benedetta, da sempre la preferita di Haydn.
Citiamo, per chiudere, Della Croce: “Apparentemente chiuso in una corazza formale rimasta in fondo uguale per i 38 anni della sua attività di sinfonista, Haydn si rivela in certi passaggi, come proprio nell’Andante dell’ultima Sinfonia Op.104, il sognatore di un mondo di felicità, evocato, a volte con pazza insistenza, dalla voce solitaria di un flauto”…
Solidità e fragilità ad emblema di un genio.
Il Cast
Direttore: Antonello Manacorda
Pianoforte: Paolo Bordoni
Orchestra: Orchestra I Pomeriggi Musicali