Le date
Giovedì 18 maggio, ore 21 Milano – Teatro Dal Verme
Sabato 20 maggio, ore 17 Milano – Teatro Dal Verme
CICLO RUSSO
Direttore:
Pietari Inkinen
Violino:
Ilya Gringolts
Orchestra:
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Il programma:
Riz Ortolani(1931)
Omni Animo (commissione della Fondazione I Pomeriggi Musicali)
Pëtr Il’ic˘ Tchaikovskij(1840 – 1893)
Concerto in Re maggiore per violino e orchestra
Allegro
Adagio
Allegro
Suite n. 4 in Sol maggiore ‘Mozartiana’
Giga
Minuetto
Preghiera
Tema e variazioni
Il concerto:
a cura di Marcello Sirotti
Quando ci si appresta ad aprire le pagine di una partitura contemporanea, risulta praticamente impossibile, per una sorta di aspettativa a monte, prescindere dalle tendenze, dagli “ismi”, dall’orientamento comune che, in genere, identifica un compositore ed i musicisti che ne condividono i tratti stilistici. Avendo dunque fra le mani un lavoro di Riz Ortolani, il compositore che ha legato a doppio filo il suo nome alla musica per il cinema, diventandone un vero e proprio guru, sorge spontanea la curiosità di buttarsi a capofitto su un’enciclopedia di settore per scovare il legame che può unire uno scrivere tanto peculiare al nostro Omni Animo, “con tutto il cuore”, concepito per essere eseguito in un programma di concerto.
Ciò che ci colpisce immediatamente, alla voce “opere”, è l’impressionante numero di titoli cui il compositore pesarese ha dato voce nel corso di una carriera iniziata negli anni ’50 e proseguita fino ai nostri giorni senza conoscere soste né cedimenti. Ecco così che balzano all’occhio titoli che ormai appartengono alla memoria cinematografica collettiva (per citarne solo un paio: Il sorpasso, del ’62, e il recentissimo Il cuore altrove) e, ancor più nello specifico, More, uno di quei motivi trasmessi, cantati e fischiettati in ogni angolo del pianeta che hanno, in un certo senso, contribuito a “globalizzare” i gusti musicali dei cinque continenti.
Da Omni Animo è difficile aspettarsi, dunque, un approccio drammatico cerebrale e tormentato, così come una scelta semantica di frattura. Ortolani, la cui felicissima mano sinfonica è al di fuori di ogni discussione, è, altrettanto fuor di dubbio, un autore tradizionale (in senso tutt’altro che riduttivo) che ama rivolgersi all’ascoltatore con un linguaggio semplice e spontaneo. Non v’è spazio, nelle sue pagine, per labirinti sperimentali e se, sfogliandole, ci imbattessimo in incursioni atonali o effetti improbabili, sinceramente ne proveremmo disagio, perché il suo stile è altro. Omni Animo, composto da Ortolani in occasione dell’anniversario mozartiano, ne è, a riprova, una conferma classica nel senso più letterale del termine, poiché esula da qualsiasi bizzarria di scrittura, a costo di risultare anacronistica, e si affida interamente ad un discorso cristallino e brillante. Si deve tributare un omaggio a Mozart? Dunque, Mozart sia; nell’impalcatura generale, nelle linee melodiche, nell’impasto timbrico fra archi e fiati. Il brano è diviso in tre sezioni, facilmente riconoscibili dal cambiamento di metronomo. Una rassicurante struttura A-B-A, quindi, in cui trovano spazio, come da manuale, esposizione, breve zona intermedia e ripresa. Non vi è presenza alcuna di introduzioni o di preamboli: la composizione parte già a pieni giri, con i perentori violini primi a scandire il tema principale, tutto confezionato sul luminoso Re maggiore d’impianto, e gli altri strumenti a completare la trama sonora. L’impronta insomma, già dall’incipit, è quella di una musica fluida e gioiosa, che sfocia senza tanti complimenti nell’episodio a seguire, un intarsio contrappuntistico di cui Ortolani affianca le tessere con smaliziata padronanza. È, così, un movimento senza strappi quello che giunge alla brevissima parte centrale del brano, due facciate appena di Adagio, il cui compito è creare un’oasi tranquilla, nella quale la musica può tirare il fiato e concedere all’ascoltatore lo spazio per pensieri sereni. Qui il compito di distendere la linea melodica spetta all’oboe, strumento prediletto, per il forte tratto evocativo, dagli autori di musica per il cinema. Quasi alla ricerca di una filigrana barocca, Ortolani accosta il suo solista al solo impasto degli archi, mentre gli altri fiati attendono in silenzio la ripresa. Al servizio del melos si fa ampio uso, in questa che è a nostro giudizio la parte più pregiata ed originale di Omni Animo, di tutti gli accorgimenti in grado di dare man forte alle esigenze del “cantabile”: lunghe legature, salti misurati sulle note dell’armonia, dinamiche adeguate ai saliscendi naturali del fraseggio. Rinfrancato dall’area protetta di questa miniatura centrale, il lavoro di Ortolani può così riprendere la corsa verso la ripresa, specchio fedelissimo dell’apertura: stesso tema principale, stesso carattere brioso, stesso andamento orchestrale. Il cerchio, in una geometria a dir poco mozartiana, si va così a chiudere proprio dove cadevano le nostre aspettative, trovando nella conclusione rapida e decisa il fotogramma che Ortolani mille volte ha messo in musica sotto forma di happy end.
Quando allo zar Nicola I fu chiesto un parere sulla nuova ferrovia che avrebbe unito Mosca e Pietroburgo, il sovrano non stette a pensarci su tanto: si fece portare una mappa, un righello, e tracciò una linea retta, neanche una curva, fra le due città. Gli ostacoli naturali sarebbero stati problemi di poco conto: riguardo ai grandi progetti di rimodernamento del Paese si nutrivano speranze enormi e le casse imperiali non avrebbero badato a spese. Fra gli effetti collaterali di quel tratto di penna, che diede il via a una lunga lista di ciclopiche opere pubbliche, vi fu l’inizio delle smisurate fortune di Georg von Meck, dell’ambiziosa moglie Nadezda, destinata ad essere nel 1876 la vedova più ricca di Russia e, di riflesso, di Pëtr Il’ic˘ Tchaikovskij, che dell’eccentrica ereditiera divenne amico e confidente, con tanto di protezione artistica, intellettuale nonché, va da sé, finanziaria. Quello fra il musicista e la signora von Meck rimase peraltro, per reciproco accordo e per i 14 anni che durò, un immacolato rapporto epistolare, destinato a risolversi in un casto quanto fitto carteggio, fonte preziosa per accostarsi alla personalità a dir poco complessa del compositore.
Ottenuta una lauta rendita di 6.000 rubli l’anno, il musicista può, dunque, ritenersi ragionevolmente sollevato da qualsiasi assillo economico e, nel ’78, decide di abbandonare l’insegnamento al conservatorio di Mosca per dedicarsi interamente alla composizione. Nel frattempo si alleviano anche le ammaccature della disastrosa, recente esperienza matrimoniale e torna, fra una crisi di nervi e l’altra, un po’ di serenità. La vita di Tchaikovskijscorre così per anni lungo una sorta di alveo protetto, fra la regale residenza di Nadezda a Brailov, quella meno sontuosa ma altrettanto tranquilla della sorella a Kamenka e i frequenti viaggi di svago e ispirazione in occidente. Solo nell’84, il compositore corona il sogno di una casa tutta per sé, “una dimora isolata, con un giardino ove coltivare fiori… nella pace della campagna russa con la possibilità di raggiungere in ferrovia Mosca, in qualsiasi momento”. Nell’arco di tempo che corre fra la prima, timida lettera del 1876 e l’ultima, lapidaria, del ’90, il compositore si conferma il più acclamato autore russo, in patria e all’estero. Al centro esatto delle cose pur senza operare scelte di campo, il “classico” Tchaikovskijtraccia, sempre sul filo di una scrittura agrodolce ed ambigua, le cifre più efficaci del suo stile e conquista, senza lance né picconi, un ruolo di leader del proprio tempo musicale. Al tempo stesso deve fare i conti col contrappeso di un animo ipersensibile, ossessionato, da un lato, dalla convinzione di un destino avverso e inevitabile, dall’altro dalla cappa sociale di un “si dice” infamante che lo avvelena. È quindi fra i segni opposti di successi e contrasti, pubbliche onorificenze e privati conflitti che sgorga la sua prolifica, felicissima vena creativa. Fino all’ultimo; fino a quando, cioè, il tragico epilogo della Patetica chiuderà, con un capitolo tutto a sé, una biografia costantemente in chiaroscuro.
“Egregio Pëtr Il’ic˘!
Ritengo inopportuno dirle quale senso d’incanto abbiano destato in me le sue composizioni, perché ella è certamente avvezzo a ben altri omaggi e l’ammirazione di una creatura insignificante quale son io nel campo musicale non potrà che sembrarle ridicola…”.
Se la penna di Nadezda grondava incondizionata adorazione verso il compositore, non sempre altrettanto morbide erano le parole dei critici nei suoi confronti. A questo proposito, fece epoca quanto scrisse il temutissimo Hanslick al debutto del Concerto per violino, nel 1881: “Il nuovo pretenzioso concerto di Tchaikovskijsolo per qualche istante procede con musicalità, ma ben presto la rozzezza prende il sopravvento… il Finale ci trasporta nella brutale sfrenatezza di un’orgia russa, ci par sentire il puzzo di acquavite scadente”. Era questa la ciliegina sulla torta di un’accoglienza più che ostile, condivisa anche dal pubblico, che coronava di spine un brano nato già con non poca fatica qualche anno prima. Il Concerto vide la luce, infatti, nel 1878 a Clarens, sul lago di Ginevra, meta di un soggiorno di Tchaikovskijcon l’amico, nonché buon violinista, Josif Kotek. Alla fine di marzo il lavoro poteva considerarsi pronto e fu consegnato all’editore Jurgenson. Ma le prime difficoltà erano già dietro l’angolo: il celebre violinista Leopold Auer, cui il concerto era inizialmente dedicato, ne prese visione e lo giudicò, senza mezzi termini, “ineseguibile”. Fu quindi solo grazie al giovane e coraggioso Adolf Brodskij che il Concerto conobbe una tardiva prima esecuzione, a Vienna, solo 3 anni dopo la stesura e con gli esiti infelici cui si accennava poc’anzi. Eppure, nonostante una gestazione ed un esordio così problematici, il Concerto in Re maggiore ha saputo conquistarsi nel tempo un’enorme fortuna e, insieme a quelli di Beethoven, Brahms, Mendelssohn, appartiene giustamente al novero dei capolavori che ogni buon solista non può non avere in repertorio. La ragione di tale successo va ricercata, come spesso avviene in Tchaikovskij, in quell’abilità bifronte dell’autore a coniugare momenti sublimi e altri pericolosamente vicini all’ovvietà. Attento a non addentrarsi mai in noiose lungaggini, le righe più svenevoli riscattate da altre di gusto e fattura musicale indiscutibili, Tchaikovskij tesse così un canovaccio all’apparenza tutto istinto e ispirazione ma che, in realtà, è consapevolmente sostenuto da forme solidissime. Su queste fondamenta fa poggiare l’altro input essenziale di ogni concerto solistico: il virtuosismo. Il pubblico, in fondo, paga un biglietto anche, e a volte soprattutto, per assistere col fiato sospeso alle acrobazie sul palcoscenico; a questo punto al compositore non resta che una scelta obbligata: giocare la partita sul millimetrico equilibrio fra sostanza musicale e virtù pratica.
Il Concerto si compone di tre movimenti, affiancati secondo la consumata sequenza allegro-adagio-allegro. Non hanno proporzioni identiche, ma si presentano piuttosto come due grossi “blocchi” musicali (il I e il III tempo) separati da un momento elegiaco. Al I tempo, come quasi sempre succede, è affidato il compito espositivo dell’intero lavoro: l’orchestra appronta il terreno al solista, il quale fa il suo ingresso con una breve frase preparatoria, quasi sentisse il bisogno di “scaldarsi” le dita. Ma è davvero questione di un attimo: il tema principale, quel tema che un celebre spot televisivo degli anni ‘60 portò in tutte la case d’Italia, comincia da subito a sgorgare e circolare. Prima in tessitura bassa, poi sempre più squillante e ricco per giungere, fra rapide volate e balzi d’arco, al sinuoso secondo episodio, famoso quanto il primo. A pagina 15 (cioè all’inizio) della partitura, Tchaikovskij ci ha praticamente già mostrato, in germe, tutto l’arsenale sonoro della prima parte. Ora non resta che adeguarlo alle urgenze strumentali del solista, alle perorazioni a tutt’orchestra, alla funzione transitoria dei momenti di raccordo. La cadenza centrale, quella sorta di time-out in cui il violino è libero di dar sfoggio di bravura senza i rigori dell’accompagnamento, rappresenta in un certo senso lo spartiacque di questo primo movimento. Da qui in poi, e per una durata tutt’altro che breve, la musica scorre rapida e senza soluzione di continuità (Tchaikovskij non concede una sola battuta di respiro all’indaffaratissimo solista), fino a sfociare dapprima nella stretta finale, quindi nella perentoria coda conclusiva.
A tanta atletica esibizione, si contrappone la riservata purezza della Canzonetta centrale. È, questa zona intermedia, non terreno di sfide ma una pausa raccolta che Tchaikovskij regala all’ascoltatore; il solista, quasi sottovoce, ne sollecita la commozione e, non a caso, esce di scena prima della dissolvenza conclusiva. Il discorso, con meccanismo quasi teatrale, sembra chiuso, ma è proprio dall’approdo di un pianissimo vicino al silenzio che il Concerto spicca il balzo verso quell’Allegro vivacissimo che dovrà accogliere le ultime evoluzioni dell’interprete. Un procedere rapsodico, senza dubbio, costruito sull’impulso martellante del 2/4 e giocato sulle prodezze di un violinismo indiavolato ed incalzante; ma quanto slancio, quanto godimento “strumentale” in quei pentagrammi pieni di note.
Con buona pace di Hanslick, Tchaikovskij si congeda così dal Concerto quasi prendendo per mano il suo solista, per lanciarsi insieme a lui nella gioia vorticosa del gorgo finale. Non è questo tempo d’ansie e turbamenti, ora valgono solo le leggi della musica. Probabilmente lo stesso stato d’animo che ispirò una delle frasi più celebri dell’autore, destinata a sfidare il tempo: “Forse in cielo la musica non ci sarà; restiamo su questa terra, allora, finché la vita ce lo consente”.
Un Tchaikovskij quasi cinquantenne si dedica, nell’estate del 1887, alla Suite n.4 in Sol maggiore, detta Mozartiana. “Perché lei non ama Mozart? – scriveva a Nadezda in una lettera di quasi 10 anni prima – io non soltanto l’amo, io l’adoro. Potrei raccontarle cose a non finire a proposito di questo genio luminoso per il quale ho un autentico culto”. Dunque Tchaikovskij , vero e proprio fan, decide di rendere omaggio all’amato musicista salisburghese. Non, si badi bene, traendone generico spunto, bensì affrontando, sul finire dell’Ottocento, un curioso lavoro di recupero, in panni e spirito perfettamente settecenteschi. Il compositore, infatti, decide di approntare un’operazione che oggi diremmo di restyling del materiale mozartiano: sceglie quattro composizioni originali del grande Amadeus e, senza aggiungere o togliere alcuna battuta, salvo rarissime eccezioni, le trasferisce nella sua Suite. Il lavoro si concentra, in questo modo, in una manifattura di orchestrazione sopraffina e nella sfida non da poco di ricucire un abito di colori diversi sulle forme di modelli già compiuti, perfetti e universalmente conosciuti nella versione originale.
La Suite consta di quattro movimenti ma si potrebbe dividere, almeno per quanto riguarda la durata, in due parti più ampie. La prima raggruppa Giga, Minuetto e Preghiera; la seconda è formata, invece, dal corposo movimento costruito sul Tema e 10 Variazioni “Unser dummer Pöbel meint”, nel catalogo mozartiano la composizione K455.
Se di Giga, Minuetto e Variazioni finali si potrebbe dire che si tratta di realizzazioni di felice orchestrazione, in cui Tchaikovskijsfrutta al massimo l’organico a sua disposizione, un discorso a parte merita il tempo centrale, la Preghiera. Il compositore ripercorre le note del celeberrimo Ave verum corpus, il brano di Mozart da sempre prediletto dalle corali di mezzo mondo, passando però dai filtri di un altro famoso intermediario: Franz Liszt, la cui trascrizione è rispettosamente richiamata in partitura. 8 battute introduttive (che in Mozart non ci sono) quindi il tema purissimo che tutti conosciamo, ammantato da un suono d’arpa il cui sapore ottocentesco è a dir poco inconfondibile. Si compie così, grazie all’impareggiabile mano che sa trasformare tali risvolti timbrici in argomento fondante, quella che probabilmente era l’intenzione originaria del compositore: rendere non solo un pensiero devoto ma, quel che più conta, anche un tributo sostanziale all’amato Maestro, senza perdersi nelle sterili secche di un esercizio di stile.
Gli interpreti:
Pietari Inkinen – direttore
Inizia a studiare direzione d’orchestra con Jorma Panula a quattordici anni e proseguei con Leif Segerstam e Atso Almila al Corso di Direzione dell’Accademia Sibelius. Partecipa poi alle masterclass di Neeme Järvi e nello stesso periodo viene invitato a dirigere con la Filarmonica di Helsinki, l’Orchestra Sinfonica di Milano G. Verdi, la Sinfonica Scozzese della BBC, la Filarmonica di Hong Kong, la National Arts Center Orchestra di Ottawa, la Sinfonica di Toronto (con Pinchas Zukerman come solista), la Rheinland-Pfalz Philharmonie e l’Orchestra Nazionale Lituana. Nella stagione 2003/04 torna ad esibirsi con la Filarmonica di Helsinki e l’Orchestra Sinfonica della Radio Finlandese, l’Orchestra Sinfonica della Radio di Vienna, la Filarmonica di Rotterdam, la Filarmonica di Oslo, l’Orchestra della Radio Svedese, l’Orchestra Sinfonica della Radio dei Paesi Bassi, la Lahti Symphony, l’Orchestre National de Lille e l’Orchestre de Bretagne, la Bournemouth Symphony, la Filarmonica di Hong Kong, le Orchestre di Melbourne e del Queensland, la Sinfonica della Nuova Zelanda, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, l’Orchestra dell’Arena di Verona e l’Orchestra di Roma e del Lazio.
Ilya Gringolts – violino
Vincitore del Concorso Internazionale “Premio Paganini” nel 1998, appena sedicenne, ottiene anche due premi speciali: come più giovane concorrente della storia ad essere arrivato in finale e come migliore interprete dei Capricci di Paganini. Studia violino e composizione alla Scuola di Musica Speciale di San Pietroburgo con Tatiana Liberova e Jeanna Metallidi ed alla Juilliard School di New York con Itzhak Perlman e Dorothy Delay. È inoltre uno dei dodici giovani artisti selezionati dalla BBC per il New Generation Artists Scheme. Si esibisce con la Chicago Symphony Orchestra diretta da Daniel Barenboim, la UBS di Verbier diretta da Kurt Masur e Mstislav Rostropovich, l’Orchestra Sinfonica della Radio di Vienna, la Filarmonica di Israele con Zubin Mehta, la Filarmonica di San Pietroburgo con Yuri Temirkanov, la Deutsche Symphonie Orchester di Berlino, ai Proms con la BBC Philharmonic e Vassily Sinaisky, con la Filarmonica di Rotterdam con la London Philharmonic, con la Sinfonica di Atlanta, la Sinfonica di Birmingham, la BBC Symphony, la Filarmonica di Varsavia, l’Orchestra da Camera Svedese e l’Orchestra Sinfonica della Nuova Zelanda. Appare di frequente in recital sulla BBC e si esibisce in sale rinomate quali il Louvre di Parigi, il ‘Palais des Beaux Arts’ di Bruxelles. È inviato al Festival di Bergen e al City of London Festival. È ospite regolare di festival internazionali quali La Jolla e Verbier, dove collabora tra gli altri con Bashmet, Levine, Shaham, Kirshbaum, Ax e Andsnes. Registra in esclusiva per Deutsche Grammophon. Suona un violino Stradivari ex-Kiesewetteri del 1723, su concessione di Clement Arrison e grazie alla generosa intercessione della ‘Stradivari Society’ di Chicago.
Il Cast
Direttore: Pietari Inkinen